Giù la maschera! Il volto è condizione primaria di riconoscimento dell’Altro e dunque di sé
Il potere ha calato la maschera e mostrato il suo volto, che sia il ghigno
da pescecane del Primo Ministro, o il faccione curiale e mellifluo del titolare
del MIUR. Fattezze che si combinano l’un l’altra alla perfezione e che
campeggiano al centro delle fotografie che li ritraggono senza mascherina in
mezzo a classi ed insegnanti naturalmente plaudenti, naturalmente imbavagliati.
Immagini che ci consegnano, con irrefutabile evidenza, lo stato delle cose,
l’abissale differenza fra noi e loro, il nostro statuto di sudditi contenti di
esserlo. Non solo: esse sottolineano, a conclusione di un anno scolastico
contrassegnato da pesanti, incostituzionali ed inedite discriminazioni nei
confronti di alunni e personale non vaccinato, che la scuola è il terreno di
elezione per la fabbrica dell’obbedienza, il terminale di un’articolata catena
di comando, l’humus più fertile per il condizionamento delle condotte, con
buona pace per chi ha pensato, come chi scrive, che essa possa e debba
trasformarsi in luogo di messa in discussione dell’esistente, in virtù della
centralità che vi dovrebbero occupare le sovversive arti dell’argomentare razionalmente
e del conoscere criticamente.
Ad essere messa in discussione, invece, è la scuola come luogo di
formazione alla libertà intellettuale e civile e all’eguaglianza, se non altro
formale, dei cittadini, categoria storica, politica e giuridica della quale,
d’altra parte, le misure di contrasto alla pandemia hanno accelerato il
dissolvimento, a vantaggio di una cittadinanza condizionata, autorizzata e a
scadenza.
Le mascherine, il cui valore simbolico è stato non a caso rimarcato da
diversi esponenti governativi di fronte alle numerose perplessità espresse in
merito alla loro effettiva efficacia e sicurezza da parte di tanti medici e
scienziati, investono un aspetto fondamentale della nostra relazione con il
mondo che è quello del nostro rapporto con l’Altro, a partire dal volto che
incontrandone un altro sprigiona domande che sollecitano risposte.
Il legame tra alterità e volto è, come è noto, al centro della riflessione
filosofica di Emmanuel Lévinas che in Totalità e infinito identifica
il volto con il modo in cui si presenta l’Altro. Questo volto non è la somma di
ciò che lo caratterizza, non si riduce a pura anatomia, tanto meno a maschera;
la sua vera natura risiede piuttosto nella domanda che mi rivolge che è al
contempo richiesta di aiuto e minaccia, non solo implica la relazione, è relazione.
Nell’epifania del volto dell’Altro si scopre che il mondo è proprio nella
misura in cui si può condividerlo con l’Altro.
Il volto, che è condizione primaria di riconoscimento dell’Altro e dunque
di sé, apertura verso la comunicazione e l’assunzione di responsabilità che
essa comporta, si espone a rischi, come tutto ciò che va oltre la mera
conservazione di se stesso, che esce dalla autoreferenzialità.
Ora, è questo volto che la mascherina sottrae allo sguardo dell’Altro e
rinserra in un universo solitario dominato dalla paura, dalla diffidenza,
dall’istinto di autoconservazione spacciato per patto di reciproca sicurezza.
Alla mirabile e sorprendente diversità dei volti che incontrandosi fanno
esperienza dell’Identico e del Diverso, si oppone l’uniformità dei volti
mutilati. Unica differenza ammessa – d’altronde, al consumatore la libertà di
scelta in qualche modo va sempre garantita – quella del colore della
mascherina.
Non è casuale che il suo uso, limitato per il momento, per benevola
concessione dei governanti, a determinati contesti sia invece rimasto
obbligatorio a scuola, a dispetto del gran caldo del mese di maggio e della
mancata installazione dei sanificatori d’aria. (Quanto ai condizionatori,
essendo tutti gli studenti e i docenti schierati per la pace, non è nemmeno il
caso di parlarne …).
Le nuove generazioni, infatti, non solo vanno educate al conformismo e alla
sudditanza, pure con massicce dosi di pedagogia della paura, la quale
occhieggia dietro la mordacchia messa sul viso, ma rappresentano anche la carne
viva di una vera rottura antropologica. Esse sono deputate a realizzare appieno
la medicalizzazione dell’esistenza (spendibile, all’occorrenza, come
formidabile ricatto di fronte ad eventuali conflitti politici e sociali) e la
trasformazione dell’Altro da fondamento vitale e crocevia di senso a incubatore
e diffusore di virus, incarnazione post-moderna dell’homo homini lupus che già
ha corso ringhiante le inospitali praterie neoliberiste, sbranando
vincoli comunitari, solidarietà di classe, legami affettivi.
Nell’universo indistinto delle mascherine, dove la sola differenza ammessa
è quella della United Colors alla Benetton, c’è però qualcuno più uguale degli
altri che il proprio volto lo può esibire, anche se farebbe molto meglio a
nasconderlo.
I sovrani francesi nel Medioevo erano ritenuti depositari di sovrannaturali
poteri taumaturgici attraverso l’imposizione delle mani, ciò che richiedeva,
perlomeno, uno sporadico contatto fisico con i sudditi; i nostri regnanti,
invece, danno l’impressione di essere in possesso di una miracolosa immunità,
non tanto rispetto al virus con cui hanno continuato a bombardarci per due
lunghi anni, ma alla decenza, o meglio a quella che George Orwell chiamava common
decency che non è semplicemente rispetto del decoro.
Infatti, la maschera arrogante e predatrice del potere e la sua
controfigura compassata e sermoneggiante del munus conoscono
solo l’esenzione dal vincolo e dalla responsabilità, non certo la disponibilità
al dono che istituisce reti di reciprocità, uno scambio paritario faccia a
faccia.
Nessun commento:
Posta un commento