giovedì 16 giugno 2022

Preparativi di un nuovo mondo: circa la “trasformazione strutturale” dell’economia Russa


Giovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi.


Per evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2]. Ottennero così i risultati di fine millennio: la sconfitta dell’Urss e il disciplinamento del Sud del mondo. I margini della produzione furono ricreati distruggendo ed incorporando in modo subalterno l’industria del blocco sovietico, che competeva sui mercati del Sud; quindi attraverso la recessione e l’allargamento delle catene produttive ad occupare lo spazio che si era aperto; infine questi eventi liquidarono lo Stato Assistenziale e ricostituirono l’esercito di riserva industriale; le crisi finanziarie e di debito ripetute per tutti gli anni ottanta e novanta crearono lo spazio per imporre l’apertura dei mercati al capitale speculativo ed industriale[3]. Alcuni hanno chiamato tale modello, che scava costantemente sotto le proprie fondamenta, “Grande Moderazione[4].

Quel che era accaduto in quel torno di anni, ed alla fine produsse il rivolgimento nel ventennio ’80-’90, rivoltò l’intera società. La direzione e qualità dei consumi passo da un assetto che aveva trazione da parte dei consumi di massa a uno guidato dai consumi “distintivi”. Si insediò l’egemonia della classe sociale “affluente”, che esibisce i propri consumi facendone elemento del prestigio, della legittimità a dirigere e della stessa propria qualità morale, la quale si impose sulla precedente semi-egemonia “popolare”. Il processo trovò i suoi cantori e trovò i suoi critici[5], ma fu praticamente irresistibile. Si trattava di una nuova Belle Époque fondata su un meccanismo che, in basso, era sostenuto da una continua anticipazione di futuro, ovvero da una costante espansione finanziaria e quindi delle strutture del debito, e che, secondo Arrighi, nel lungo periodo avrebbe potuto portare a un “nuovo crollo sistemico” (e in realtà molto più vicino, dato che “Adam Smith a Pechino” uscì nel 2007). Si affermò, insomma, un modello nel quale dominava la riduzione della concorrenza attraverso l’estensione delle relazioni clienti-fornitore “captive”, basate sull’associazione di monopoli e monopsoni, e l’interconnessione internazionale per sfuggire, o per arbitrare, ai regimi di regolazione[6]. E’ il modello Walmart degli anni Novanta, sulla base del quale, generalizzandolo, si imporrà nel nuovo millennio il modello della “gig economy”[7] e di “Amazon”[8]. E un rovesciamento completo del modo di regolazione della società.

 

Tutto questo si avvia alla fine e permane ormai come fantasma.

 

Ma, naturalmente, di quel che accadrà nei prossimi mesi e soprattutto anni è solo possibile congetturare. Per sviluppare queste congetture partiamo da un’interpretazione: l’accumulazione del capitale, dal quale nel nostro sistema dipende assai strettamente la stabilità politica (sia in ‘alto’, come consenso dei ceti dominanti, sia ‘in basso’ come accesso alle risorse dei ceti subalterni via lavoro), è strettamente connessa con lo sfruttamento di dissimetrie che il sistema coltiva. Oppure, per dirlo in  altro modo, il movimento del capitalismo genera sempre una dialettica spaziale che è internamente connessa con la lotta di classe. Il gioco è quello di cercare sempre nuovi sbocchi sfruttabili per le eccedenze di capitale e di lavoro che si generano continuamente, senza redistribuirle. Perché nei nuovi sbocchi si dia il processo completo di valorizzazione del capitale (investimento-produzione-realizzo) è necessario che sia presente una certa stabilità e, al contempo, un certo controllo da parte dell’investitore almeno fino al momento del completamento del ciclo produzione-realizzo. Quando il capitale investito rintraccia le occasioni di investimento fuori della propria area di controllo è necessario che prima la estenda, in qualche modo. E’ così che le forme di dipendenza, anche reciproca (anzi, sempre reciproca) si determinano.

Guardando la cosa dal lato dei cosiddetti processi di “sviluppo” (ovvero di crescita delle dotazioni materiali e immateriali, della loro capacità di funzionare insieme e di generare una maggiore efficienza totale dei fattori produttivi[9]) bisogna riconoscere che questi non sono autoequilibranti, né dipendono essenzialmente dal mero fatto degli investimenti, o dalla disponibilità di tecnologie[10]. Tutt’altro, quando gli investimenti sono squilibrati rispetto alle caratteristiche della situazione locale più spesso provocano fragilità e dipendenza, in particolare quando sono commisurati a mercati esteri o controllati da centrali di potere estero[11]. Le dinamiche di investimento provocano spesso concentrazione di risorse in poche località emergenti ed ‘effetti di riflusso’ (positivi, in termini di rendita, o negativi, in termini di svuotamento) da quelle di provenienza. Normalmente seguendo dinamiche causali di tipo circolare e cumulativo.

La potenziale instabilità che generano queste dinamiche complesse, determinate dalla fluidità del capitale (una sua caratteristica intrinseca e storicamente ostacolata dal potere statuale), viene tenuta sotto controllo da vari meccanismi di assorbimento ed impiego del surplus e, soprattutto, dall’organizzazione internazionale e dalla gerarchia delle nazioni. Ovvero da una complessa rete di rapporti di sfruttamento, creata anche grazie al controllo del capitale in eccesso e del suo impiego e remunerazione. La creazione e lo sfruttamento dei divari è quindi una ineliminabile caratteristica del capitalismo[12]. Divari che possono essere certamente letti come caratteristici della stratificazione interna funzionale nei singoli paesi, ma anche nello sfruttamento di un territorio sull’altro.

Ciò che si deve fare, per dominare l’instabilità intrinseca del capitalismo è quindi, dal lato delle potenze che intendono dominare il proprio destino, di proiettare il proprio capitale, tecnologia e standard, e forza lavoro a tutti i livelli (in particolare ai più alti, ovvero direzionali), in aree controllabili, nelle quali siano presenti divari e risorse da mettere “al lavoro” per creare forme di sviluppo dipendente. Forme di sviluppo, cioè, capaci di consolidare economie subalterne alle quali per via della dominazione politica sia preclusa la possibilità di attivare meccanismi causali cumulativi che possano un giorno tornare come concorrenti (quando non riesce, ad esempio agli Usa rispetto al dominio britannico, o alla Germania e Giappone rispetto al dominio americano, si ha una transizione egemonica o il suo rischio). Uno sviluppo nel quale i profitti, in altre parole, siano appropriati e trasferiti (anche grazie ad opportune ragioni di scambio[13], più o meno imposte) ed inibiti dal trasformarsi in capitale locale.

 

Questa è la geopolitica del capitalismo.

 

Questa è quindi la posta in gioco del Grande Gioco triangolare che è in corso tra gli Stati Uniti (ma anche il suo fedele scudiero Europa), la Russia e la Cina. La terza è stata a lungo coltivata come area di investimento dei surplus produttivi e dei capitali in cerca di rendimenti Occidentali, americani in primo luogo. Ma anche la Russia, a partire dagli anni Novanta è stata terreno di caccia. Tuttavia le cose non sono andate come l’Occidente avrebbe preferito, perché il circuito di valorizzazione e controllo, ovvero il circolo della dipendenza, non si è mai chiuso completamente. Le economie russa e cinese non sono diventate subalterne, e i pochi agenti che trasmettevano il controllo per il tramite della loro stessa relazione con l’Occidente (‘imprenditori’ o ‘oligarchi’, come si dice usualmente) sono stati, negli ultimi anni, riportati sotto il controllo della logica statale, spesso con le cattive. In questo, a ben vedere riposa l’accusa di ‘totalitarismo’ avanzata da parte liberale (è sempre ‘totalitario’ un regime che non lascia liberi gli imprenditori, non lo è uno che schiavizza i cittadini ma nel quale il capitale si muove liberamente e fa quel che vuole, il “paradosso Arabia Saudita” trova qui il suo senso razionale). Come spesso accade una formula sembra irrazionale o contraddittoria solo perché lascia impliciti i propri presupposti, e quella liberale ha come indefettibile presupposto che ad essere “libero” è il capitale, e per esso il suo proprietario.

 

Di fronte a questa inscusabile colpa muove l’intera macchina di distruzione dell’Occidente. La più tremenda che l’umanità abbia mai visto. Distruzione ideologica, morale, culturale e, ovviamente, materiale. L’obiettivo è semplice e necessario, si tratta di costringere l’economia dei paesi irragionevolmente ‘chiusi’ a lasciare che il controllo interno degli investimenti sia completamente abbandonato, che le ragioni di scambio siano scelte ‘dai mercati’ (ovvero che le materie prime siano vendute al prezzo scelto dall’acquirente e nella moneta da questo preferita). Tutto qui. Naturalmente anche che le migliori risorse intellettuali continuino ad andare nelle università occidentali, a lavorare per le imprese occidentali, e le più semplici ed abbondanti emigrino a servizio. Per questo è necessario anche spezzare lo spirito, mostrare che devono essere felici di apprendere dal faro dell’umanità come si sta al mondo. Felici e ammirati di apprendere la Democrazia, la Giustizia, il Bene e la Vera Vita dai maestri.

 

Ecco cosa sta oggi accadendo. Per questo, e più volte, arriva dal Cremlino l’avvertimento che un mondo senza Russia non varrà la pena esistere, e che se costretti lo distruggeranno. E’ sicuramente enfatico, ma quel che l’Occidente collettivo vuole è effettivamente la loro morte. Morte come nazione e come civiltà, e occupazione come area economica, servitù per i suoi abitanti. Non ci può essere sovranità senza indipendenza economica e, d’altro canto o di converso, non ci può essere stabile processo di accumulazione senza controllare gli spazi diseguali.

 

Quel che accade al margine della Russia è quindi l’assedio necessario, dal punto di vista Americano, per controllare il grande spazio russo: per minacciarlo e costringerlo ad aprirsi, imporgli la scelta dei clienti e delle destinazioni dei suoi prodotti (e quindi il prezzo); restringere e dominare la sua valuta ed i suoi imprenditori; alla fine farlo precipitare nella crisi economica, sociale e politica. Eliminarlo come Grande Potenza.

Lo stesso accadrà, sta già accadendo, alla Cina.

 

Come la Russia ha risposto militarmente a questa sfida esistenziale, in modo sicuramente cinico e forse imprudente, lo sappiamo. Come ha risposto sul piano della lotta monetaria (grande parte della sfida) lo abbiamo anche visto nell’estensione degli accordi “merci verso rubli”, per ora vincenti[14]. Nel lungo periodo questa controffensiva ha la potenzialità di mettere all’angolo il dollaro e con esso il dominio americano.

 

Ma nel medio periodo l’economia russa ha un problema di contrazione degli sbocchi commerciali esteri. Cosa che va a colpire un paese apparentemente sano, costantemente in surplus commerciale (con 45 miliardi di esportazioni storiche e 24 di importazioni), con investimenti all’estero positivi (per 12 miliardi) e scarsissimo debito estero (0,4 miliardi), un PIL di 1.400 miliardi, un tasso di occupazione del 71% e di disoccupazione del 4%. Ma anche un paese di enormi differenze geografiche, gigantesco e con zone poverissime, un reddito pro capite medio molto basso ed una popolazione di 145 milioni di persone, quindi sostanzialmente spopolato nella parte asiatica, nella quale vive solo il 23% della popolazione pur essendo l’area più grande.

Come abbiamo visto[15], la Banca Centrale Russa ha dichiarato che il paese dovrà attraversare una fase di grandi cambiamenti strutturali per ridurre ulteriormente la dipendenza dall’Occidente e consentire la disconnessione. In un recente articolo di Anastasia Bashkatova[16] la trasformazione strutturale a cui chiama la Banca Centrale è descritta come il passaggio da un modello trainato dalle esportazioni (quello, appunto, della “Grande Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno necessari anni. Si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia circolazione”. La Banca Centrale ha avvertito che questo dovrà comportare una netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare, per far crescere la domanda interna.

Il modello neoliberale funziona all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la sua “libertà”.

 

La scommessa russa è quindi di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi controllare dall’esterno. Qui soccorre la tradizione del paese, ovvero la capacità coltivata nell’epoca sovietica di garantire un “ampio filtraggio dei progetti, tenendo conto delle nuove circostanze”, in modo da garantire alla fine un aumento della produttività totale dei fattori, l’acquisizione di nuove conoscenze, tecnologie, e lo sviluppo del capitale umano.

 

Per il Direttore del Centro di Meccanica Sociale, Mikhail Churakov, bisogna quindi creare le infrastrutture di base, garantire partecipazione, chiudere il divario tra le metropoli e le aree rurali interne, garantire un efficace sistema di controllo e comando, sostenere l’innovazione scientifica.

 

Insomma, tornare alla programmazione economica, se non alla pianificazione.



[1] - Si veda, ad esempio, il post “Lawrence Mishel, ‘Lo scostamento tra la crescita della produttività e dei redditi mediani”, Tempofertile, 23 novembre 2013; “Conflitti distributivi e lavoro: passato e futuro”, Tempofertile, 21 settembre 2015; “Mc Kinsey & Company, ‘Più poveri dei genitori? Redditi piatti o in caduta nelle economie avanzate”, Tempofertile, 20 luglio 2016.

[2] - Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli, 2007, p. 165.

[3] - Questa sintesi fa riferimento a quanto scritto in Alessandro Visalli, “Dipendenza”, Meltemi 2020, pp. 394 e seg. Un sintesi in questo post, “Dipendenza”, Tempofertile, 4 novembre 2020.

[4] - Si veda il post, “Compromessi sociali, la ‘Grande Moderazione’”, Tempofertile, 8 maggio 2015.

[5] - Uno dei più rilevanti fu Pier Paolo Pasolini, del quale si possono vedere gli “Scritti corsari”, Garzanti, Milano 1975, e le “Lettere luterane”, Garzanti, Milano 1976, ma anche C. Lasch, “La ribellione delle élite”, Feltrinelli, Milano 1995.

[6] - Per una lettura molto interessante che fa uso di questo concetto si veda O. Romano, “La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale”, Meltemi, Milano 2019.

[7] - Si veda il post “Gig Economy o Sharing Economy? Della generalizzazione del Modello piattaforma”, Tempofertile, 16 febbraio 2016; “Benedetto Vecchi, ‘Il capitalismo delle piattaforme”, Tempofertile, 20 gennaio 2018

[8] - Si veda questo post, “Amazon e il suo monopolio”, Tempofertile, 22 ottobre 2017

[9] - Ovvero, parafrasando la sintetica definizione di Hirschman, al problema di come una cosa non conduce all’altra (es. un investimento in una centrale elettrica ed un porto non conduce ad uno sviluppo industriale e quindi ad un innalzamento del tenore di vita generale).

[10] - Per una ipotesi contraria si veda R. Solow, Technical Change and the Aggregate Production Function, in “Review of Economics and Statistics”, vol. 39, n. 3, 1957, pp. 312-320. Secondo la sua analisi iniziale nel lungo periodo la crescita non dipende dai macchinari, ma dalla tecnologia. Calcolando la crescita per lavoratore negli Stati Uniti, la stima di Solow era che ben sette ottavi dipendeva dalla tecnologia. La focalizzazione sulla produttività del lavoro, dalla quale deriva la dotazione di beni e servizi pro-capite che viene fatta coincidere con la crescita, conduce a rendere evidente che la mera crescita del numero di macchine per lavoratore va soggetta rapidamente ai rendimenti decrescenti (non posso mettere le mani su più di una macchina alla volta). Ne derivava, nei risultati proposti, che il reddito da impianti e macchine è parte minore del Pil (circa un terzo), dato che resiste grosso modo dagli anni Cinquanta a tutti gli ottanta. A causa del rendimento decrescente, il mero aumento dei macchinari non era la strada della crescita (è la “sorpresa di Solow”), e quindi il risparmio non sostiene la crescita. Ciò che lo fa è il progresso tecnico. Ciò perché, semplicemente, il cambiamento tecnologico permette di ottenere un livello di produzione superiore utilizzando la stessa quantità di lavoro. La ricerca di direzioni causali semplici e modellabili matematicamente, una delle specialità di Solow, lo portò, allora, anche nel suo influente libro successivo a concluderne che il progresso tecnico aveva luogo per ragioni non economiche, dato che dipendeva dall’avanzamento delle conoscenze scientifiche (cfr. R. Solow, Growth Theory: An Exposition, Oxford University Press, 1987).

[11] - Ad esempio, secondo il punto di vista di Myrdal, in parte fondato su una importante ricerca sul campo sulla discriminazione nel sud degli Stati Uniti (si veda G. Myrdal, Il valore nella teoria sociale, Einaudi, 1966 (ed. or. 1958), al contrario dei modelli ottimisti dell’economia (ad esempio alle conseguenze di quello di Solow), il gioco delle forze di mercato lasciato a sé stesso porta alla continua crescita delle ineguaglianze. Come scrive: “Se le cose fossero lasciate al libero gioco delle forze di mercato senza interventi di politica economica, la produzione industriale, il commercio, le banche, le assicurazioni, la navigazione, quasi tutte queste attività economiche che in un’economia in sviluppo tendono a dare una remunerazione superiore alla media – e inoltre la scienza, l’arte, la letteratura, l’istruzione, l’alta cultura in genere – verrebbero ad addensarsi in certe località e regioni, lasciando il resto del paese più o meno stagnante” (G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli 1959 (ed. or. 1957).

[12] - Si veda anche il post, “Immanuel Wallerstein, ‘Dopo il liberalismo’”, Tempofertile 11 maggio 2022

[13] - Si definiscono “ragioni di scambio” il rapporto tra l'indice dei prezzi all'esportazione di un paese e quello dei prezzi all'importazione. Dal punto di vista dell'intero paese, rappresenta l'ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.

[14] - Si veda “Chi ha ucciso il cervo? Della guerra tra moneta e merci”, Tempofertile 25 aprile 2022.

[15] - Si veda “Circa il rapporto della Banca di Russia alla Duma: disconnessioni e fine del sistema-mondo occidentale”, Tempofertile, 22 aprile 2022

[16] - Anastasia Bashkatova, “La Russia avrà il suo percorso economico, ma con colpi di scena cinesi” (У России будет свой экономический путь, но с китайскими поворотами, Nezavisimaya Gazeta), 12 maggio 2022

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