sabato 4 giugno 2022

Rosa Luxemburg e la crescita - Bruna Bianchi

 

 

Nel 1915, nello scritto Juniusbrochüre, così scriveva Rosa Luxemburg a proposito dello sconcerto suscitato scoppio della guerra in Europa:

Per la prima volta oggi le bestie feroci, liberate dall’Europa capitalistica contro tutte le altre parti del mondo, hanno fatto di un balzo irruzione nel bel mezzo dell’Europa. Un grido di raccapriccio è risuonato per il mondo, quando il Belgio, la piccola e graziosa gemma della civiltà europea, quando i più venerandi monumenti culturali della Francia settentrionale sono caduti fragorosamente in pezzi sotto il cozzo di una cieca forza di distruzione. Il “mondo civile” – il quale aveva tollerato che questo imperialismo votasse alla più spaventosa fine decine di migliaia di Herero, […] che a Putumayo una banda di cavalieri di industria europei per dieci anni martoriasse a morte quarantamila esseri umani […]; che in Cina un’antichissima civiltà tra incendi e assassini fosse data in preda alla soldatesca europea […] che la Persia soffocasse impotente nel cappio sempre più stretto del dispotismo straniero; che a Tripoli gli arabi fossero piegati a ferro e a fuoco sotto il giogo del capitale […] – questo “mondo civile” soltanto oggi si è accorto che il morso della bestia imperialista è apportatore di morte, che il suo fiato è nefando. Esso se ne è reso conto soltanto nel momento in cui la bestia ha piantato le sue zanne feroci nel grembo materno (Luxemburg 1976, pp. 510-511).

Oggi la guerra è ritornata nel cuore dell’Europa, minaccia di estendersi e ha indotto un senso di catastrofe imminente. Smarrimento, paura, angoscia, senso di impotenza dominano lo stato d’animo di tante persone che si sentono sull’orlo dell’abisso, ed anche i movimenti per la pace e per la giustizia ecologica e climatica faticano a rispondere con la chiarezza e l’energia che la gravità della situazione richiederebbe.

Per poter elaborare una pratica politica lucida ed efficace abbiamo bisogno innanzitutto di strumenti di analisi che, come ha scritto l’ecofemminista francese Françoise d’Eaubonne oltre quattro decenni fa, sappiano “andare al cuore stesso delle cose, al centro del pericolo, al nodo della questione. Non si tratta nemmeno più di volere o non volere cambiare il mondo. Se non cambia, moriremo. Tutte. E tutti” (D’Eaubonne 1980, p. 98).

Alle origini della guerra

A partire dal punto primo della bozza di documento che invita alla riflessione su “Guerra, nonviolenza e decrescita”, questo intervento* affronta la questione delle cause della guerra, non già quelle contingenti e immediate, bensì quelle profonde e antiche per poter esplorare in tutta la sua complessità il nesso crescita-guerra, globalizzazione economica e guerra globale, violenza alla natura, alle popolazioni del Sud del mondo e alle donne. Prenderò le mosse dal pensiero di Rosa Luxemburg su guerra e accumulazione capitalistica per poi trattare brevemente della riflessione di alcune ecofemministe anticipatrici del pensiero della decrescita: Françoise d’Eaubonne, colei che nel 1974 coniò il termine ecofemminismo, e le autrici della “scuola di Bielefeld” – Maria Mies, Veronika Bennholdt Thomsen e Claudia von Werlhof – che si sono ispirate al pensiero di Rosa Luxemburg.

Non è un caso che la riflessione femminista pacifista negli ultimi tempi si sia rivolta al pensiero di Rosa Luxemburg e alla sua opera L’accumulazione del capitale (1913)1, e in particolare il tema della catastrofe e dell’“effetto boomerang”. Ne ha scritto recentemente la filosofa di Losanna Marie-Claire Caloz Tschopp (2022), studiosa di Hannah Arendt e impegnata per il diritto d’asilo e contro la violenza di stato sui profughi2.

Le premesse teoriche fondamentali di Rosa Luxemburg che hanno ispirato la riflessione ecofemminista possono essere riassunte in tre punti fondamentali:

1.      Il processo di espropriazione violenta, accompagnato da stermini e devastazioni delle risorse naturali, non si è concluso nella prima fase dell’industrializzazione, ma è un processo continuo. “L’accumulazione originaria continuata” è la natura stessa del capitalismo, la sua dinamica strutturale che tende alla trasformazione in capitale di tutte le ricchezza della terra.

  1. L’accumulazione è in primo luogo una relazione tra il capitale e le formazioni non capitalistiche; essa vive della loro rovina, della loro erosione e assimilazione. Il capitalismo, infatti, ha sempre bisogno di “colonie” e costantemente “invade ogni risorsa umana, naturale, esistenziale” (Turchetto 2021, p. 12).

3.      Il capitalismo esige un’illimitata libertà di movimento; la sua marcia distruttrice si estende a tutto il pianeta. Questa “illimitatezza” ha caratterizzato il sistema mondiale capitalista sin dai suoi inizi. Scrive Luxemburg: “Nella sua spinta all’appropriazione delle forze produttive a fini di sfruttamento, il capitale fruga tutto il mondo, si procura i mezzi di produzione da tutti gli angoli della terra, li conquista o li acquista in tutti i gradi di civiltà, in tutte le forme sociali” (Luxemburg,1968, p. 352).

Di qui, violenza, guerra, rivoluzione. L’immagine del mondo nella fase terminale del capitalismo che traccia Rosa Luxemburg è quella di un’era di catastrofi, convulsioni politiche, sociali ed ecologiche.

L’attuale imperialismo […] è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza tra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non capitalistico sopravvissuti nel mondo. La catastrofe economica e politica è, in questa fase conclusiva, elemento di vita, forma normale di esistenza del capitale […], inseparabile dalle conquiste coloniali e di guerre mondiali che oggi viviamo.

Il segno caratteristico dell’imperialismo come estrema lotta di concorrenza per la dominazione mondiale capitalistica non è soltanto la particolare energia e multilateralità dell’espansione, ma sintomo specifico che il cerchio dell’evoluzione comincia a chiudersi! Il rifluire della lotta decisiva per l’espansione dai territori che ne formano l’oggetto sui luoghi d’origine. L’imperialismo riconduce così la catastrofe, come forma specifica della sua esistenza, dalla periferia dello sviluppo capitalistico al suo punto di partenza. Dopo aver gettato per quattro secoli in preda a ininterrotte convulsioni e distruzioni in massa l’esistenza e la civiltà di tutti i popoli non capitalistici in Asia, Africa, America e Australia, l’espansione del capitale precipita oggi gli stessi popoli civili d’Europa in una serie di catastrofi, il cui risultato non può essere che il crollo della stessa civiltà o il trapasso al modo di produzione socialistica (Luxemburg, Una Anticritica, 1968), pp. 585-586).

Gli eventi degli ultimi decenni confermano le analisi di Rosa Luxemburg. Quando il sistema capitalistico urta contro i suoi limiti economici, è sempre pronto a usare la guerra per forzare tali limiti; quando non c’è alcun campo d’investimento, lo si crea con la guerra che consente profitti derivanti dalla produzione di armamenti e dalla ricostruzione dopo la distruzione. In questo modo la guerra è condizione per una nuova crescita, una prosecuzione dell’economia con altri mezzi, come si legge nella bozza di documento. La guerra, dunque, non è una condizione eccezionale, ma un aspetto permanente della politica economica del capitalismo; lo sviluppo delle forze produttive, ovvero delle sue inerenti forze distruttive, è sempre stato legato all’esigenza della guerra.

Tuttavia, di fronte alla finitezza della terra, neppure la guerra riuscirà a scovare sempre nuove risorse terrestri, a trasformarle in capitale e infine a distruggerle. Il “cerchio comincia a chiudersi”; lo evidenziano la corsa furiosa a sfruttare gli ultimi mercati e la proliferazione dei conflitti. Poiché, come affermava Rosa Luxemburg, il capitalismo non può vivere in assenza di ambienti non capitalistici, nel neoliberalismo globalizzato abbiamo assistito e assistiamo alla espropriazione, al saccheggio e alla distruzione dell’economia non ancora diretta dai gruppi multinazionali, soprattutto di quella del settore pubblico e delle piccole e medie aziende private.

Ha scritto nel 2003 Claudia von Werlhof:

Si crea così una condizione di ‘autentica guerra’, ossia di guerra permanente al centro della vita di ogni giorno, che bandisce dalla società tutto quello che è civile, democratico, evoluto, umano, favorevole alla vita – e rende le società militarizzate, decivilizzate” (Werlhof 2005, p. 46).

Riflettendo sulla guerra in Iraq, l’ecofemminista tedesca, così continuava:

Trovo molto interessante che la guerra come modello per il futuro del Nuovo ordine mondiale sia contemporaneamente il modello del passato, ossia dell’origine del patriarcato proprio in Iraq circa 5000 anni fa. Là infatti ha avuto allora origine ciò che oggi assolutamente chiamiamo guerra: invasione, occupazione, appropriazione e consumo di risorse. Perciò, se pensiamo a delle alternative, sono in discussione non solo 500 anni di capitalismo e colonialismo, bensì 5000 anni di patriarcato (ivi, p. 47).

Patriarcato e capitalismo

Da lungo tempo le donne hanno riflettuto sul patriarcato, ovvero sulla relazione di potere che le ha oppresse e sfruttate. Impossibile ricostruire, neppure a grandi linee, la ricchezza degli studi e del dibattito sulla nascita e l’affermazione del patriarcato e della divisione sessuale del lavoro, basti ricordare che numerose autrici, fin dall’Ottocento, anticipando i lavori di Marjia Gimbutas (1999), hanno evocato un’epoca in cui la centralità della figura materna aveva assicurato una convivenza pacifica e un elevato grado di civiltà, in cui la vita era sacra e i ruoli femminili riconosciuti in ogni istituzione sociale. Questi studi hanno rivelato che molte delle caratteristiche del patriarcato sono proprie anche del capitalismo: la guerra come sistema di conquista e saccheggio, il dominio sulle donne, lo sviluppo di sistemi di sfruttamento dell’umanità e della natura, le credenze religiose centrate sulla figura maschile come vera creatrice della vita.

Tra le ecofemministe che hanno indagato il nesso tra patriarcato e capitalismo ricordo Françoise d’Eaubonne (1920-2005) che nel 1980 in La natura della crisi aveva previsto “la morte del mondo terrestre” in trenta-cinquanta anni se non fosse avvenuto un mutamento radicale nelle relazioni umane e tra gli esseri umani e la natura.

Non si tratta di tornare alla ruota per filare o alla barca a vela come ci accusano gli imbecilli; il passo da una parte non è un passo indietro. Si tratta di passare realmente all’età post-industriale, perché il mantenimento dell’età industriale – e non soltanto la sua crescita –, il suo semplice mantenimento è la fine del mondo terreste in trenta-cinquant’anni. Non si può andare oltre queste date conservando il sistema del profitto. Non si può abolire il sistema del profitto conservando una società di classe, ovvero il bisogno del potere. Non si può abolire il potere conservando il mondo patriarcale e maschile (D’Eaubonne 1980, p. 98).

Nelle sue opere, La femme avant le patriarcat (1976) ed Écologie-féminisme (1978), un testo poco noto che è stato ripubblicato di recente con introduzione di Serge Latouche3, D’Eaubonne aveva fatto risalire la causa diretta della distruzione della terra al controllo patriarcale della fertilità della terra e della fecondità femminile. Quando (tra il 3.500 e il 2.500 avanti Cristo) l’uomo sottrasse alle donne la produzione agricola, le tecniche conservative e le diversificazioni colturali lasciarono il posto a quelle sempre più intensive; alla zappa si sostituì l’aratro e fu introdotta l’irrigazione. Quando l’uomo scoprì di avere un ruolo nella riproduzione, la natalità iniziò ad aumentare; credendosi l’unico agente della procreazione, non solo un collaboratore, egli considerò la donna e la terra come ricettacoli della sua forza vitale. Da allora il predatorio modo di appropriazione divenne il paradigma dell’economia e di tutte le relazioni di sfruttamento; la donna, “schiava prima della schiavitù”, fu ridotta all’insignificanza e la terra a materia inerte da sfruttare. Nacquero nuove strutture mentali caratterizzate dall’“illimitimisme”, dall’assenza di limiti nella ricerca del potere – sulle donne, sulla natura, su altri gruppi e popoli –, uno sfruttamento estremo basato sulla sete dell’assoluto, un’illusione prometeica che nel suo delirio di appropriazione avrebbe portato all’annientamento della vita. In questa

“corsa verso l’infinito, l’aggressività competitiva è indispensabile […] e la competizione comporta la progressiva intensificazione della violenza e il massacro” (D’Eaubonne 2018, p. 163).

Fin dal suo sorgere, continua la femminista francese, il sistema patriarcale impose una logica intrinsecamente conflittuale e manichea in tutte le forme di pensiero. Questo modo di ragionare consiste nello sviluppare due dimensioni contraddittorie in cui l’una esclude l’altra (ivi, p. 97), un modo di pensare che rende l’eguaglianza e la relazione impensabili.

La concezione del capitalismo come espressione ultima del patriarcato è centrale negli scritti delle ecofemministe di Bielefeld (Werlhof 2007; Mies 2014). In Patriarchy and Acccumulation on a World Scale, un’opera apparsa per la prima volta nel 1986, Maria Mies sosteneva che il cuore della crisi ambientale risiede nella negazione della dipendenza dalla sfera della natura, dal corpo, dal lavoro delle donne e dalla riproduzione, nel falso senso di autonomia maschile sotteso all’antropocentrismo che aveva origini antiche.

La mia tesi è che il capitalismo non può funzionare senza patriarcato, che lo scopo di questo sistema, ovvero il processo di accumulazione infinito non può essere raggiunto senza che siano conservate, o ricreate, le relazioni patriarcali tra uomo e donna, possiamo anche parlare di neo-patriarcato. Il patriarcato rappresenta l’invisibile sostrato del sistema visibile del capitalismo (Mies 2014, p. 38).

La critica delle ecofemministe della scuola di Bielefeld al paradigma della crescita illimitata che distrugge la vita sulla terra ha tratto ispirazione dalla filosofia che ha guidato le lotte delle donne dei paesi del Sud del mondo, dai movimenti di resistenza di vastissima portata da esse promossi per difendere l’economia di sussistenza, riconnettere produzione e consumo, conservare la vita, dare dignità e senso al loro lavoro, acquisire maggiore indipendenza, porre un freno alla violenza.

Prendendo le mosse dai mutamenti nei paesi del Sud del mondo, dal dibattito in seno al movimento femminista sul lavoro di produzione e di riproduzione che si era sviluppato nel decennio precedente e dall’analisi del pensiero di Rosa Luxemburg sulle “economie naturali”, Maria Mies, Veronika Bennoldt Thomsen e Claudia von Werlhof – si sono soffermate sul significato che assumono nell’accumulazione capitalistica le relazioni di lavoro non salariate.

Luxemburg non era femminista, ma la sua analisi è stata cruciale per comprendere perché le donne, come lavoratrici non pagate, le colonie e le risorse naturali devono essere sfruttare per consentire la crescita capitalistica (Mies 2014, p. XVII).

Il lavoro domestico delle donne in Occidente e la produzione di sussistenza nei paesi del Sud del mondo rappresentano la base materiale del processo di valorizzazione e accumulazione. La principale contraddizione nel capitalismo, dunque, non è quella tra il lavoro salariato e il capitale, ma tra il capitale, le varie forme di lavoro e, in definitiva, la vita stessa4.

Si è così andato affermando nel pensiero ecofemminista una nuova prospettiva, la prospettiva della sussistenza, che si può applicare in ogni sfera dell’attività umana e che individua una via di liberazione nella semplicità volontaria, nell’autosufficienza, nella riduzione dei consumi che causano povertà, distruzione dell’ambiente e accrescono le forme più brutali di dominio sulle donne e prefigura un’economia morale basata su principi etici che superi l’attuale divisione sessuale del lavoro. Il distacco dalla sussistenza e dalla riproduzione della vita è il terreno su cui si è sviluppata l’economia capitalistica che propone una nuova trascendenza che uccide la vita oggi e trasferisce le sue false promesse nel futuro. Al contrario, la politica che pone al centro i valori della sussistenza segue l’immanente, i bisogni reali delle persone reali, attribuisce valore a tutti i viventi e alla natura e può prendere avvio solo dal basso. Solo l’abbandono della produzione di merci e la rivitalizzazione dell’economia di sussistenza, che è stata a lungo oppressa e distrutta, potrà impedire che il sistema mondiale capitalistico giunga alle sue ultime conseguenze divenendo un sistema di guerra globale.

Femminismi e decrescita

Nella convinzione che la crescita economica non sia un processo neutrale rispetto al genere numerose femministe negli ultimi anni si sono interrogate sull’incontro possibile tra femminismo e decrescita, ma questo incontro si è rivelato difficile (Bianchi 2015).

Nel 2016, alla quinta Conferenza internazionale della decrescita a Budapest è nata FaDA, Feminisms and Degrowth Alliance, una rete di studiose e attiviste ormai diffusa in molti paesi con lo scopo di includere l’analisi di genere e la riflessione sul rapporto patriarcato-capitalismo nel pensiero della decrescita. Benché il dialogo sia ormai avviato, le argomentazioni femministe ed ecofemministe non sono ancora parte integrante della proposta di decrescita (Saave-Harnack – Dengler – Muraca 2019; Dengler 2021). Alle stesse conclusioni sono giunti gli studi di altre autrici, come quello di di Patricia Ellis Perkins (2017) e di Marisol Bock (2021). La letteratura ecofemminista, ha scritto Perkins, è per lo più ignorata, in particolare quella sul tema della dipendenza del capitalismo dal lavoro non pagato delle donne e dai “servizi ecologici non pagati” (2017). Eppure, le riflessioni ecofemministe sulla storia, l’economia, la scienza e l’ecologia potrebbero essere fonti importanti di ispirazione per l’attivismo e il pensiero della decrescita.

Di fronte all’intensificazione del riarmo, alla moltiplicazione dei conflitti e all’aggravamento della crisi ecologica, una convergenza profonda delle due linee di pensiero appare cruciale.

Solo il riconoscimento dell’interconnessione tra tutti i rapporti di dominio (di genere, di classe, di razza, di età, di specie), solo l’abbandono di un modo di pensare che separa le relazioni di potere tra uomini e donne, tra umani e mondo naturale, tra umani e animali, tra metropoli e colonie, potranno condurre a una strategia di pace inclusiva, coerente ed efficace.


Riferimenti bibliografici

Bianchi Bruna, Ecofemminismo e decrescita. Una convergenza possibile?, “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 27, 2015, pp. 245-258, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n27/26_rir_26-Bianchi-intervento.pdf.

Bock Marisol, Contributions from Feminist and Plural Peace Perspectives to Promote Degrowth – a Dialogic Approach in Times of Multiple Interlocking Crises, phD, Universitat Jaume 2021.

Caloz-Tschopp Marie-Claire, Frontex. Une société capitaliste du mensonge. L’effet bumerang et la révolution d’aujourd’hui. Relire Hannh Arendt, Rosa Luxemburg, Cornelius Castoriadis, Laurent Monnier, Rada Iveković, Anne Amiel…, 28 aprile 2022, https://www.sosf.ch/cms/upload/20220428_MCCT_essai.pdf.

D’Eaubonne Françoise, Écologie et féminisme. Révolution ou mutation? (1978), Éditions Libre et Solidaire, Paris 2018.

– La natura della crisi, “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 48, 2022, pp. 93-98, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n48/12_Eaubonne.pdf

Dengler Corinna, Degrowth, in Günseli Berik – Ebru Kongar (eds.), The Routledge Handbook of Feminist Economics, Routledge, London – New York 2021, pp. 369-377.

Di Benedetto Giovanni, La primavera che viene. Attualità di Rosa Luxemburg, Mimesis, Milano 2021.

Gimbutas Marjia, Le dee viventi (1999),Medusa, Milano 2005.

Goldblum Caroline, Françoise d’Eaubonne & l’écoféminism, Éditions le passager clandestin, Paris 1919.

Luxemburg Rosa, Juniusbrochüre (1915), in Rosa Luxemburg, Scritti scelti, a cura di Luciano AmodioEinaudi, Torino 1976, pp. 463-520.

– L’accumulazione del capitale. Contributi alla spiegazione economica dell’imperialismo (1913), Einaudi, Torino 1968.

– Una Anticritica, in L’accumulazione del capitale, cit., pp. 473-588.

Mies Maria, Patriarchy and Acccumulation on a World Scale. Women in the International Division of Labour (1986), Zed Books, London 2014.

– Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt, PapyRossa, Köln 2005.

Pérez Orozco Amaia, La subversión feminista de la economia. Sobre el conflicto capital-vida, Traficantes de suenos2014.

Perkins Patricia Ellie, Degrowth, Commons and Climate Justice: Ecofeminist Insights and Indigenous Political Traditions, 2017, https://www.nottingham.ac.uk/climateethicseconomics/documents/papers-workshop-4/perkins.pdf

Saave-Harnack Anna – Dengler Corinna – Muraca Barbara, Feminisms and Degrowth. Alliance or Foundational Relation?, “Global Dialogue”, vol. 9, 1, 2019, pp. 29-30, https://globaldialogue.isa-sociology.org/articles/feminisms-and-degrowth-alliance-or-foundational-relation.

Turchetto Maria, Contro la catastrofe – con la testa e con il cuore, Prefazione a Di Benedetto, La primavera che viene, cit.

Werlhof Claudia von, Vom Wirtschaftskrieg zur Kriegswirtschaft. Die Waffen der “Neuen-Welt-Ordnung”, in Maria Mies, Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt, cit., pp. 40-48.

– No Critique of Capitalism Without a Critique of Patriarchy! Why the Left Is No Alternative, “Capitalism, Nature, Socialism”, vol. 18, 1, 2007, pp. 13-27.

Note

1 L’opera a lungo è stata poco letta; dal 1972 al 2012 nessuna ristampa è apparsa in italiano.

2 Si veda anche il volume di Giovanni Di Benedetto, apparso pochi mesi prima dello scoppio del conflitto (2021),

3 Su Françoise d’Eaubonne come anticipatrice della decrescita si veda: Goldblum 2019.

4 Su questo tema si veda il volume dell’ecofemminista spagnola Amaia Pérez Orozco (2014).

da qui

Nessun commento:

Posta un commento