Partendo
dall’esperienza dell’impegno quotidiano con i migranti della Rotta balcanica,
cerco di pensare la politica come ricerca della capacità di fare esperienza: nel significato
benjaminiano del termine. Mi sembra opportuno, a questo proposito,
riprendere la fondamentale riflessione di Walter Benjamin sulla perdita
dell’esperienza (Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi 1982, trad.
R. Solmi). Benjamin ha avuto questa singolare esigenza di comprendere la
dinamica storica profonda della perdita della possibilità di fare esperienza
(Erfahren) propria della modernità capitalistica, cogliendo l’intimo nesso di
soggettività e collettività:
“con la
guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più
arrestato” (p. 248): “nel sostituirsi dell’informazione alla più antica
relazione, e della ‘sensazione’ all’informazione, si rispecchia l’atrofia
progressiva dell’esperienza” (p. 93). “Gli interessi interiori dell’uomo non
hanno già per natura questo carattere irrimediabilmente privato, ma lo
acquistano solo quando diminuisce per gli interessi esterni, la possibilità di
essere incorporati alla sua esperienza. Il giornale è uno dei tanti segni di
questa diminuzione. Se la stampa si proponesse di far sì che il lettore possa
appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza,
mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto ed
essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito
in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore” (p. 92).
Quello che
Benjamin coglieva nella diffusione primonovecentesca della stampa e anche nella
diffusione della fotografia e del cinema, oggi noi vediamo esplodere in ciò che
viene chiamata “infosfera”. Benjamin rileva che la matrice di questa dinamica
storica profonda deriva dall’organizzazione capitalistica del lavoro, in cui,
secondo Marx, “non è il lavoratore a utilizzare la condizione lavorativa, ma la
condizione lavorativa a utilizzare il lavoratore” (p. 111). L’organizzazione
capitalistica del lavoro è basata sul “calcolo del tempo che
sovrappone la sua uniformità alla durata” (p. 121) rendendolo “omogeneo e
vuoto”. Trasforma la qualità in quantità, mediante quella efficacissima
modalità di relazione sociale puramente quantitativa che è il denaro,
effetto appunto di quel “calcolo del tempo”. Sul potentissimo impulso
elettronico, la trasformazione quantitativa è divenuta il modello implicito ed
esplicito di una capillare forma di socializzazione ormai mondiale: trasformazione
della vita in prezzo.
La logica
del mercato e la guerra
Benjamin,
inoltre, coglie anche il nesso fra organizzazione capitalistica del lavoro –
quindi logica di mercato – e guerra, che oggi sperimentiamo acutamente e con
modi anche di grottesco conformismo nella crisi in Ucraina e diffusamente nel
mondo:
“appartiene
forse alla preparazione della società alla guerra totale che l’esercizio
emigri, dalla prassi produttiva, a quello della distruzione”(p. 111, nota).
La durata,
nel significato benjaminiano, è l’esperienza intensiva del tempo proprio della
singolarità soggettiva. È la durata a consentire il rapporto profondo fra
soggettività e collettività:
“Dove c’è
esperienza nel senso proprio del termine, determinati contenuti del passato
individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato
collettivo. I culti con i loro cerimoniali, con le loro feste … realizzavano di
continuo la fusione fra questi due materiali della memoria. Essi provocavano il
ricordo in epoche determinate e restavano occasioni e appigli di esso durante
tutta la vita” (p. 93).
Totalitarismo
morbido
Con diverso
sguardo, Günther Anders, un autore la cui importanza si incomincia
oggi a comprendere, prosegue la ricerca del cugino Benjamin. Direi anzi che,
sul tema dell’esperienza, è colui che ne ha meglio colto l’importanza. Uno
dei suoi filoni di ricerca più interessanti, infatti, è la discrepanza fra il
produrre e l’immaginare. Da questa indagine nasce l’efficace concetto di
totalitarismo morbido, riferito, appunto, alla capillare espansione attuale
della produzione di strumenti di controllo della possibilità di fare
esperienza. Parte essenziale del “fare esperienza”, infatti, non è la mera
percezione dell’accadimento, ma la capacità di immaginarne le conseguenze. Fare
esperienza è una dimensione essenzialmente temporale, in cui lo spazio è
subalterno al tempo: immaginazione, appunto.
Nel tempo in
cui ci troviamo a esistere, la capacità di fare esperienza, cioè di immaginare
le conseguenze del dominio assoluto di quella chi può chiamare la Cultura del
Mercato – ci dice Anders – significa immaginare l’apocalisse. Il
rischio dell’apocalisse non riguarda solo l’arma atomica – spunto iniziale del
pensiero di Anders – ma anche, oggi soprattutto, l’inarrestabile attacco alle
fonti della vita, in innumerevoli modi diffusi come l’aria che respiriamo: “Tra
la nostra capacità di produzione e quella d’immaginazione, si è aperta una
frattura, e … questa si allarga di giorno in giorno” (Noi figli di Eichmann,
Giuntina 1995, p.30). La produzione di merci ha preso il comando della
vita. “Viviamo nell’era dell’incapacità di provare angoscia” (249): ci grida
Anders. Siamo “analfabeti dell’angoscia”. In tal senso, come titola un suo
testo, “siamo tutti figli di Eichmann”. Ma, mentre Eichmann era incapace di
provare angoscia in mezzo all’orrore nel cuore del totalitarismo razziale con i
suoi vistosi riti di morte di massa, noi viviamo nell’epoca del “totalitarismo
morbido” che sta trasformando “il mondo intero in campo di concentramento”
(cit., p. 69). Senza che ce ne accorgiamo. Non siamo, infatti, in
grado di fare esperienza, di immaginare cioè una vita altra da quella che ci
viene ogni giorno rappresentata e consegnata nell’universo mediatico, in cui
siamo immersi come in una nube oppiacea.
«La
morbidezza del tipo di totalitarismo chiamato “conformismo” non è affatto un
segno di umanità. Se siamo trattati con mitezza, questo è dunque un segno della
nostra sconfitta. […] Il conformismo non è sanguinario soltanto perché ci ha
già inghiottiti; perché ormai può risparmiarsi di fare i conti con il sorgere
di quella opposizione per la cui liquidazione il totalitarismo di ieri aveva
bisogno o credeva di avere bisogno del terrore. Il conformismo è mite perché
può permettersi di rinunciare alla minaccia e allo spargimento di sangue». (G.
Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca
della terza rivoluzione industriale, cit., pag. 249.)
La relazione
con l’altro
La politica,
allora, come trasformazione dell’inaccettabile, deve partire dalla
ricostruzione della possibilità di fare esperienza. “Esperienza” implica in
primo luogo relazione con l’altro da sé. Alla base dell’esperienza c’è la percezione che
l’intrinseca relazione con l’altro costruisce il “sé”, nel gioco continuo fra
“io” e “sé”, costitutivo di ciò che Hannah Arendt chiamava “l’insorgenza”
dell’unicità soggettiva “poiché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo
tale che nessuno è mai identico a nessun altro che visse, vive o vivrà”: “la
pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri unici” (Vita Activa,
Bompiani 2001, pp. 8 e 128). Questa relazione è alla base di ciò che chiamiamo
“politica”. Ma, contrariamente a quel che sosteneva Hannah Arendt, io ritengo
che non ci sia differenza fra una dimensione “privata” e la dimensione
collettiva o “politica”. Questa differenza è il frutto avvelenato delle società
“occidentali”.
Oggi questi
migranti, che sono anche profughi – in fuga, cioè, da situazioni invivibili –
sono quindi il nostro “sé” storicamente attuale. L’impegno quotidiano
con i migranti della Rotta balcanica nella piazza della stazione di Trieste
offre, quindi, questa possibilità, storicamente determinata, di fare
esperienza, cioè di fare politica. Si tratta dell’impegno con “corpi di dolore”,
corpi con la loro storia singolare, portatori, insieme, di un messaggio
universale: il dolore inciso nei loro piedi gonfi, nelle membra provate, anche
dalle violenze poliziesche, nella fame e nelle vesti stracciate, è il dolore
della “catastrofe” geostorica in atto, di cui sono gli annunciatori. È una
catastrofe nota, ma nell’indifferenza diffusa, sottile, patetica, secondo la
paradossale coazione costituiva del sistema di informazione: che usa
l’informazione proprio per nascondere meglio. Qui agisce appunto la produzione
dell’incapacità di fare esperienza.
Fare
esperienza vuol dire, quindi, instaurare il rapporto fra unicità e
universalità. L’universalità storica è data dal rapporto interattivo fra
singoli unici, ciascuno dei quali riceve se stesso dagli altri. L’universalità è il rapporto
fra i singoli nella misura in cui ogni singolarità è complementare di ogni
altra. Ogni migrante è, in un corpo unico, la sua storia singolare, ma
intrinseca a ogni altra. Il rapporto quotidiano con i migranti è dunque
l’apprendistato di un nuovo modo di fare esperienza che parte dall’incontro con
un corpo sofferente e offeso, espressivo della condizione storica in cui siamo,
che ci prospetta un futuro che l’immaginazione esperienziale può ben definire
apocalittico. Oggi deve essere assolutamente chiaro che per fare politica
senza naufragare nella nebbia bisogna cominciare da un punto concreto
d’esperienza: l’esperienza, se è veramente tale, è insieme concreta,
singolare – si deve toccare con mano come il corpo – e universale. Solo se
è concreta, corporea, è universale. Nel nostro caso una piazza, in una città
sul confine balcanico, affollata di corpi migranti.
La
composizione politica dell’universale comincia da un luogo.
Ma deve diramarsi in rete, rampollando dal basso come una sorgente. Questo
significa fare politica nel tempo del totalitarismo morbido e della catastrofe
terrestre.
Quanto
precede è uno scritto – elettronico. La scrittura è un mezzo fondamentale con
cui gestiamo il rapporto con il tempo: “La scrittura aveva dato all’ispirazione
poetica e al pensiero astratto un nuovo contratto con il tempo” (George
Steiner, Le Antigoni, Garzanti 1990, p. 154).
La scrittura elettronica rompe l’antico contratto. È il paradosso del mio
scrivere: difficile agire politicamente questa contraddizione.
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