Comprendere un genocidio significa anche desacralizzarlo e confrontarlo con altre forme di violenza di massa. Per contestualizzare il nazismo bisogna coglierne l'eredità materiale e culturale col colonialismo
Una nuova «disputa tra storici» (Historikerstreit) sull’Olocausto
sta scuotendo la Germania. La prima si era svolta oltre trentacinque anni fa,
durante la Guerra fredda, quando il paese era ancora diviso e molti avevano
un’esperienza diretta del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Contro lo
storico neoconservatore Ernst Nolte, che deplorava il fatto che la Germania
rimanesse prigioniera di «un passato che non passa», Jürgen Habermas voleva
fare la memoria dell’Olocausto un pilastro della coscienza storica tedesca.
L’interpretazione apologetica di Auschwitz come semplice «copia» del Gulag
– secondo Nolte i crimini bolscevichi erano il «prius logico e
fattuale» del totalitarismo moderno e quelli nazisti la reazione di un paese
minacciato – aveva indubbiamente un significato politico durante la Guerra
fredda. Nel ventunesimo secolo, però, è diventata largamente superflua anche
per i neoconservatori. La Germania appartiene all’Occidente non più come
avamposto geopolitico di un mondo bipolare, ma come uno dei suoi attori chiave,
soprattutto come motore dell’Unione europea.
Nato dopo un lungo, complesso e tormentato processo di «elaborazione del
passato», il Memoriale dell’Olocausto che sorge oggi nel cuore di Berlino offre
una prova tangibile di come il nazismo sia diventato parte integrante
dell’autorappresentazione storica tedesca. Tuttavia, serve anche ad altri scopi.
A conclusione di un lungo processo di «superamento del passato» (Vergangenheitsbewältigung),
la Germania è finalmente attrezzata per assumere la guida dell’Ue: al di là
della sua egemonia economica, ha le carte in regola anche dal punto di vista
dei diritti umani. La memoria dell’Olocausto non rappresenta più, come forse
accadeva ai tempi di Nolte, l’incessante e impossibile elaborazione del lutto
da parte di un paese che affronta un passato doloroso. Oggi è diventata il
segno distintivo di una nuova normatività politica: società di mercato,
democrazia liberale e difesa (selettiva) dei diritti umani.
Il nuovo Historikerstreit mette in discussione questo
paesaggio culturale e politico. In un’era globale, questa seconda «disputa tra
storici» trascende i confini tedeschi. Il suo iniziatore,Dirk Moses, è uno
studioso australiano che ha acquisito fama internazionale nella germanistica e
negli studi postcoloniali, in particolare affrontando la storia e la teoria del
genocidio. Professore di una prestigiosa istituzione accademica statunitense,
l’Università del North Carolina, Moses non può essere ignorato, come di solito
accade con gli studiosi del Sud del mondo. Egli non esita a parlare di un nuovo
«catechismo tedesco» basato sul dogma dell’«unicità» dell’Olocausto. Una volta
sacralizzato, l’Olocausto sfugge a ogni comparazione e il suo confronto con i
genocidi coloniali diventa una forma insidiosa di antisemitismo (così
banalizzando i genocidi coloniali come «ordinari», genocidi di seconda classe).
Ironia della sorte, il Frankfurter Allgemeine Zeitung – il
quotidiano che negli anni Ottanta difendeva le posizioni di Nolte – è diventato
oggi uno dei più tenaci denigratori di Moses e dei critici del “catechismo
tedesco”, descritti come «revisionisti» e negazionisti della singolarità
dell’Olocausto.
Il tempo della colpa è finito; il lutto è stato sostituito dalla caccia
ossessiva alle cospirazioni antisemite. Le fatwa di questo nuovo conformismo
tedesco hanno colpito molte figure, da filosofi come Judith Butler e Achille Mbembe
(uno studioso del Sudafrica che ha osato paragonare Gaza e la Cisgiordania
palestinese all’apartheid), a storici come Michael Rothberg e Jürgen Zimmerer.
Non risparmiano nemmeno i dirigenti di grandi istituzioni pubbliche, come il
direttore del Museo ebraico di Berlino, costretto a dimettersi per aver
invitato personalità che osavano criticare la politica israeliana. Il fulcro
del dibattito, ancora una volta, è il comparativismo storico e i suoi usi
politici.
Sui confronti storici
Il comparativismo è una pratica consueta per gli storici. Ma gli studiosi
non confrontano idee, eventi ed esperienze per stabilire omologie; piuttosto,
rilevano somiglianze e analogie, che alla fine ci aiutano a riconoscere le
peculiarità storiche. Come le guerre e le rivoluzioni, i genocidi si ripetono e
allo stesso tempo innovano, unendo tendenze prevedibili a risultati
inaspettati. Ogni genocidio possiede una sua «unicità» che il lavoro di
comparazione aiuta a riconoscere. In breve, il comparativismo è una dimensione
epistemologica necessaria della ricerca storica; il suo scopo è la comprensione
critica.
Il comparativismo storico, tuttavia, non è un procedimento intellettuale
«neutrale» e innocente, in quanto partecipa alla costruzione di memorie
collettive. Dire che Auschwitz sia una «copia» del Gulag (fatta eccezione per
une procedura «tecnica» come l’uso del gas, secondo Nolte) suggerisce
ovviamente che i «cattivi» della storia siano i bolscevichi. In base a questa
narrazione, i nazisti diventano semplici epigoni: sono stati corrotti dagli
originali e autentici inventori del male totalitario.
Agli italiani piace l’idea dell’«unicità» dei crimini nazisti: questo
significa che il fascismo non era poi così male, e l’Italia preferisce
chiaramente commemorare le vittime dell’Olocausto anziché quelle del proprio
genocidio in Etiopia. Per ucraini e tutsi, paragonare l’Holodomor ad Auschwitz
e parlare di un «nazismo tropicale» non significa sminuire l’Olocausto, ma
riconoscere le proprie vittime. Gli spagnoli che hanno riesumato i cadaveri dei
loro antenati repubblicani oggi parlano di un olocausto franchista, mentre i
neoconservatori e gli studiosi «revisionisti» preferiscono descrivere la
Repubblica come un «cavallo di Troia» del bolscevismo e Franco come un patriota
che, pur disprezzando la democrazia, alla fine salvò la Spagna dal
totalitarismo.
La conquista francese dell’Algeria è tuttora oggetto di un conflitto
diplomatico-memoriale tra i due paesi. Nel 2005, il parlamento francese ha
promulgato due leggi “dichiarative”: la prima riconosce il genocidio degli
armeni perpetrato dall’impero ottomano durante la Prima guerra mondiale, la
seconda gli «effetti benefici» (bienfaits) della colonizzazione francese
in Africa, in Asia e nelle Antille. Anche l’osservatore più ingenuo non potrebbe
negare la dimensione politica della memoria, che può gravare come un fardello
la coscienza storica di una nazione o alleviare una comunità ferita: gli stati
sono responsabili del proprio passato. Per fare due esempi ben noti, l’atto
simbolico di Willy Brandt in ginocchio davanti al memoriale del ghetto di
Varsavia e l’ammissione da parte di Jacques Chirac della colpevolezza della
Francia nella deportazione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale hanno
fortemente contribuito a creare una nuova responsabilità politica nella
rappresentazione del passato.
Molto spesso, il comparativismo rivela complessi intrecci storici. Questo
vale per molti eventi sincronici: i crimini di Stalin non giustificano o
banalizzano i crimini di Hitler, e viceversa, ma senza dubbio stalinismo e
nazismo hanno profondamente interagito e si sono influenzati a vicenda, creando
una spirale di radicalizzazione che ha portato allo scontro apocalittico della
Seconda guerra mondiale. Un simile intreccio, anche se non sincronico, lega la
violenza nazista alla storia del colonialismo europeo e tedesco. Gli studi
sull’Olocausto hanno tendenzialmente ignorato questo nesso genetico: il
colonialismo è praticamente inesistente nelle opere sul nazismo di storici di
spicco come George L. Mosse, Raul Hilberg, Hans Mommsen, Martin Broszat o Saul
Friedländer, o anche in quelli di una generazione successiva incarnati da
illustri studiosi come Götz Aly, Omer Bartov, Christian Gerlach e Peter
Longerich. Per la maggior parte di loro, il colonialismo è una «metafora»
(Friedländer) apparsa di sfuggita nel 1940, prima dell’Olocausto, quando, dopo
la capitolazione della Francia, i nazisti discussero brevemente del piano di
deportazione degli ebrei europei in Madagascar.
Eppure, l’intreccio tra nazismo e colonialismo è stato studiato da diversi
storici contemporanei, da Arno J. Mayer a Mark Mazower, che hanno sottolineato
la dimensione imperiale della politica nazista. Questo nesso era già stato
suggerito da vari studiosi. Scrivendo nel 1942, Karl Korsch osservava che la
Germania di Hitler aveva «esteso ai popoli europei civilizzati i metodi fino ad
allora riservati ai ‘nativi’ o ai ‘selvaggi’ che vivevano al di fuori della
cosiddetta civiltà». In Le origini del totalitarismo (1951),
Hannah Arendt ha colto una premessa del nazismo nei «massacri amministrativi»
messi in atto dai governanti britannici in Africa e in India. Una volta
sperimentato nel mondo coloniale questo fatidico legame tra violenza di stato e
razionalità manageriale, ha sottolineato Arendt, «il palcoscenico sembrava
essere pronto per tutti i possibili orrori».
Durante la guerra, Franz Neumann, un politologo ebreo tedesco esiliato
negli Stati uniti, e Raphael Lemkin, il giurusta ebreo polacco che ha forgiato
il concetto di genocidio, hanno sottolineato le affinità tra l’antisemitismo
moderno e il razzismo coloniale. Il razzismo coloniale aveva ispirato Wilhelm
Marr, il saggista che coniò il lemma «antisemitismo» alla fine degli anni
Settanta dell’Ottocento. Diversi storici mettono l’accento sull’ammirazione di
Hitler per l’Impero britannico e, più recentemente, lo studioso di diritto di
Yale James Q. Whitman ha analizzato attentamente l’influenza del razzismo
americano sull’ideologia e sulla politica nazista. Le leggi segregazioniste nel
sud americano dopo la guerra civile hanno ispirato le leggi di Norimberga del
1935 nella definizione dei concetti di razza e cittadinanza; nella distinzione
tra cittadini di «razza pura» (bianchi, ariani), gruppi razzialmente inferiori
(neri) e «bastardi» (Mischlinge); e nell’interdizione e punizione dei
rapporti sessuali tra individui di razza diversa. I nazisti deploravano che le
leggi di Jim Crow non fossero estese agli ebrei, ma ciò non diminuiva la loro
ammirazione per gli Stati uniti, la cui ostilità verso la Germania nazista essi
spiegavano grazie all’influenza dannosa delle élite ebraiche
sull’amministrazione di Roosevelt. Apprezzavano la flessibilità del sistema
giuridico statunitense, che era in grado di fondere due tendenze
contraddittorie: un ordine suprematista bianco e un ordine trasformativo
egualitario; il «realismo» delle leggi segregazioniste e il «formalismo»
dell’uguaglianza costituzionale. Per i nazisti, ciò significava che le
gerarchie razziali dovevano essere combinate con «l’uguaglianza» all’interno
della Volksgemeinschaft tedesca.
Radici coloniali
La violenza nazista è incomprensibile senza l’eredità materiale e culturale
del colonialismo. Le guerre coloniali del diciannovesimo secolo furono
concepite come guerre di conquista e di sterminio, condotte non contro degli
stati sovrani ma contro le stesse popolazioni. Il nazismo ha largamente fatto
propria la biopolitica del colonialismo, che usava le carestie come strumenti
di controllo e sottomissione delle popolazioni indigene (in particolare in
India, come sottolineato da Mike Davis in Olocausti tardovittoriani).
Anche un’analisi superficiale del lessico nazista ne rivela la filiazione
coloniale: «spazio vitale» (Lebensraum), popoli «in declino» e
«moribondi» (untergehender, sterbender Völker),
«sub-umanità» (Untermenschentum), «razza padrona» ( Herren Rasse),
e infine «annientamento» (Vernichtung). Queste erano le parole del
colonialismo tedesco.
Come suggerisce Mayer in Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei
nella storia europea (1988), la visione del mondo nazista era
sincretica e si concentrava su tre obiettivi indissociabili: anticomunismo,
colonialismo e antisemitismo. Il primo era ideologico e filosofico: il
marxismo, la forma più radicale di illuminismo, doveva essere distrutto. Il
secondo era geopolitico: la conquista dello «spazio vitale» tedesco era una
variante del pangermanesimo ereditato dal nazionalismo völkisch.
Dopo la perdita delle colonie africane sancita dal trattato di Versailles,
Hitler localizzava il lebensraum tedesco nell’Europa
orientale, un mondo slavo organizzato come uno stato comunista. Il terzo era
culturale: annientare gli ebrei come nemici interni della germanità e
«cervello» dell’Urss.
Durante la guerra, queste tre dimensioni del nazismo si fusero dando vita a
un unico processo: la distruzione dell’Urss, la colonizzazione dell’Europa
centrale e orientale e lo sterminio degli ebrei divennero obiettivi
inseparabili. Per l’ideologia nazista, l’Urss riuniva due forme di alterità che
avevano plasmato la storia occidentale per due secoli: l’ebreo e il suddito
coloniale. La politica di Hitler sintetizzava queste dicotomie culturali,
geopolitiche e ideologiche: tedeschi contro ebrei; Europa contro «Asia»
(Russia); e nazismo contro bolscevismo.
Nel concepire e attuare questa politica di conquista e sterminio, i nazisti
non solo guardarono al colonialismo britannico ed europeo come paradigmi
edificanti, ma anche alla stessa storia tedesca. Nel 1904, la repressione della
rivolta degli Herero in Namibia, allora colonia tedesca, si trasformò in
genocidio. Il generale Lothar von Trotha emise un ordine di annientamento (Vernichtungsbefehl)
e la propaganda tedesca presentò questa campagna di sterminio come una guerra
razziale. Dopo la Prima guerra mondiale, la Germania perse le sue colonie e
trasferì le sue ambizioni espansionistiche dalla Mittelafrika alla Mitteleuropa.
Diversi leader nazisti sono venuti da questa esperienza africana.
Secondo lo storico Timothy Snyder, l’Olocausto divenne una sorta di
surrogato delle fallite ambizioni coloniali della Germania nazista. Nell’estate
del 1941, i nazisti avevano «quattro utopie: una vittoria lampo che avrebbe
distrutto l’Unione sovietica in poche settimane; una carestia pianificata che
avrebbe fatto morire di fame trenta milioni di persone in pochi mesi; una
soluzione finale che avrebbe portato all’estinzione gli ebrei europei dopo la
guerra; e un Generalplan Ost che avrebbe fatto dell’Unione sovietica
occidentale una colonia tedesca. Sei mesi dopo il lancio dell’operazione
Barbarossa, Hitler aveva riformulato gli obiettivi della guerra in modo tale
che lo sterminio fisico degli ebrei diventasse la priorità». Essendo
impossibile la loro deportazione fuori dall’Europa, gli ebrei furono
annientati.
Aimé Césaire e Frantz Fanon non erano storici, ma la loro visione dei
crimini nazisti come un «contraccolpo» (choc en retour) era un
avvertimento utile e giustificato in un periodo di amnesia collettiva. Per
Césaire, il nazismo «applicava all’Europa procedure colonialiste che fino ad
allora erano state riservate esclusivamente agli arabi d’Algeria, ai coolie
dell’India e ai neri d’Africa». Secondo Frantz Fanon, che scrisse I
dannati della terra (1961) durante la guerra d’Algeria, il fascismo
non poteva essere dissociato dal colonialismo: «Cos’è il fascismo se non il
colonialismo messo in atto in un paese tradizionalmente colonialista?». Il loro
approccio, che rischia di equiparare grossolanamente l’Olocausto al
colonialismo, è discutibile, ma contiene un’intuizione fruttuosa. Il loro
ammonimento è stato purtroppo ignorato dalla maggior parte degli storici, che
non hanno colto il cruciale legame genetico tra i crimini nazisti e il passato
imperiale dell’Europa.
Sebbene dimostrino la sua genealogia imperiale e coloniale, queste
caratteristiche dell’Olocausto non fissano alcuna equivalenza. La violenza di
massa non è una categoria monolitica in cui esperienze tempi e spazi diversi
diventano identici. Se l’Olocausto possedeva indubbiamente una dimensione
coloniale, ciò non spiega la deportazione ad Auschwitz degli ebrei francesi,
italiani, belgi, olandesi, ungheresi o greci. La loro eliminazione sistematica
non era certo determinante per conquistare il lebensraum: era
legata alla storia peculiare dell’ideologia völkisch e dell’antisemitismo.
Questo significa che l’Olocausto, a differenza di altri genocidi, è stato
uno sterminio «ontologico», come sostiene George Steiner? Tutti i genocidi sono
«ontologici», anche se la conquista di un continente non può essere pianificata
come la distruzione di una minoranza. Altrimenti, si dovrebbe concludere che la
colonizzazione spagnola dell’America fu un genocidio minore perché i
conquistadores non ne sterminarono l’intera popolazione. Gli ebrei annientati
dai nazisti – è penoso dover ripetere una tale ovvietà – meritano esattamente
la stessa compassione e riconoscimento degli armeni distrutti nell’impero
ottomano sull’orlo del collasso, dei cittadini sovietici morti nei gulag, dei
contadini ucraini scomparsi durante l’Holodomor, dei congolesi uccisi nelle
piantagioni di caucciù di Leopoldo II, degli algerini bruciati nei loro
villaggi dagli eserciti francesi, degli etiopi gasati dagli aerei italiani, dei
desaparecidos delle dittature militari argentina e cilena, e così via in un
elenco interminabile di moderne atrocità.
La violenza di massa è una raccolta di eventi correlati, simili,
comparabili, ma anche singolari. Ciò non implica alcuna gerarchia delle
vittime, ma queste differenze sono rilevanti per la comprensione critica. Tutti
i genocidi sono «cesure di civiltà» (Zivilisationsbruch), anche quando
derivano da circostanze storiche molto diverse, talvolta dalle potenzialità
distruttive della civiltà stessa, e di conseguenza la loro percezione e il loro
lascito non possono essere gli stessi ovunque.
C’è un’assoluta unicità dei genocidi – tra questi l’Olocausto – che è
incarnata dalle loro vittime. Nessuno sforzo di empatia o intuizione può
cogliere completamente la loro sofferenza. Gli storici dovrebbero rispettare la
singolarità di questa esperienza vissuta non trasmissibile, ma non possono
farsene i custodi o gli avvocati. Questa unicità è soggettiva e la comprensione
storica consiste nel contestualizzarla e trascenderla, anche attraverso il suo
confronto con altre forme di violenza, non nel sacralizzarla.
La memoria dei sopravvissuti – ecco cosa intendeva Primo Levi parlando della non esistenza di un «testimone
integrale» – non è che un frammento di un evento con una grande varietà di
forme e cause. L’Olocausto aveva almeno quattro dimensioni fenomenologiche
principali: i ghetti, le esecuzioni di massa, i campi di sterminio e le marce
della morte tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945. I ricordi individuali non
possono abbracciare una tale complessità; la storia è fatta di singolarità
relative, né assolute né incomparabili.
Ma torniamo al nuovo Historikestreit. Moses sostiene che la
chiave per comprendere il genocidio sta nell’ossessione degli stati moderni per
la «sicurezza permanente», un nuovo concetto che sfida il consueto primato dei
criteri etnici e razziali, e rifiuta di distinguere l’Olocausto e i genocidi
coloniali. Il dibattito storiografico suscitato da questo concetto è ovviamente
legittimo. Altrettanto legittima è l’interpretazione della genealogia della
nozione di genocidio, considerando il passato sionista (recentemente scoperto)
di Raphael Lemkin, il suo inventore. Il concetto di genocidio, sostiene Moses,
non fu il risultato di un processo cumulativo di ricerca e conoscenza sulla
storia della violenza di massa. Fu piuttosto un prodotto di circostanze
«contingenti» durante la Seconda guerra mondiale. Nell’ambito di una cultura
giudiziaria abituata a valutare i crimini contro le nazioni (cioè le comunità
riconosciute dal diritto internazionale), questo nuovo concetto focalizzato
sul genos (la razza e il ceppo etnico) era utile per
riconoscere lo sterminio degli ebrei. Qualunque siano le sue origini, questo
concetto ha informato decenni di studi e ricerche storiche. Moses, inoltre, non
è il primo studioso a sollevare dubbi sulla pertinenza di questa categoria
giuridica per l’analisi storica, il cui scopo non è definire colpa e innocenza,
carnefici e vittime, ma contestualizzare e spiegare.
Questo dibattito è di per sé politico oltre che puramente storiografico. Il
concetto di «unicità» dell’Olocausto è brandito come uno slogan da studiosi
diversi come Götz Aly, autore di vari lavori tesi a dimostrare la razionalità
economica dello sterminio degli ebrei, e Yehuda Bauer, secondo il quale
l’Olocausto differisce da qualsiasi altro genocidio nella storia proprio per la
sua mancanza di motivazioni economiche.
Dietro le argomentazioni storiche, tuttavia, entra in gioco la memoria: la
tesi dell’«unicità» riunisce una generazione di studiosi tedeschi che alcuni
decenni fa ha cercato di «fare i conti con il passato» e intellettuali sionisti
che da tempo difendono una visione ebreo-centrica della storia. È il caso di
Omer Bartov, che accomuna Nolte e Moses come rappresentanti di forme
simmetriche di «revisionismo» storico: il primo scagionando i tedeschi come
vittime del bolscevismo, equiparate così agli ebrei, il secondo riconoscendo lo
status di vittime ai popoli colonizzati, posti quindi accanto agli ebrei.
Entrambi metterebbero in discussione il carattere esclusivamente ebraico dello
statuto di vittime.
Per alcuni aspetti, questa definizione di «unicità» – la gerarchizzazione
delle vittime – è diventata la posizione ufficiale dello stato tedesco.
Negoziando le scuse con la Namibia, senza riconoscere le associazioni delle
minoranze Nama ed Herero di quel paese, la Germania banalizza il suo passato
coloniale (e le sue vittime) facendone oggetto della ragion di Stato, non della
memoria collettiva. L’Olocausto è «unico» e merita di essere espiato; lo
sterminio degli Herero e dei Nama è un genocidio coloniale «ordinario» per il
quale bastano le scuse e un risarcimento onnicomprensivo, negoziato con la
Namibia senza ascoltare i rappresentanti delle vittime.
Memoria anticoloniale
Per quasi tre decenni dopo il 1945, periodo in cui i governi non creavano
musei e memoriali dell’Olocausto, in cui sia i sopravvissuti che i loro
persecutori erano ancora numerosi e attivi, le commemorazioni dello sterminio
degli ebrei europei non ne sottolineavano l’«unicità». L’Olocausto era quasi
indistinguibile dal ricordo della Resistenza e alimentò potentemente
l’anticolonialismo. La conoscenza storica dell’Olocausto era ancora incompleta
e approssimativa – gli storici non distinguevano ancora tra campi di concentramento
e campi di sterminio – ma la sua eredità e il significato politico erano
evidenti, in particolare per la sinistra.
In Francia, durante la guerra d’Algeria, molti ex partigiani, tra cui
numerosi ebrei, vedevano nel loro sostegno al Fronte di Liberazione Nazionale
(Fln) un proseguimento dell’impegno antifascista. Certamente non si sarebbero
opposti all’assimilazione del nazismo al colonialismo da parte di Césaire e
Fanon. Jakob Moneta – un ebreo tedesco che aveva vissuto i pogrom in Polonia da
bambino, alla fine della Prima guerra mondiale, ed era sopravvissuto
all’Olocausto emigrando in Palestina – ha svolto un ruolo significativo,
beneficiando della sua immunità diplomatica come funzionario dell’ambasciata
tedesca a Parigi, nel fornire sostegno materiale e finanziario al Fln.
La continuità tra l’antifascismo, la lotta contro l’antisemitismo e
l’anticolonialismo era altrettanto evidente per Wolfgang Abendroth, Günther
Anders, Lelio Basso, Simone de Beauvoir, Isaac Deutscher, Jean-Paul Sartre, Ralph
Schoenman, Gisèle Halimi e altri intellettuali che parteciparono al Tribunale
Russell contro la guerra del Vietnam. Dopo il massacro di My Lai, Anders, ebreo
tedesco, raccomandò di tenere una seduta del tribunale ad Auschwitz, proprio
per sottolineare la continuità tra i crimini nazisti e quelli statunitensi in
Vietnam, entrambi ascritti all’imperialismo. Nel 1967, Jean Améry (Hans Mayer),
un sopravvissuto ad Auschwitz, raccolse diversi testi dedicati all’Olocausto
in At the Mind’s Limits, un capitolo nel quale si concentra sulla
tortura. Prima di essere deportato perché ebreo, Améry era stato torturato come
combattente della Resistenza in Belgio. Dopo aver trascorso un anno accanto
alle camere a gas di Auschwitz, egli descriveva la tortura non come una «qualità
accidentale del Terzo Reich» ma piuttosto come la sua «essenza». Secondo Améry,
la tortura era «l’apoteosi del nazionalsocialismo»: «Fu proprio nella tortura
che il Terzo Reich si materializzò in tutta la densità del suo essere».
Come spiegare questa paradossale valutazione di un reduce di Auschwitz? La
tortura è stata universalmente usata da tutti i regimi politici, dalle
dittature militari alle democrazie (si pensi ad Abu Ghraib), mentre l’Olocausto
è un genocidio. Il testo di Améry è solitamente interpretato come una
meditazione intempestiva sulla violenza, ma dovrebbe essere inserito nel
dibattito francese sulla tortura durante la guerra d’Algeria, suscitato
da La Question di Henri Alleg nel 1958. Améry rivisitava
l’Olocausto attraverso il prisma del colonialismo. L’ermeneutica storica
mostrata nel suo testo è discutibile, ma il suo obiettivo politico era
perfettamente chiaro. Améry non cercava di erigere un monumento alla memoria
dei sopravvissuti, ma di attivarne la forza critica.
Per Améry era chiaro che testimoniare l’Olocausto significava lottare
contro l’oppressione nel presente, non circondare un trauma vissuto con un’aura
mistica di sacralità. Non era ingenuo. Sentiva che la tendenza della Nuova
Sinistra tedesca a parlare di fascismo piuttosto che di nazismo (in un’epoca in
cui così tanti ex nazisti non solo erano ancora vivi ma significativamente
inseriti negli apparati amministrativi della Germania occidentale) era
sospetta, così come la sua insistenza nel parlare dell’antisionismo ignorando
l’antisemitismo. Per la Nuova Sinistra tedesca, l’Olocausto fu rimosso più che
assimilato o trasceso. Améry scrisse un articolo per konkret, la
rivista culturale più importante della Nuova Sinistra, per sottolineare queste
ambiguità. Quando l’Olocausto arrivò al centro della scena negli anni Ottanta,
prima con una serie televisiva americana piuttosto mediocre, Holocaust,
poi con l’Historikerstreit, la Nuova Sinistra rimase completamente
emarginata e molte figure di spicco l’abbandonarono. Quello che Moses chiama il
«catechismo tedesco», con la sua ossessione per l’unicità, il suo rifiuto del
comparativismo, il suo sionismo ostentato e la sua propensione a considerare
gli studi postcoloniali come una forma di antisemitismo, potrebbe essere visto
come una sorta di contraccolpo: questa attenzione iperbolica all’«unicità»
dell’Olocausto è il rovesciamento simmetrico e la compensazione tardiva di una
lunga repressione, ora vista come un silenzio colpevole.
Religione civile
Per certi aspetti, quello che Moses chiama il «catechismo tedesco» è la
forma perversa di una religione civile. L’Olocausto come «religione civile»
possiede incontestabilmente le sue virtù, sacralizzando valori come democrazia,
libertà, pluralismo, tolleranza e rispetto per l’alterità razziale, etnica o
sessuale attraverso commemorazioni ritualizzate. Il «catechismo tedesco»,
tuttavia, sacralizza sia lo statuto ebraico delle vittime che la colpa tedesca
separandoli dalla storia del nazionalismo, del razzismo, del fascismo e del
colonialismo. Invece di considerare l’Olocausto come un monito contro le
attuali forme di razzismo e xenofobia, celebra l’alleanza indistruttibile tra
la Germania e Israele.
In tempi di crescente islamofobia e rifiuto xenofobo di immigrati e
rifugiati, questa memoria settaria e miope può facilmente diventare un comodo
alibi per il postfascismo. Da Matteo Salvini a Marine Le Pen, da Éric Zemmour a
Viktor Orbán, tutti i leader populisti di destra europei sfoggiano ottimi
rapporti con Israele per dimostrare la loro irreprensibilità in materia di
diritti umani. Un paio di anni fa Salvini organizzò, nella stessa settimana, un
raid anti-immigrati nella periferia romana e, al Senato italiano, un simposio
sull’Olocausto con la partecipazione dell’ambasciatore israeliano. In Germania,
sottolinea Moses, il «catechismo» federa un ampio spettro politico che va
dagli Antideutsche (una sinistra radicale patologicamente
germanofoba e ipersionista) a un partito postfascista come Alternative für
Deutschland, dai più intransigenti detrattori della colpa tedesca agli epigoni
nostalgici della nazionalismo tedesco.
La maggior parte dei neoconservatori contemporanei ha abbandonato
l’antisemitismo. Considerare gli ebrei estranei all’Europa – dicono – è stato
l’errore fatale dei loro antenati, i seguaci del nazionalismo völkisch.
La Germania ha chiarito questo imperdonabile malinteso e si è pentita dei suoi
crimini offrendo una dimora agli ebrei, finalmente riconosciuti come parte
costitutiva della civiltà occidentale. Ora gli ebrei sono stati accettati e
l’Europa deve proteggersi dai suoi veri nemici: l’Islam e il terrorismo
islamico. Immigrati e rifugiati, a differenza degli ebrei, incarnano una
cultura, una religione e uno stile di vita sostanzialmente incompatibili con
l’Occidente (e la civiltà ebraico-cristiana); sono un vettore privilegiato del
fondamentalismo islamico e del terrorismo.
Il filo-semitismo neoconservatore e il sostegno a Israele vanno di pari
passo con l’islamofobia, spesso esibita sotto la bandiera dei diritti umani (la
difesa dei valori occidentali contro l’oscurantismo islamico). La
caratteristica comune di tutte queste correnti neoconservatrici e postfasciste
che hanno abbandonato l’antisemitismo è il loro odio per gli immigrati e il
loro rifiuto dell’Islam. I politici della Repubblica federale tedesca che
difendono il dogma dell’«unicità» dell’Olocausto non si preoccupano di tutto
questo.
Per certi aspetti, il «catechismo tedesco» mostra le ambiguità della
vigorosa battaglia politico-memoriale che Habermas combatté all’epoca del
primo Historikerstreit. Difendendo l’idea di un’identità tedesca
post-nazionale – Hitler aveva irrimediabilmente screditato l’intera tradizione
del nazionalismo tedesco – Habermas sottolineava il carattere redentore della
memoria dell’Olocausto: è solo «dopo e attraverso (nach und durch)
Auschwitz», scriveva, che la Germania si era finalmente «unita all’Occidente».
Le implicazioni di questo orientamento andavano al di là dell’affermazione
di un «patriottismo costituzionale» chiaramente radicato nella tradizione
liberale e occidentalista. Da un lato, Habermas ammetteva la colpa con una voce
alta et forte come nessun tedesco aveva mai fatto in precedenza (ad eccezione
di Karl Jaspers, rapidamente isolato nel 1946). Dall’altro, offuscava
completamente ogni vincolo genetivo tra l’Olocausto e il colonialismo. In
questo modo, l’Olocausto è diventato la deviazione patologica da un percorso
occidentale lineare; certamente non, in quanto colonialismo, un prodotto della
stessa civiltà occidentale. Trentacinque anni dopo l’Historikerstreit,
lo Stato tedesco ha sostituito l’antisemitismo «redentore» nazista
(Friedländer) con una sorta di filo-semitismo «redentore», che significa non la
lotta contro il razzismo, ma la sicurezza israeliana iscritta nella legge.
Nel 2015, al culmine della crisi dei rifugiati, Angela Merkel dichiarò
solennemente che, visto il suo passato, la Germania non poteva sottrarsi al
dovere morale di accoglierli. Ora, una nuova ondata di nazionalismo tedesco
considera i rifugiati e gli immigrati non europei (spesso opposti ai rifugiati
ucraini) come dei barbari. Per molti aspetti, Moses ha ragione nel sottolineare
che la Germania è ancora ossessionata dalla «questione ebraica». Nel
diciannovesimo secolo, l’antisemitismo era un «codice culturale» nel processo
di costruzione della nazione all’epoca del Kaiserreich. In mancanza
di miti positivi – la Riforma sfociò nelle guerre di religione e il liberalismo
fallì nel 1848 – la Germania forgiò negativamente la propria
autorappresentazione attraverso l’antisemitismo: essere tedeschi significava
soprattutto non essere ebrei; la germanità era l’antitesi dell’ebraicità. Oggi
il filo-semitismo è diventato il «codice culturale» di una Germania
riunificata, post-nazionale, che considera gli ebrei come amici speciali e la
difesa di Israele come un dovere morale. Stigmatizzati (in passato) o
sacralizzati (oggi), gli ebrei rimangono un indicatore simbolico attraverso il
quale una comunità nazionale cerca di definire sé stessa, le sue virtù e la sua
identità.
Nonostante le ambiguità sopra menzionate, l’impegno di Habermas durante l’Historikerstreit ha
avuto indubbie conseguenze fruttuose. La sua battaglia per fare dell’Olocausto
un pilastro della coscienza storica tedesca sfociò, un decennio e mezzo dopo,
in una nuova legge sulla cittadinanza che istituisce lo jus soli accanto
allo jus sanguinis. Essere cittadino tedesco non significa più
appartenere a un gruppo etnico di Stammgenosse («fratelli
dello stesso ceppo»), ma essere membro di una comunità politica, condividendo
gli stessi doveri e diritti di tutti gli altri membri, senza riguardo per le
origini etniche di ciascuno. Questo è stato un riconoscimento postumo per
milioni di ebrei tedeschi che, per decenni, erano stati visti come estranei nel
loro stesso paese.
Oggi la Germania è diventata una nazione multietnica, multiconfessionale e
multiculturale, con un numero significativo di giovani cittadini di origine
postcoloniale. Durante la Coppa del Mondo, milioni di tedeschi si identificano
con orgoglio nei calciatori che portano cognomi polacchi, turchi, africani o
latini. Questo è il segno di un cambiamento culturale enorme e positivo.
Certamente, i cittadini tedeschi di origine postcoloniale non dovrebbero
ignorare che l’Olocausto appartiene alla storia del loro paese, ma incarnano
anche altre memorie che legittimamente chiedono di essere riconosciute. Il
colonialismo è una parte costitutiva della storia europea e tedesca tanto
quanto l’antisemitismo; la loro memoria dovrebbe far parte della memoria
collettiva tedesca, non semplicemente della memoria delle sue minoranze. Questa
verità, tuttavia, è semplicemente incompatibile con il dogma dell’unicità
dell’Olocausto e della difesa di Israele. I cittadini tedeschi di origine
palestinese dovrebbero considerare la sicurezza di Israele come un proprio
dovere politico e morale?
Dirk Moses osserva che, secondo diverse inchieste, molti alunni delle
scuole tedesche non bianche che hanno visitato Auschwitz non si sono sentiti in
colpa per i crimini tedeschi, ma si sono identificati spontaneamente con gli
ebrei. Una parte significativa della società tedesca non può riconoscersi in
una religione civile del ricordo che rifiuta le identità postcoloniali come
antisemite. Una società multiculturale dovrebbe preservare la sua diversità,
come regno di una «memoria multidirezionale» (Michael Rothberg), in cui il
ricordo dell’Olocausto e quello del colonialismo potrebbero non solo
coesistere, ma anche rafforzare la democrazia e il pluralismo.
Nell’era della globalizzazione, la coscienza storica e una pedagogia del
pluralismo e della democrazia non possono fondarsi esclusivamente sulla memoria
dell’Olocausto, per quanto importante sia e per quanto essenziale essa sia
stata per consentire alla Germania e all’Europa di «elaborare il passato».
Purtroppo, i «catechisti» tedeschi non sono inclini al dialogo; sono l’opposto
della nobile tradizione dell’universalismo ebraico, che aveva trovato in
Germania tanti grandi rappresentanti.
*Enzo Traverso insegna alla Cornell University. Il suo libro più recente
è Rivoluzione (Feltrinelli, 2022). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione
Nessun commento:
Posta un commento