Nel 1915, nello scritto Juniusbrochüre, così scriveva Rosa
Luxemburg a proposito dello sconcerto suscitato scoppio della guerra
in Europa:
Per la prima volta oggi le bestie feroci, liberate dall’Europa
capitalistica contro tutte le altre parti del mondo, hanno fatto di un balzo
irruzione nel bel mezzo dell’Europa. Un grido di raccapriccio è risuonato per
il mondo, quando il Belgio, la piccola e graziosa gemma della civiltà europea,
quando i più venerandi monumenti culturali della Francia settentrionale sono
caduti fragorosamente in pezzi sotto il cozzo di una cieca forza di distruzione.
Il “mondo civile” – il quale aveva tollerato che questo imperialismo votasse
alla più spaventosa fine decine di migliaia di Herero, […] che a Putumayo una
banda di cavalieri di industria europei per dieci anni martoriasse a morte
quarantamila esseri umani […]; che in Cina un’antichissima civiltà tra incendi
e assassini fosse data in preda alla soldatesca europea […] che la Persia
soffocasse impotente nel cappio sempre più stretto del dispotismo straniero;
che a Tripoli gli arabi fossero piegati a ferro e a fuoco sotto il giogo del
capitale […] – questo “mondo civile” soltanto oggi si è accorto che il morso
della bestia imperialista è apportatore di morte, che il suo fiato è nefando.
Esso se ne è reso conto soltanto nel momento in cui la bestia ha piantato le
sue zanne feroci nel grembo materno (Luxemburg 1976, pp. 510-511).
Oggi la guerra è ritornata nel cuore dell’Europa, minaccia di estendersi e
ha indotto un senso di catastrofe imminente. Smarrimento, paura,
angoscia, senso di impotenza dominano lo stato d’animo di tante
persone che si sentono sull’orlo dell’abisso, ed anche i movimenti per la pace
e per la giustizia ecologica e climatica faticano a rispondere con la chiarezza
e l’energia che la gravità della situazione richiederebbe.
Per poter elaborare una pratica politica lucida ed efficace abbiamo bisogno
innanzitutto di strumenti di analisi che, come ha scritto l’ecofemminista
francese Françoise d’Eaubonne oltre quattro decenni fa, sappiano “andare al
cuore stesso delle cose, al centro del pericolo, al nodo della questione. Non
si tratta nemmeno più di volere o non volere cambiare il mondo. Se non cambia,
moriremo. Tutte. E tutti” (D’Eaubonne 1980, p. 98).
Alle origini della guerra
A partire dal punto primo della bozza di documento che invita alla riflessione
su “Guerra, nonviolenza e decrescita”, questo
intervento* affronta la questione delle cause della guerra, non già
quelle contingenti e immediate, bensì quelle profonde e antiche per poter
esplorare in tutta la sua complessità il nesso crescita-guerra, globalizzazione
economica e guerra globale, violenza alla natura, alle popolazioni del Sud del
mondo e alle donne. Prenderò le mosse dal pensiero di Rosa Luxemburg su guerra
e accumulazione capitalistica per poi trattare brevemente della riflessione di
alcune ecofemministe anticipatrici del pensiero della decrescita: Françoise
d’Eaubonne, colei che nel 1974 coniò il termine ecofemminismo, e le autrici
della “scuola di Bielefeld” – Maria Mies, Veronika Bennholdt Thomsen e Claudia
von Werlhof – che si sono ispirate al pensiero di Rosa Luxemburg.
Non è un caso che la riflessione femminista pacifista negli ultimi tempi si
sia rivolta al pensiero di Rosa Luxemburg e alla sua opera L’accumulazione
del capitale (1913)1, e in particolare il tema della
catastrofe e dell’“effetto boomerang”. Ne ha scritto recentemente la filosofa
di Losanna Marie-Claire Caloz Tschopp (2022), studiosa di Hannah Arendt e
impegnata per il diritto d’asilo e contro la violenza di stato sui profughi2.
Le premesse teoriche fondamentali di Rosa Luxemburg che hanno ispirato la
riflessione ecofemminista possono essere riassunte in tre punti fondamentali:
1.
Il processo di espropriazione violenta, accompagnato da stermini e
devastazioni delle risorse naturali, non si è concluso nella prima fase
dell’industrializzazione, ma è un processo continuo. “L’accumulazione
originaria continuata” è la natura stessa del capitalismo, la sua dinamica
strutturale che tende alla trasformazione in capitale di tutte le ricchezza
della terra.
- L’accumulazione è in primo luogo una relazione
tra il capitale e le formazioni non capitalistiche; essa vive della loro rovina,
della loro erosione e assimilazione. Il capitalismo, infatti, ha sempre
bisogno di “colonie” e costantemente “invade ogni risorsa umana, naturale,
esistenziale” (Turchetto 2021, p. 12).
3. Il capitalismo esige
un’illimitata libertà di movimento; la sua marcia distruttrice si estende a
tutto il pianeta. Questa “illimitatezza” ha caratterizzato il sistema mondiale capitalista
sin dai suoi inizi. Scrive Luxemburg: “Nella sua spinta all’appropriazione
delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tutto il mondo,
si procura i mezzi di produzione da tutti gli angoli della terra, li conquista
o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme sociali”
(Luxemburg,1968, p. 352).
Di qui, violenza, guerra, rivoluzione. L’immagine del mondo nella
fase terminale del capitalismo che traccia Rosa Luxemburg è quella di un’era di
catastrofi, convulsioni politiche, sociali ed ecologiche.
L’attuale imperialismo […] è il periodo della lotta generale e acutizzata
di concorrenza tra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non
capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe economica e politica è, in
questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del
capitale […], inseparabile dalle conquiste coloniali e di guerre mondiali che
oggi viviamo.
Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza
per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia
e multilateralità dell’espansione, ma sintomo specifico che il cerchio
dell’evoluzione comincia a chiudersi! Il rifluire della lotta decisiva per
l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi d’origine.
L’imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua
esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di
partenza. Dopo aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte
convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli
non capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del
capitale precipita oggi gli stessi popoli civili d’Europa in una serie di
catastrofi, il cui risultato non può essere che il crollo della stessa civiltà
o il trapasso al modo di produzione socialistica (Luxemburg, Una
Anticritica, 1968), pp. 585-586).
Gli eventi degli ultimi decenni confermano le analisi di Rosa
Luxemburg. Quando il sistema capitalistico urta contro i suoi limiti
economici, è sempre pronto a usare la guerra per forzare tali limiti;
quando non c’è alcun campo d’investimento, lo si crea con la
guerra che consente profitti derivanti dalla produzione di
armamenti e dalla ricostruzione dopo la distruzione. In questo modo la
guerra è condizione per una nuova crescita, una prosecuzione dell’economia con
altri mezzi, come si legge nella bozza di documento. La guerra, dunque, non
è una condizione eccezionale, ma un aspetto permanente della politica
economica del capitalismo; lo sviluppo delle forze produttive, ovvero delle sue
inerenti forze distruttive, è sempre stato legato all’esigenza della guerra.
Tuttavia, di fronte alla finitezza della terra, neppure la guerra riuscirà
a scovare sempre nuove risorse terrestri, a trasformarle in capitale e infine a
distruggerle. Il “cerchio comincia a chiudersi”; lo evidenziano la corsa
furiosa a sfruttare gli ultimi mercati e la proliferazione dei conflitti.
Poiché, come affermava Rosa Luxemburg, il capitalismo non può vivere in assenza
di ambienti non capitalistici, nel neoliberalismo globalizzato abbiamo
assistito e assistiamo alla espropriazione, al saccheggio e alla distruzione
dell’economia non ancora diretta dai gruppi multinazionali, soprattutto di
quella del settore pubblico e delle piccole e medie aziende private.
Ha scritto nel 2003 Claudia von Werlhof:
Si crea così una condizione di ‘autentica guerra’, ossia di guerra
permanente al centro della vita di ogni giorno, che bandisce dalla società
tutto quello che è civile, democratico, evoluto, umano, favorevole alla vita –
e rende le società militarizzate, decivilizzate” (Werlhof 2005, p. 46).
Riflettendo sulla guerra in Iraq, l’ecofemminista tedesca, così continuava:
Trovo molto interessante che la guerra come modello per il futuro del Nuovo
ordine mondiale sia contemporaneamente il modello del passato, ossia dell’origine
del patriarcato proprio in Iraq circa 5000 anni fa. Là
infatti ha avuto allora origine ciò che oggi assolutamente chiamiamo guerra:
invasione, occupazione, appropriazione e consumo di risorse. Perciò, se
pensiamo a delle alternative, sono in discussione non solo 500 anni di
capitalismo e colonialismo, bensì 5000 anni di patriarcato (ivi, p. 47).
Patriarcato e capitalismo
Da lungo tempo le donne hanno riflettuto sul patriarcato, ovvero sulla
relazione di potere che le ha oppresse e sfruttate. Impossibile ricostruire,
neppure a grandi linee, la ricchezza degli studi e del dibattito sulla nascita
e l’affermazione del patriarcato e della divisione sessuale del lavoro, basti ricordare che
numerose autrici, fin dall’Ottocento, anticipando i lavori di Marjia Gimbutas
(1999), hanno evocato un’epoca in cui la centralità della figura materna aveva
assicurato una convivenza pacifica e un elevato grado di civiltà, in cui la
vita era sacra e i ruoli femminili riconosciuti in ogni istituzione sociale. Questi
studi hanno rivelato che molte delle caratteristiche del patriarcato sono
proprie anche del capitalismo: la guerra come sistema di conquista e
saccheggio, il dominio sulle donne, lo sviluppo di sistemi di sfruttamento
dell’umanità e della natura, le credenze religiose centrate sulla figura
maschile come vera creatrice della vita.
Tra le ecofemministe che hanno indagato il nesso tra patriarcato e
capitalismo ricordo Françoise d’Eaubonne (1920-2005) che nel 1980 in La
natura della crisi aveva previsto “la morte del mondo terrestre” in
trenta-cinquanta anni se non fosse avvenuto un mutamento radicale nelle
relazioni umane e tra gli esseri umani e la natura.
Non si tratta di tornare alla ruota per filare o alla barca a vela come ci
accusano gli imbecilli; il passo da una parte non è un passo indietro. Si
tratta di passare realmente all’età post-industriale, perché il mantenimento
dell’età industriale – e non soltanto la sua crescita –, il suo semplice
mantenimento è la fine del mondo terreste in trenta-cinquant’anni. Non si può andare
oltre queste date conservando il sistema del profitto. Non si può abolire il
sistema del profitto conservando una società di classe, ovvero il bisogno del
potere. Non si può abolire il potere conservando il mondo patriarcale e
maschile (D’Eaubonne 1980, p. 98).
Nelle sue opere, La femme avant le patriarcat (1976)
ed Écologie-féminisme (1978), un testo poco noto che è stato
ripubblicato di recente con introduzione di Serge Latouche3, D’Eaubonne aveva fatto risalire
la causa diretta della distruzione della terra al controllo patriarcale della
fertilità della terra e della fecondità femminile. Quando (tra il 3.500 e il
2.500 avanti Cristo) l’uomo sottrasse alle donne la produzione agricola, le
tecniche conservative e le diversificazioni colturali lasciarono il posto a
quelle sempre più intensive; alla zappa si sostituì l’aratro e fu introdotta
l’irrigazione. Quando l’uomo scoprì di avere un ruolo nella riproduzione, la
natalità iniziò ad aumentare; credendosi l’unico agente della procreazione, non
solo un collaboratore, egli considerò la donna e la terra come ricettacoli
della sua forza vitale. Da allora il predatorio modo di appropriazione divenne
il paradigma dell’economia e di tutte le relazioni di sfruttamento; la donna,
“schiava prima della schiavitù”, fu ridotta all’insignificanza e la terra a
materia inerte da sfruttare. Nacquero nuove strutture mentali caratterizzate
dall’“illimitimisme”, dall’assenza di limiti nella ricerca del potere – sulle
donne, sulla natura, su altri gruppi e popoli –, uno sfruttamento estremo
basato sulla sete dell’assoluto, un’illusione prometeica che
nel suo delirio di appropriazione avrebbe portato all’annientamento della vita.
In questa
“corsa verso l’infinito, l’aggressività competitiva è indispensabile […] e
la competizione comporta la progressiva intensificazione della violenza e il
massacro” (D’Eaubonne 2018, p. 163).
Fin dal suo sorgere, continua la femminista francese, il sistema
patriarcale impose una logica intrinsecamente conflittuale e manichea in tutte
le forme di pensiero. Questo modo di ragionare consiste nello sviluppare due
dimensioni contraddittorie in cui l’una esclude l’altra (ivi, p. 97), un
modo di pensare che rende l’eguaglianza e la relazione impensabili.
La concezione del capitalismo come espressione ultima del patriarcato è
centrale negli scritti delle ecofemministe di Bielefeld (Werlhof 2007; Mies
2014). In Patriarchy and Acccumulation on a World Scale, un’opera
apparsa per la prima volta nel 1986, Maria Mies sosteneva che il cuore
della crisi ambientale risiede nella negazione della dipendenza dalla sfera
della natura, dal corpo, dal lavoro delle donne e dalla riproduzione, nel
falso senso di autonomia maschile sotteso all’antropocentrismo che aveva
origini antiche.
La mia tesi è che il capitalismo non può funzionare senza
patriarcato, che lo scopo di questo sistema, ovvero il processo di
accumulazione infinito non può essere raggiunto senza che siano conservate, o
ricreate, le relazioni patriarcali tra uomo e donna, possiamo anche parlare di
neo-patriarcato. Il patriarcato rappresenta l’invisibile sostrato del sistema
visibile del capitalismo (Mies 2014, p. 38).
La critica delle ecofemministe della scuola di Bielefeld al paradigma della
crescita illimitata che distrugge la vita sulla terra ha tratto ispirazione
dalla filosofia che ha guidato le lotte delle donne dei paesi del Sud del
mondo, dai movimenti di resistenza di vastissima portata da esse promossi per
difendere l’economia di sussistenza, riconnettere produzione e consumo,
conservare la vita, dare dignità e senso al loro lavoro, acquisire maggiore
indipendenza, porre un freno alla violenza.
Prendendo le mosse dai mutamenti nei paesi del Sud del mondo, dal dibattito
in seno al movimento femminista sul lavoro di produzione e di riproduzione che
si era sviluppato nel decennio precedente e dall’analisi del pensiero di Rosa
Luxemburg sulle “economie naturali”, Maria Mies, Veronika Bennoldt Thomsen e
Claudia von Werlhof – si sono soffermate sul significato che assumono
nell’accumulazione capitalistica le relazioni di lavoro non salariate.
Luxemburg non era femminista, ma la sua analisi è stata cruciale per
comprendere perché le donne, come lavoratrici non pagate, le colonie e le
risorse naturali devono essere sfruttare per consentire la crescita
capitalistica (Mies 2014, p. XVII).
Il lavoro domestico delle donne in Occidente e la produzione di sussistenza
nei paesi del Sud del mondo rappresentano la base materiale del processo di
valorizzazione e accumulazione. La principale contraddizione nel capitalismo,
dunque, non è quella tra il lavoro salariato e il capitale, ma tra il capitale, le varie forme di
lavoro e, in definitiva, la vita stessa4.
Si è così andato affermando nel pensiero ecofemminista una nuova
prospettiva, la prospettiva della sussistenza, che si può applicare in ogni
sfera dell’attività umana e che individua una via di liberazione nella
semplicità volontaria, nell’autosufficienza, nella riduzione dei consumi che
causano povertà, distruzione dell’ambiente e accrescono le forme più brutali di
dominio sulle donne e prefigura un’economia morale basata su principi
etici che superi l’attuale divisione sessuale del lavoro. Il distacco dalla
sussistenza e dalla riproduzione della vita è il terreno su cui si è sviluppata
l’economia capitalistica che propone una nuova trascendenza che uccide la vita
oggi e trasferisce le sue false promesse nel futuro. Al contrario, la politica
che pone al centro i valori della sussistenza segue l’immanente, i bisogni
reali delle persone reali, attribuisce valore a tutti i viventi e alla natura
e può prendere avvio solo dal basso. Solo l’abbandono della
produzione di merci e la rivitalizzazione dell’economia di sussistenza, che è
stata a lungo oppressa e distrutta, potrà impedire che il sistema mondiale
capitalistico giunga alle sue ultime conseguenze divenendo un sistema di guerra
globale.
Femminismi e decrescita
Nella convinzione che la crescita economica non sia un processo neutrale
rispetto al genere numerose femministe negli ultimi anni si sono interrogate
sull’incontro possibile tra femminismo e decrescita, ma questo
incontro si è rivelato difficile (Bianchi 2015).
Nel 2016, alla quinta Conferenza internazionale della decrescita a Budapest
è nata FaDA, Feminisms and Degrowth Alliance, una rete di studiose
e attiviste ormai diffusa in molti paesi con lo scopo di includere l’analisi di
genere e la riflessione sul rapporto patriarcato-capitalismo nel pensiero della
decrescita. Benché il dialogo sia ormai avviato, le argomentazioni
femministe ed ecofemministe non sono ancora parte integrante della proposta di
decrescita (Saave-Harnack – Dengler – Muraca 2019; Dengler 2021). Alle
stesse conclusioni sono giunti gli studi di altre autrici, come quello di di
Patricia Ellis Perkins (2017) e di Marisol Bock (2021). La letteratura
ecofemminista, ha scritto Perkins, è per lo più ignorata, in particolare quella
sul tema della dipendenza del capitalismo dal lavoro non pagato delle donne e
dai “servizi ecologici non pagati” (2017). Eppure, le riflessioni ecofemministe
sulla storia, l’economia, la scienza e l’ecologia potrebbero essere fonti
importanti di ispirazione per l’attivismo e il pensiero della decrescita.
Di fronte all’intensificazione del riarmo, alla moltiplicazione dei
conflitti e all’aggravamento della crisi ecologica, una convergenza profonda
delle due linee di pensiero appare cruciale.
Solo il riconoscimento dell’interconnessione tra tutti i rapporti di
dominio (di genere, di classe, di razza, di età, di specie), solo
l’abbandono di un modo di pensare che separa le relazioni di potere tra uomini
e donne, tra umani e mondo naturale, tra umani e animali, tra metropoli e
colonie, potranno condurre a una strategia di pace inclusiva, coerente ed
efficace.
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2007, pp. 13-27.
Note
1 L’opera a lungo è stata poco letta;
dal 1972 al 2012 nessuna ristampa è apparsa in italiano.
2 Si veda anche il volume di Giovanni
Di Benedetto, apparso pochi mesi prima dello scoppio del conflitto (2021),
3 Su Françoise d’Eaubonne come
anticipatrice della decrescita si veda: Goldblum 2019.
4 Su questo tema si veda il volume
dell’ecofemminista spagnola Amaia Pérez Orozco (2014).
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