Da quando è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina, sul versante occidentale la macchina dell’informazione ha sfornato le analogie più spericolate per orientare l’interpretazione degli eventi e sollecitare l’adesione a opzioni valoriali presentate come l’ultima riserva del Bene in lotta contro il Male. Va da sé che dire “macchina dell’informazione” significa poco se, contestualmente, non si individua una correlazione significativa fra gli apparati della produzione simbolica e il combustibile che li alimenta. Il coinvolgimento diretto nel settore della difesa di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani (il gruppo GEDI, proprietario di 12 quotidiani, 8 periodici, 4 emittenti radiofoniche, 23 testate digitali) autorizza in effetti a pensare che la macchina dell’informazione si serva della guerra per remunerare gli interessi che la controllano. E per conquistare alla politica atlantista e alle scelte economiche del governo Draghi quel supplemento di legittimazione che, se i sondaggi colgono nel segno, pare non volerne sapere di mettere radici salde nella testa degli italiani e delle italiane. Moralizzare la guerra, dunque. Per giustificare i profitti di pochissimi e i sacrifici di tantissime/i.
E così fummo
inondate. Dall’accostamento del liberal-populista Zelensky (appoggiato nella
sua ascesa dall’oligarca Kolomoyskyi, sovvenzionatore di gruppi neonazisti) al
leader socialista cileno Allende (deposto nel 1973 dal golpe militare di
Pinochet, sostenuto dalla CIA e dall’amministrazione Nixon), fino
all’equiparazione fra le operazioni dell’esercito ucraino (che integra nei
propri ranghi unità militari neonaziste) e la resistenza italiana
(convenientemente alleggerita, per l’occasione, dei suoi connotati di guerra
civile e guerra di classe) o, ancora, fra l’afflusso di foreign
fighters suprematisti in Ucraina (commentato con toni allarmati
persino dal Washington Post) e le Brigate internazionali nella
guerra civile spagnola (schierate contro le forze nazionaliste del generale
Franco), da tempo non si vedeva difendere con tanto ardore la libertà di
attribuire alle proiezioni più sgangherate la dignità di ragionamento
storico-politico. In un batter d’occhio, come se nulla fosse, la deferenza
verso gli esperti raccomandata su tutti i canali per due anni di pandemia ha
ceduto il passo alla promozione degli esercizi più contorti di storiografia
“selvaggia”.
Certo, per
chi brucia dal desiderio di vedere decollare i bombardieri a protezione dello
spazio areo ucraino, la ritrovata libertà di gridare ad alta voce la prima cosa
che passa per la testa senza correre il rischio di essere sepolto dal ridicolo
deve essere, in fin dei conti, una misera consolazione. Viceversa, è da credere
che la libertà di sconciare la storia come meglio conviene fornisca una gradita
compensazione a chi si è rassegnato a contenere la smania di vittoria nel campo
della contesa ideologica. Ad ogni buon conto, sarà il tempo a stabilire se i
prodotti di questo sfrenato avventurismo analogico riusciranno a sedimentarsi
durevolmente all’interno del discorso politico o se, una volta esaurite le
ragioni della polemica più immediata, retrocederanno al rango di materiale
letterario per uno sciocchezzaio flaubertiano.
Per il
momento, vale la pena interrogarsi sulle ragioni della vulnerabilità del nostro
campo a scorribande teppistiche come quelle appena evocate, nel corso delle
quali i simboli della sinistra vengono sventolati come trofei sottratti al
nemico. È giusto domandarsi, per esempio, se decenni di retorica
nazional-conciliatrice sulla Resistenza tricolore non abbiano enormemente
agevolato il compito a quanti, oggi, si precipitano a convertire quella valuta
in un argomento a favore del rifornimento militare dell’esercito ucraino e del
prolungamento a oltranza dei combattimenti.
Come è
giusto chiedersi se le eruzioni quotidiane di russofobia, l’invenzione di
quinte colonne putiniane (utile anche a stornare l’attenzione da quelle vere,
che siedono in Parlamento e partecipano al governo Draghi) e gli attacchi
sguaiati alla dirigenza dell’ANPI rispondano alle motivazioni ufficialmente
dichiarate. Anche volendolo, infatti, è impossibile non accorgersi di come il
nome di Putin, in bocca allo schieramento interventista, si dilati fino ad
assumere le proporzioni di uno sconfinato campo magnetico in cui vengono fatte
gravitare le idee di chiunque si opponga all’escalation bellica.
Accomunate
dall’accusa di capitolazione alla propaganda putiniana, si trovano così
infilate in un unico sacco le posizioni più disparate: realiste, non-violente,
anarchiche, cattoliche, pacifiste, antimperialiste, femministe. Al tempo
stesso, riaffiora in superficie un forsennato anticomunismo: una forza a dire
il vero mai sopita, alimentata da anni di terrorismo mediatico e pedagogico
tutto teso a dimostrare che “comunismo” è il nome di un male metafisico,
inalterabile al di là delle sue manifestazioni storiche, e che il carattere
“utopistico” dei suoi obiettivi non può generare altro che esiti totalitari.
Una volta accettate queste premesse, persino il bonapartismo putiniano può
essere ricondotto alla metafisica del “comunismo”.
Sotto questa
cappa asfissiante di conformismo, ci si può a malapena stupire di quanto poco
importino alla propaganda interventista le credenziali antibolsceviche
rivendicate da Putin nel discorso del 21 febbraio 2022 e, del resto, mai
smentite dai fatti. Analogamente, poco importano gli elementi di continuità —
profondi e preponderanti, secondo alcuni studiosi della società russa
post-sovietica — fra il regime di Putin e quello di Eltsin, a suo tempo tenuto
nelle grazie dell’Occidente. Poco importa che molte delle persone oggi
sospettate di cripto-putinismo, vent’anni fa si trovassero per le strade di
Genova a contestare il club dei G8, dove l’autocrate russo era ricevuto con
tutti gli onori, accolte dalle manganellate del “mondo libero”. E poco importa,
in ultima analisi, anche la marginalità di posizioni filo-putiniane e
neo-campiste all’interno della sinistra di classe europea, dove finanche i
partiti comunisti apertamente nostalgici dello stalinismo, come quello greco e
quello portoghese, hanno condannato l’invasione russa dell’Ucraina
sottolineando che il regime di Putin è alla ricerca di una «unificazione
capitalistica dei paesi dell’ex Unione Sovietica».
Poco importa
agli interventisti tenere in considerazione questo insieme di circostanze,
perché la guerra imperialista prevede tutto, ma non l’apertura di percorsi
possibili di democratizzazione dei rapporti sociali e politici. Potrebbe essere
diversamente per la guerra combattuta sul fronte ideologico? Il consolidamento
del mitologema liberale “i nostri valori” può rinunciare alla caccia al rosso?
No. E in fondo lo sanno bene le istituzioni europee, da anni impegnate a fare da
cassa da risonanza alle richieste dei settori più oltranzisti che, nell’Europa
centro-orientale, esasperano le memorie nazionalistiche, perseguitano le
minoranze, dimenticano le responsabilità locali per gli eventi della Seconda
guerra mondiale, costruiscono per le proprie sofferenze paralleli con la Shoah,
situano la Russia come potenza non-europea e, naturalmente, reclamano
quell’equiparazione tra nazismo e comunismo che una risoluzione del Parlamento
europeo sull’«Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» ha
formalizzato nel settembre del 2019.
Ma torniamo
alla macchina dell’informazione. Bisogna osservare, al riguardo, che ciò che si
tace è altrettanto rilevante di ciò che si ripete a più non posso. Eloquente,
almeno per chi lo ha avvertito, è stato per esempio il silenzio dei media su
uno degli episodi finora più significativi di opposizione all’escalation
bellica in Europa: lo sciopero generale in Grecia del 6 aprile, convocato dalle
confederazioni sindacali del settore pubblico e privato su una piattaforma
rivendicativa che, alla richiesta di aumenti salariali e misure contro il
carovita, affiancava lo slogan politico “nessun coinvolgimento della Grecia
nella guerra”, anche in conseguenza del rifiuto dei ferrovieri della Trainose
di trasportare le attrezzature militari della NATO al di fuori del paese.
Praticamente
inosservata, a dispetto della vicinanza alla popolazione ucraina proclamata
ogni giorno su tutti gli organi di informazione, è stata pure l’accelerazione
del processo di riforma del mercato del lavoro che ha interessato quel paese.
Caldeggiata da un fondo governativo legato al Foreign Office britannico, è
stata approvata a marzo dalla Verkhova Rada una legge che, secondo Open
Democracy, «aumenta in modo rilevante i diritti delle imprese private e delle
aziende e istituzioni di Stato, mentre riduce quelli dei lavoratori».
Autodeterminazione dell’Ucraina sì, ma entro intangibili limiti di classe: lì
come altrove, in guerra e in pace.
Dev’essere
sempre a causa di questa interpretazione ristretta del principio di
autodeterminazione che, all’accoglienza benevola riservata alla richiesta di
“armi armi armi”, non hanno fatto seguito, da parte dei governi dell’alleanza
euroatlantica, proposte di remissione o di riduzione del debito di un paese
come l’Ucraina, che deve somme equivalenti all’80% per cento del proprio PIL al
Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, all’Unione Europea, al
Canada e ad altri creditori internazionali.
In Ukraine
and the Empire of Capital. From Market Transition to Armed Conflict (Pluto
Press, 2018), la studiosa ucraina Yuliya Yurchenko imputa alla combinazione di
riforme di mercato, cattiva gestione dei prestiti e malversazioni da parte del
blocco dominante «cleptocratico» la creazione di una «dipendenza tossica»
dell’Ucraina dal debito estero, la quale è a propria volta diventata «uno
strumento di manipolazione nello scontro geopolitico fra Russia e Stati
Uniti/Unione Europea». La geopolitica del debito è costata all’Ucraina, secondo
Yurchenko, la sua residua sovranità ed è all’origine delle tensioni che rendono
possibile il conflitto armato. Ma anche qui: quale editoriale, quale talk
show, quale autorevolissima petizione a favore di sacrifici che altri dovranno
sostenere, può permettersi il lusso di riaccendere l’attenzione dell’opinione
pubblica su un tema — evidentemente non solo ucraino, e finito praticamente nel
dimenticatoio dopo il 2015 — come quello del debito? L’impresa di
moralizzazione della guerra, in tutta evidenza, non è compatibile con
l’esplicitazione delle sue radici materiali.
Per oscurare
quelle radici, niente di meglio dell’altra grande analogia che, dall’inizio
della guerra, corre di bocca in bocca: chiamando in causa, questa volta, la
vulnerabilità del femminismo alle strumentalizzazioni belliciste. Alludo
all’analogia che equipara l’aggressione militare russa ai danni dell’Ucraina a
un caso di stupro o, a seconda delle varianti, di femminicidio. Colpo grosso,
effetto indignazione garantito, in ragione inversamente proporzionale all’attenzione
riservata agli stupri e ai femminicidi in tempo di pace, per tacere di forme
meno sensazionalistiche di oppressione e sfruttamento delle donne.
Come spesso
accade di fronte a fenomeni di discorsività diffusa, è difficile stabilire chi
sia stato il primo, o la prima, a lanciare l’idea e ad armare, con questo
artificio retorico, agguerrite falangi di ripetitrici e ripetitori. Colpisce,
tuttavia, che a servirsi di questa analogia abusiva siano figure di
riconosciuto spessore intellettuale. In un articolo apparso sul Foglio il
12 marzo con il titolo Putin vuole uccidere l’infedele Ucraina,
Adriano Sofri afferma di dovere al giornalista e militante nazionalista ucraino
Vladislav Maistrouk il «pensiero folgorante» secondo cui «l’ossessione di Putin
per l’Ucraina somiglia a quella di certi uomini per la ex moglie che hanno
amato, al punto di ucciderla. […] Un corto circuito fra guerra e femminicidio:
mai casus belli è stato più nitido».
Ci sarebbe
molto da obiettare alla riduzione del femminicidio a moventi di ordine
psicologico, come pure alla pretesa di elevare al rango di analisi le
motivazioni che maltrattanti e femminicidi spesso adducono («l’ho uccisa perché
l’amavo troppo») per le proprie azioni. In questa sede, è sufficiente limitarsi
a registrare la facilità con cui l’equazione — da sempre cara a tutti i
nazionalismi — fra corpo delle donne e corpo della nazione è riuscita a
insediarsi nel paesaggio mentale di un intellettuale progressista schierato a
difesa dell’invio di armi in Ucraina.
Una volta
accettata l’equazione, si capisce, si entra in quel regno dell’indistinzione in
cui vale tutto. Vale la rimozione della natura inter-imperialistica del
conflitto in corso. Vale il rifiuto di distinguere fra una donna (o l’intera
classe delle donne) e uno Stato (o il suo popolo). Vale, di conseguenza, la
messa fra parentesi degli interessi comuni fra le donne che tagliano
trasversalmente il conflitto a livello internazionale. Vale l’impiego a mezzo
servizio dell’analogia in questione, dato che difficilmente i suoi fautori
accetterebbero di contribuire all’armamento delle oppresse contro i loro
aguzzini o di appoggiare un programma di sanzioni economiche ai danni della
classe di sesso che opprime. Vale l’attribuzione esclusiva del patriarcato
all’universo sociale del nemico, mentre per quanto concerne il proprio è
sufficiente richiamarsi alle inevitabili “imperfezioni” della democrazia
liberale. Vale l’amalgama fra una metafora impropria (la guerra come stupro o
come assalto mortale alla moglie infedele) e una tragica realtà (gli stupri di
guerra). Vale, travestita da accorato lamento per una presunta insufficienza
femminista nella denuncia degli stupri di guerra, la riaffermazione della
divisione patriarcale del lavoro politico: agli uomini la deliberazione sulla
guerra e sulla pace, alle donne l’obbligo di farsi carico delle conseguenze di
decisioni che non hanno preso. E se non può essere la logica a dare solidità a
simili pseudo-argomenti, in effetti non resta altro che la forza di imporli.
Ma anche
volendo astrarre dalla sequenza di false equivalenze messa in moto
dall’equazione corpo delle donne/corpo della nazione, resta sconcertante
l’indifferenza di Sofri a un’evidenza: la «folgorante» intuizione
maistroukiana, lungi dall’offrire un’inedita chiave di lettura del conflitto in
corso, appartiene a un repertorio già ampiamente collaudato. Si dovrebbe
conoscere il peso dell’argomento “stupro del Belgio” nella propaganda
dell’Intesa, e in particolar modo della Gran Bretagna, durante la Prima guerra
mondiale. Fu grazie alla riproposizione martellante di quel ritornello,
associata a una formidabile pressione economica, che il governo inglese riuscì
a piegare parti consistenti della classe operaia britannica, coinvolgendola
nello sforzo bellico.
In quegli anni,
Sylvia Pankhurst ebbe modo di constatare con amarezza l’efficacia della
propaganda governativa su due dirigenti della East London Federation of the
Suffragettes (ELFS), persuase della necessità di accettare i sacrifici per la
libertà del Belgio: «le loro menti [erano] stordite e ammaliate dai torrenti di
retorica della stampa, dall’atmosfera di eccitazione e dalle dicerie che
crescevano senza sosta in ogni strada». Le ragioni dell’amarezza sono presto
dette. Tre giorni prima della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla
Germania, sulle colonne di The Woman’s Dreadnought, la leader
suffragista aveva chiarito in questi termini la natura della catastrofe che si
stava avvicinando, facendo tesoro delle lezioni apprese nel corso delle guerre
coloniali che avevano preceduto la deflagrazione del 1914: «Ogni sorta di
ragione che suona gloriosa e patriottica viene invariabilmente avanzata a
sostegno di una dichiarazione di guerra; ma è praticamente certo che ogni
guerra dell’epoca moderna sia stata combattuta con l’obiettivo puramente
materialistico di promuovere i progetti e proteggere gli interessi di
finanzieri ricchi e potenti». Non era arrivata a conclusioni molto diverse Rosa
Luxemburg, un anno prima, ne L’accumulazione del capitale. Altro
che sublimazione della guerra nell’immagine di mariti ossessionati da mogli
infedeli.
Com’è noto,
l’impatto della Grande Guerra sul movimento suffragista inglese fu drammatico.
La guerra rimescolò le carte: antiche divisioni, in particolare quella fra
l’ala costituzionale e l’ala militante del movimento, si ricomposero
all’insegna della lealtà nazionalista. Nel corso di una riunione pubblica,
ancora nel 1915, Millicent Fawcett, presidente della National Union of Women’s
Suffrage Societies (NUWSS), dichiarò che parlare di pace prima della sconfitta
della Germania equivaleva a macchiarsi di «tradimento». Il 12 agosto 1914
Emmeline e Christabel Pankhurst, le dirigenti della Women’s Political and
Social Union (WSPU), informarono le attiviste che la campagna militante per il
suffragio sarebbe stata sospesa fino al termine del conflitto e che le
posizioni pacifiste erano incompatibili con l’appartenenza all’organizzazione.
Più tardi venne modificata l’intestazione del giornale della WSPU, The
Suffragette, che a partire dall’ottobre del 1915 iniziò ad uscire con il
nome di Britannia, per sottolineare l’adesione alla politica
dell’Impero.
Altre
divisioni invece si approfondirono. Una parte della direzione della NUSWW
abbandonò l’organizzazione, dopo essere stata sconfessata dall’ala
interventista per aver contribuito a organizzare il Congresso Internazionale
delle Donne dell’Aia (1915), che chiedeva una pace negoziata. All’interno della
WSPU l’opposizione alla guerra non provenne dai quadri dirigenti, ma da
militanti di base che la storiografia ha definito «suffragette freelance». Già
prima della guerra, d’altra parte, le suffragette con inclinazioni socialiste
erano uscite dalla WSPU per costituire altre organizzazioni. Al momento
dell’ingresso in guerra, tutti questi gruppi (la Women’s Freedom League, le
United Suffragists, la East London Federation of Suffragettes) avrebbero
adottato risoluzioni critiche contro lo sforzo bellico.
Se in questa
storia c’è qualcosa che merita ancora la nostra attenzione, è chiaro che non si
tratta dell’analogia mistica fra corpo delle donne e della nazione. È semmai il
modo in cui un pugno di donne, escluse dalla rappresentanza formale, ha provato
a qualificare politicamente la propria opposizione alla guerra. In mezzo a un
mare di difficoltà Sylvia Pankhurst, fiera internazionalista, fece di tutto per
evitare che la propria organizzazione si trasformasse in un organismo di
assistenza sociale e per formulare rivendicazioni capaci di promuovere il
protagonismo delle donne contrastando la retorica dell’interesse nazionale e
dei sacrifici: «If we can make employers lose instead of making profits we
would bring the war to an end» («Se riuscissimo a fare in modo che i
padroni perdano anziché accumulare profitti, metteremmo fine alla guerra»).
L’esito non è scritto, ma è quello che dovremmo fare anche noi. Nella notte, ci
guidino le stelle.
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