Ci sono dei miti duri a morire. Quello della pace come bontà, come armonia, come volersi bene è uno dei più duri in assoluto. È un mito deleterio, perché sostanzialmente autodistruttivo, che contiene al suo interno un’impossibilità operativa che lo rende del tutto inutile sul piano pratico e storico.
L’educazione alla pace è un movimento che parte da lontano. Fin dagli inizi del XX
secolo si hanno delle tracce,dei reperti documentari,[1] però sempre con questo
fervore filantropico. L’educazione alla pace finiva con l’attenere al
rafforzamento delle zone di luce dell’essere umano e quindi a tutto ciò che
riguardava il miglioramento dei buoni sentimenti. L’analisi di Franco
Fornari[2] forse lo psicanalista che a livello internazionale ha lavorato
di più sui temi della pace recuperando la tradizione freudiana e
kleiniana, ci ha permesso di evidenziare come questo tipo di
posizione fosse fisiologicamente ingestibile, nel senso che conteneva in
sé la sua sostanziale negazione. Negazione dettata dal fatto che è
proprio sul terreno della bontà e dei buoni sentimenti che la
cultura di guerra, o comunque le ragioni della violenza, si raccolgono
maggiormente.
Il guerriero, il mafioso, il terrorista, l’integralista religioso sono
assolutamente convinti di aderire a una causa il cui scopo è la permanenza di
quei valori che gli antagonisti stanno mettendo in discussione. Questi
valori riguardano sostanzialmente il senso di appartenenza affettivo,
ma possono anche essere valori subliminali di tipo ideologico, così com’è stato
per alcuni terroristi, o in tante guerre di liberazione, e implicano
un’adesione incondizionata e fortissima dell’individuo. Questi valori
possono riguardare l’ambito della famiglia, della madre patria, del proprio
gruppo, del proprio clan, della propria causa (nei gruppi di carattere
ideologico). C’è comunque sempre un richiamo primario a una simbiosi e
a una fusionalità gruppale di appartenenza che implica la disponibilità
dell’individuo al sacrificio supremo, ovviamente anche al sacrificio di sé,
pur di far trionfare i valori in cui crede.
Sono gli stessi valori che vengono predicati da chi fa dell’educazione alla
pace un territorio di enfatizzazione dei buoni sentimenti. Il caso più
eclatante è senz’altro quello della mafia, dove addirittura attività
oggettivamente criminali vengono gestite come attività appartenenti al proprio
clan e sotto la componente etico-valoriale della famiglia. Tante volte il
termine “famiglia” sostituisce addirittura quello di mafia. Perciò
combattere la mafia sul terreno dei buoni sentimenti è quantomeno ridicolo e
grottesco.
Non si tratta soltanto di un adeguamento passivo e conformistico, così come
ci avevano segnalato gli studi di Salomon Asch, di Stanley Milgram, e poi le
riflessioni puntuali della filosofa ebraica Hanna Arendt, ma proprio di una
motivazione psichica che si legittima sulla base di un fortissimo senso di
appartenenza, anche etica e di sangue, che non solo consente, ma addirittura
enfatizza nell’individuo la disponibilità a creare, come dice Fornari, una
cultura paranoica dell’altro, come se fosse l’altro la causa di ogni male.
È difficile, in interviste a militari o comunque a individui impegnati in
azioni non soltanto belliche, ma violente in generale (si pensi ad esempio ai
tifosi ultras), non notare come le loro azioni abbiano un richiamo preciso a
delle componenti più grandi, a delle finalità ideali, a dei sentimenti che
vanno al di là del particolare o a una presunta malvagità personale.
Fu questo il quadro in cui iniziò a delinearsi, ai primi degli anni
Ottanta, un’azione di educazione alla pace che doveva per
forza fare i conti con questi retaggi e anche costruirsi un nuovo modo di
intervenire. Il quadro era piuttosto desolante. Permanevano impostazioni
pedagogiche fondate sull’idea dello “star buoni”, dell’implementare la
bontà nei bambini cattivi, dell’enfatizzare tutto ciò che richiamasse alla
tranquillità, all’armonia,al benessere assoluto, a una dimensione di fraternità
totale. Su questo leitmotif si registravano a livello
scolastico le programmazioni didattico-educative più incredibili, con delle
digressioni che poi ovviamente non potevano che scivolare su toni soporiferi senza
alcuna attinenza con la realtà. In Italia ancora oggi succede di
trovare mostre sulla pace piene di poesiole e filastrocche ricche di tutti i
buoni sentimenti che qualsiasi terrorista o mafioso potrebbe
sottoscrivere senza problemi.
Le prescrizioni impossibili
Tale tipo di distorsione della realtà produce, sul piano strettamente
educativo, delle difficoltà relazionali e gestionali facili a immaginarsi.
Possiamo definire queste difficoltà col termine di prescrizioni impossibili,
ossia porsi obiettivi che da un punto di vista della realtà risultano
assolutamente incompatibili. Si tratta di strategie di gestione dei
problemi basate sulla banalizzazione la cui logica è sostanzialmente la
seguente: “il problema verrà risolto quando non ci sarà più il
problema”.
Da un punto di vista strettamente logico questo è una sorta di tautologia,
ma sotto il profilo di gestione dei problemi nella realtà, purtroppo questa
strategia ha ancora un fortissimo impatto[3].
Lo registriamo anche a livello educativo. È diffusa per esempio
l’idea che i litigi fra i bambini scompariranno quando i bambini smetteranno di
litigare, oppure quando tutti si vorranno bene, o quando anche i più
agitati saranno tranquilli, i disturbatori non disturberanno più, i timidi
parleranno, e via di seguito, in una lunga serie di autoprescrizioni di tipo
formativo che sono, se non in casi eccezionali, di impossibile
raggiungimento. Purtroppo spesso queste prescrizioni diventano anche
obiettivi didattici. Nell’ambito dei temi che stiamo trattando
troviamo programmazioni educative in cui fra gli obiettivi viene incluso
quello di evitare litigi fra i bambini.
A partire da questo esempio possiamo fare una serie di considerazioni che
ruotano attorno alla inevitabilità di certi fenomeni, comportamenti e situazioni.
Esiste una mitologia percettiva legata alla pace come armonia che non
consente di affrontare le situazioni di perturbazione, di conflittualità, di aggressività e di
tutto quello che succede nel momento in cui la divergenza entra a far parte
della relazione interpersonale.
Le prescrizioni impossibili generano ansia, in quanto irraggiungibili. Producono uno
stato di tensione permanente, di insoddisfazione, uno stato talvolta di
frustrazione.
Certi fenomeni sono fisiologici: componenti di ordine e di disordine
appaiono imprescindibili; il problema è come affrontarli, con che spirito, con
che atteggiamento.
È necessaria una decontrazione emotiva, accettando la dimensione di
perturbazione come componente essenziale e normale della relazione
stessa.
Aggiornare le mappe: la pace è conflitto
Si arriva pertanto alla necessità di affrontare la questione della pace
sotto un profilo completamente diverso rispetto a quella che è stata finora la
cultura del buon senso.
Se la pace è stata considerata antitetica rispetto al conflitto, e il
conflitto visto come guerra, come devastazione, come combattimento armato (sono
queste sostanzialmente le definizioni che compaiono su tutti i dizionari) un
nuovo modo per affrontare le possibilità di una pace che sa essere qualcosa di
concreto e operativo, è sottoporre sotto il profilo epistemologico il
termine e la concezione stessa di pace a una ristrutturazione semantica,
culturale e psichica.
Recentemente si è sviluppato un filone di ricerca, specialmente in ambito
educativo, che considera la pace coerente con il conflitto. La pace è
conflitto, in quanto permette di mantenere la relazione anche nella divergenza.
In quest’ottica la guerra spesso assume le sembianze di un tentativo
paradossale e ossessivo di ristabilire la pace intesa come un elemento di
aconflittualità, di ordine e di assenza di divergenze, contrasti e diversità.
Questo lo abbiamo registrato con molta enfasi e anche con molta ripugnanza
nell’ambito di quelle che oggi si definiscono “guerre etniche”, che
appaiono come un tentativo psicotico di ristabilire un ordine che passa
attraverso l’eliminazione totale della perturbazione che l’altro procura con la
sua presenza.
L’educazione alla pace tenta di proporre un’idea di pace come conflitto, e
quindi una nuova mappa per attraversare questi territori. Una mappa che abbia
questo orientamento: assumere il conflitto come un elemento generativo.
In questo tipo di lavoro emerge la difficoltà nel decentrarsi, nel capire
le ragioni altrui, nell’accettare la divergenza. Sta in questo la sfida
dell’educazione alla pace, nel creare le condizioni affinché il
rapporto possa alimentarsi non solo nella simpatia ma anche nella discordanza e
nella diversità.
È una sfida enorme ma imprescindibile all’interno di una società che
diventa sempre più densa di complessità etniche e sociali, in cui i cambiamenti
sono molto rapidi.
L’educazione alla pace non significa altro che un processo di apprendimento
di un’arte della convivenza più raffinata della semplice tolleranza, del
semplice controllo della diversità.
Un’arte della convivenza che diventa un addestramento continuo,
incessante, una vera e propria alfabetizzazione che ci porti ad acquisire la
capacità di stare dentro il conflitto e la diversità come un momento di
crescita, e non più come un fattore di paura o di minaccia.
Articolo di Daniele Novara, pedagogista e direttore CPP.
Note
1 Vedi M. C. Giuntella, “I bambini eroi di pace”, in AA. VV., Il bambino
nella storia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993
2 Vedi F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1979;
Psicoanalisi e cultura di pace (antologia di scritti a cura di G. Maglerini),
Edizioni Cultura Pace, Firenze 1992
3 Vedi Paul Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli,
Milano 1997; Change, Astrolabio, Roma 1976, ed altri testi dello stesso autore.
Grazie. Lo rilancio nl mio blog.
RispondiEliminala pace è conflitto, che va gestito, mi sembra uno stimolo grandissimo
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