Un amore del bibliofilo
(1) - Tersite Rossi
Prima parte
Alla donna del treno
La prima volta che la vidi, sul treno, stava leggendo un
libro. Era già a bordo quando salii. La notai subito e mi sedetti di fronte a
lei. Era un’assolata mattina di settembre, faceva ancora caldo. Andavo in
città, all’università. Avevo un esame da dare e volevo ripassare, durante il
tragitto. Ma non lo feci. Rimasi ipnotizzato da lei. Non penso ci sia immagine
più erotica di una donna immersa nella lettura di un libro. Se poi quella donna
è giovane e bella com’era lei quella mattina, illuminata dalla luce radente, e
il libro è Delitto e castigo di Dostoevskij, beh, allora
quell’immagine può apparirmi come qualcosa di vagamente metafisico, e potrei
restare a contemplarla in eterno. Peccato che quel viaggio durasse invece
soltanto mezzora. Arrivammo al capolinea: io scesi, lei scese. E andammo
ciascuno per la propria strada. La guardai allontanarsi, sagoma sempre più
piccola. Fino a scomparire, come fosse stata solo una visione.
Mi laureai. Trovai lavoro in città, ma non mi ci
trasferii. Continuai a fare il pendolare, come quando ero studente. Poi, un
giorno, tre anni dopo quel primo incontro, la rividi. Eravamo di nuovo sul
treno. Era ancora più bella di come la ricordassi. Appena la rividi, tornai
subito con la mente a quel giorno di settembre. Non era cambiato poi molto, in
fondo. È in occasioni come queste che si può pensare alla vita non come a una
linea, ma un cerchio; nient’altro che un insieme di situazioni, che solo per
comodità poi ordiniamo cronologicamente. Erano davvero trascorsi, in fondo,
quei tre anni? Io ero ancora lì, seduto su quel treno. E lei pure. Ancora
bella. Ancora sprofondata nella lettura. Buttai l’occhio. Leggeva Kafka: Il
processo.
Anch’io leggevo sempre, in treno. Lo prendevo quasi tutti
i giorni da ormai sette anni, ma non amavo chiacchierare con i pendolari come
me, le solite facce che vedevo quotidianamente. Non avevo amici, fra loro. E i
pochi conoscenti cercavo di evitarli. Non volevo essere costretto alle insipide
battute di circostanza, sulla banchina e poi a bordo. Odiavo quella stupida
convenzione sociale che impone a una persona, se ne incontra un’altra con cui
non avrebbe mai scambiato mezza parola altrove, di conversare con lei solo perché
stanno facendo lo stesso tragitto. Non amavo granché le relazioni sociali, io.
Mi piaceva starmene da solo. In fondo, la sola cosa che mi piacesse al mondo,
leggere, era un’attività solitaria.
Dopo quella seconda volta, la rividi con frequenza.
Salivo a bordo e la cercavo con gli occhi. Se non la vedevo, mi rammaricavo, ma
non andavo a cercarla: sarebbe parso eccessivo, e non avrei mai voluto attirare
la sua attenzione in quel modo, lasciarle pensare che la seguissi, la
pedinassi. I nostri incontri dovevano essere casuali. Perciò, non riuscivo più
di tre o quattro volte al mese a fare il viaggio seduto vicino a lei.
Quando succedeva, chi ci avesse osservati non avrebbe mai
sospettato che da parte mia ci fosse un qualche interesse nei suoi confronti:
rimanevamo entrambi immersi nella lettura dei nostri libri, praticamente per
l’intero tragitto. Solo raramente io alzavo il capo e la guardavo. Non
incrociavo mai i suoi occhi, in quei casi. Ma mi piaceva pensare che anche lei
ogni tanto facesse lo stesso, e mi sogguardasse mentre leggevo. In fondo,
facevamo entrambi una cosa ormai inconsueta. Le altre persone, durante il
viaggio, se non erano prese dalle loro vuote chiacchiere, per lo più
consultavano i loro smartphone. Qualcuno, forse, leggeva anche un libro. Ma
erano libri elettronici. Intangibili. Invisibili. Inesistenti. Gli unici reali,
per me, erano quelli di carta. E di quelli non se ne vedevano quasi più. Così,
io e lei sembravamo usciti da un altro mondo, un mondo antico. E i nostri libri
sembravano vecchi oggetti, cimeli di un’altra epoca, bizzarrie. Mi piaceva
condividere con lei questa condizione di diversi.
Dopo tutti questi anni, ricordo ancora bene ogni titolo
che stavo leggendo le volte che viaggiai accanto a lei, su quel treno. Tengo
quei libri, quasi un centinaio, in un posto a parte, nella mia libreria, che
ormai ha assunto, col tempo, le dimensioni di una vera e propria biblioteca. E,
più di altri, ne ricordo tre in particolare. Quelli che stavo leggendo le
uniche tre volte che, in qualche modo, io e lei ci ritrovammo a interagire.
La prima volta accadde a dieci anni esatti dal nostro
primo incontro. Io ero da poco uscito dall’unica storia sentimentale della mia
vita. Con una donna più vecchia di me. Era andata avanti per un anno, poi mi
disse di averne abbastanza di uno che pensava più ai libri che a lei. Faceva la
bibliotecaria e l’avevo conosciuta chiedendole alcuni consigli di lettura. Me
ne aveva dati di buoni. Anche lei amava leggere. Ma non quanto me. Stavo
leggendo una raccolta di racconti che proprio la mia ex mi aveva
suggerito, Puttane assassine di Bolaño, quando per la prima
volta io e la donna del treno, come tra me e me avevo preso a chiamarla, ci
scambiammo qualcosa di più della nostra muta presenza. Accadde proprio grazie a
Bolaño, di cui lei, quel giorno, stava leggendo I detective selvaggi.
Avevo notato con piacere la coincidenza non appena mi ero seduto. Quando, a un
certo punto, alzai gli occhi nuovamente, non la ritrovai a fissare la pagina,
come sempre, ma me. Incrociammo così per la prima volta i nostri sguardi. Anche
lei si era accorta che pure io leggevo Bolaño, e mi stava sorridendo. Sorrisi
anch’io. Durò solo alcuni attimi. Poi, sia io che lei tornammo chini sui nostri
libri. Non accadde altro. Quando il treno si fermò, ce ne andammo ognuno per la
propria strada. Come sempre. Avremmo entrambi continuato a comportarci come se
quella fugace occhiata tra noi non ci fosse mai stata.
La seconda interazione vi fu sei anni dopo. Avevo già
superato i quaranta, e non li portavo affatto bene. Magagne varie stavano già
intaccando il mio fisico. Invece lei, che doveva avere almeno cinque anni meno
di me, non invecchiava per niente, e tra noi la differenza in termini d’età
adesso appariva marcata quanto quella che c’era sempre stata in termini di
bellezza. Poco male. Non avevo mai davvero pensato a lei, nemmeno all’inizio,
come a una persona con la quale sperare di avere una relazione sentimentale.
Del resto, a quell’epoca, già non pensavo più alla possibilità di legarmi
sentimentalmente a qualcuno. Bastavo a me stesso. Com’era sempre stato, in
fondo. Quella mattina, il libro che avevo in mano era Viaggio al
termine della notte di Celine. Ci ritrovammo seduti di fronte per
puro caso. Quella volta, infatti, non l’avevo cercata. Avevo trovato un posto
libero e solo dopo mi ero accorto di lei. Destino, avrebbe detto qualcuno.
Galeotto, si fa per dire, fu Joyce. Lei tirò fuori dalla borsetta l’Ulisse e,
forse per il peso del tomo, forse per le dimensioni, il volume le cadde a
terra. Vedere un libro che cade, per me, è come veder cadere una persona. Non
persi tempo e mi chinai a raccoglierlo. Ne spolverai la copertina e glielo
consegnai. “Grazie”, mi disse lei. “Prego”, risposi io. Furono le prime parole
che ci scambiammo dopo sedici anni di viaggi sullo stesso treno.
Furono anche le uniche. E lo sarebbero rimaste per altri
sedici anni. Anche perché, a un certo punto, non la vidi più. Smise di prendere
quel treno. Fu un duro colpo. Svegliarmi ogni giorno nella speranza di
ritrovarmi seduto vicino a lei era un pensiero che mi aiutava ad affrontare le
mie noiose giornate. Gli anni mi erano scivolati addosso come bisce sull’acqua
e di colpo, da un giorno all’altro, ero diventato vecchio. Un vecchio come
quelli che osservavo con distacco quando ero giovane, senza credere che un
giorno avrei potuto diventarlo anch’io. Ormai facevo fatica a pensare ancora
che la vita fosse un cerchio e non una linea, dritta esattamente come un
binario. Un binario che correva inesorabile verso la morte e il nulla. Nonostante
il pessimismo, o forse proprio per quello, non avevo mai, in ogni caso, smesso
di leggere.
Seconda parte
La mattina che la rividi, su quel treno,
stavo leggendo l’Odissea di Omero: una lettura che colpevolmente,
nella mia vita da bibliofilo, non avevo ancora affrontato, per lo meno
integralmente. Erano passati molti anni dall’ultima volta che l’avevo vista.
Stavolta non potei fare a meno di notare che il tempo non aveva risparmiato
nemmeno lei. Era invecchiata. Molto. Ma non aveva smesso di essere bella, a suo
modo. Né di leggere. Aveva con sé Alla ricerca del tempo perduto di
Proust. Il settimo volume, l’ultimo: Il tempo ritrovato. Vidi che
ormai era arrivata in fondo anche a quello. Io non c’ero mai riuscito. Mi ero
fermato a metà del secondo volume. Pur trovandola un’opera straordinaria in
molti passaggi, quella mole mi aveva presto sopraffatto e avvilito, inducendomi
infine a gettare la spugna: mi era parso un delitto dover dedicare a una sola
opera lo stesso tempo in cui ne avrei lette almeno altre sette. Ma ora che
sentivo anch’io di aver perduto quasi tutto il mio tempo, mi chiedevo se non
fosse stato un errore, quello. Come tanti altri. Come il più grande di tutti, forse:
non aver mai provato a parlare alla donna del treno. La sola donna della mia
vita, senza che lei lo avesse mai nemmeno saputo. La guardai a lungo. Poi presi
il coraggio a due mani e, con la sensazione netta, quasi certezza, che quella
sarebbe stata la mia ultima possibilità, decisi di non lasciarmela sfuggire.
- Le è piaciuto?
Dopo un attimo di esitazione, lei
sollevò lentamente lo sguardo dal libro e lo posò su di me. Sembrava sorpresa.
Forse nemmeno più si ricordava di avermi mai visto. Di avermi sorriso, una
volta. E ringraziato, un’altra. Tanto, troppo tempo prima.
- Intende il libro?
- Sì.
Ci pensò su qualche istante.
- Beh, non si dovrebbe giudicare
un’opera prima di averla letta tutta, fino all’ultima parola.
Mi sentii arrossire. Non pensavo di esserne
ancora capace.
- Ha ragione. Mi perdoni, era una
domanda stupida.
Sorrise.
- Comunque, sì: mi è piaciuto. Era una
lettura da fare, prima di morire.
Quella frase, così cupa, mi gettò
nell’imbarazzo. Parlai di nuovo solo per uscirne.
- Io l’ho interrotta molto tempo fa. Ma
mi piacerebbe riprenderla.
Sorrise ancora.
Poi calò di nuovo il silenzio. Quel
silenzio che c’era sempre stato, fra noi. Ma stavolta lo sentii pesante.
Insopportabile. Sentivo l’urgenza di recuperare il tempo perduto e dirle tutto
quello che non le avevo mai detto.
- Si ricorda di me?
- Certo che mi ricordo. Lei è l’uomo del
treno.
Ebbi un tuffo al cuore.
- L’uomo del treno?
- Sì, quello che si sedeva vicino a me.
E, come me, leggeva. Sempre.
Il cuore mi batteva come impazzito.
Nemmeno di quel battito accelerato mi credevo più capace.
- Allora mi notava?
- Certo che la notavo.
- Non l’avrei mai detto. Sa, sono più di
trent’anni che io...
Non mi vennero le parole. Che io cosa?
Cos’era, quella specie di legame che avevo cercato di costruire con lei? Come
si poteva definire?
- Trent’anni che legge con me? -
s’inserì lei nel mio silenzio esitante.
Già, forse era proprio quello il modo.
- Sì, diciamo così. Anche lei per me era
la donna del treno.
Sorrise ancora una volta.
- Ho aspettato a lungo che si facesse
avanti, sa? - mi disse con occhi che mi parvero di colpo farsi umidi. - Ma lei
era esattamente uguale me, in tutto: non lo avrebbe mai fatto. Bastava a se
stesso. E, come me, aveva paura. Paura della relazione. Non è così?
Chinai il capo, affranto.
- Sì - dissi - è proprio così.
Il treno stava iniziando a rallentare.
Tra poco sarebbe arrivato in stazione. Il capolinea.
- Ma adesso, come vede, finalmente l’ho
fatto.
- Già - disse lei, senza nascondere
un’evidente amarezza.
- Forse da oggi noi due potremmo... -
rilanciai io, improvvisamente pieno di un’energia che non avevo mai avuto.
- No - m’interruppe. - È troppo tardi.
Tre anni fa ho scoperto di avere un tumore. Ho lottato. Sembrava che ce la
potessi fare. L’avevo quasi sconfitto. Ma pochi giorni fa i medici mi hanno
detto che si è riformato. E che stavolta non c’è nulla da fare.
Le ultime parole mi arrivarono come
ovattate. Lo stesso sferragliare del treno non era altro, ormai, che un
semplice ronzio di sottofondo. Il cuore, dopo tanto battere, sembrò volersi
fermare. Respiravo a fatica.
- Stamattina sono salita su questo treno
- proseguì - nella speranza di rivederla l’ultima volta. Volevo salutare l’uomo
del treno. Non a parole, s’intende. Non avrei mai sperato che riuscissimo a parlarci.
Mi sarebbe bastato leggere un’ultima volta accanto a lei.
Fu a quel punto che iniziai a piangere.
E lei con me.
Il treno si arrestò.
Scendemmo.
La gente ci passò accanto, andando di
fretta, com’eravamo andati di fretta noi due, tante altre volte, in quello
stesso posto, per trent’anni.
Alla fine, ci ritrovammo da soli.
Ci guardavamo negli occhi, ma non
osavamo toccarci. Tristi e deboli com’eravamo, avremmo potuto anche romperci.
- Voglio rivederla ancora - le dissi. -
Fino alla fine.
Lei scosse la testa.
- Meglio di no. Non sarebbe per niente
letterario, sa? Sarebbe solo patetico.
Mi asciugai una lacrima.
- È un addio, quindi?
- Sì.
In quell’attimo l’altoparlante annunciò
l’imminente partenza del treno che l’avrebbe riportata indietro, col suo nuovo carico
di passeggeri, anche loro frettolosi, anche loro avviati sul binario che li
avrebbe avvicinati un poco di più alla morte e al nulla.
Lei, senza dirmi altro, si voltò e vi
montò sopra.
Attraverso i vetri la vidi prendere
posto. Poi abbassò il finestrino e mi allungò il suo libro.
- Lo finisca lei.
Io spostai lo sguardo attonito da lei al
libro, poi ancora su di lei. Infine accettai il dono, stringendolo forte fra le
dita.
- Me lo promette? - mi chiese.
Il treno sbuffò, pronto a ripartire.
- Sì! - mi ritrovai quasi a gridare. -
Lo finirò! Glielo prometto!
Il treno si mosse.
Iniziai a salutarla sventolando il
libro.
Lei si fece sempre più piccola. Fino a
scomparire, come fosse stata solo una visione.
Non seppi più nulla di lei, perché, in
fondo, nulla di lei sapevo, al di fuori dei nostri incontri sul treno.
Ho terminato la lettura di Proust.
Da allora ho iniziato a scrivere.
E dedico tutti i miei romanzi a lei.
E i miei racconti, come questo.
Alla donna del treno.
Una dedica senza nome.
Perché non ho mai saputo nemmeno quello.
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