CITATI UNO E BINO - Gabriele Pedullà
Chi ha conosciuto Pietro Citati solo
dalle lunghe articolesse pubblicate negli ultimi trenta o quarant’anni su «La Repubblica» e su «Il Corriere della Sera» fatica a
comprendere l’eco che i suoi pezzi giornalistici erano soliti provocare nella
comunità letteraria italiana tra la fine degli anni Cinquanta l’inizio degli
anni Ottanta. Il Citati maturo è stato un grande cerimoniere della letteratura,
devoto ai classici e impegnato a raccontarli (più che a interpretarli) per un
pubblico di ex-studenti del liceo gentiliano, che quei libri avevano letto e
amato in gioventù o che, alternativamente, si accontentavano di una iniziazione
cordiale a un canone rassicurante di autori di certificata grandezza. Letture
fuori dal tempo di testi fuori dal tempo (in quanto capolavori riconosciuti da
tutti): magari anche quando ciò voleva dire riproporre disinvoltamente al
proprio giornale un testo già pubblicato in altra sede trent’anni prima
(proprio un incidente di questo tipo segnò la fine della collaborazione di
Citati con un grande quotidiano).
C’è stato però un altro Citati, che in
troppi negli ultimi anni hanno dimenticato (o, nel caso dei più giovani, mai
conosciuto), mentre questo secondo Citati fu ai suoi tempi una forza trainante
della letteratura italiana, e la ragione del prestigio che lo ha accompagnato
sempre nella parte successiva della sua vita. Questo Citati, il Citati che
conta (e che merita di essere ricordato come uno dei nostri sette o otto
critici militanti più acuti del secondo Novecento) presenta caratteri persino
opposti a quello che si è affermato dopo: immerso nelle novità, informatissimo,
sempre un passo avanti sugli altri perché interlocutore diretto degli scrittori
italiani che contavano davvero e abituato a leggere in originale gli stranieri
prima che gli editori li traducessero. Una vera potenza intellettuale.
Concretamente, la passione per il
presente di questo giovane allievo della Scuola Normale Superiore dalle ottime
letture e dalla solida cultura classica poteva prendere le strade più diverse,
allo stesso tempo e senza contraddizione. Per un giovane letterato brillante
negli anni del boom economico le opportunità non mancavano, e Citati le seppe
sfruttare tutte al meglio. Lo incontriamo, così, come critico letterario
de «Il Giorno» nel breve periodo in cui il quotidiano di proprietà dell’Eni (sotto
la direzione di Gaetano Baldacci e di Italo Pietra) pubblicava una delle più
vivaci pagine culturali del paese e il mensile «Giorno libri» curato da Paolo Murialdi
(tra gli altri collaboratori c’erano allora Alberto Arbasino, Giorgio
Manganelli, Italo Calvino, Goffredo Parise, Cesare Garboli, Attilio Bertolucci,
Roberto Longhi, Giacomo Debenedetti…) e come consulente editoriale, impegnato
al fianco di Livio Garzanti nella difficile impresa di domare Beppe Fenoglio e
Carlo Emilio Gadda per portarli a consegnare, infine!, i loro libri – libri
che, nello specifico, erano niente meno che il «ciclo di Johnny» e Quer
pasticciaccio brutto de Via Merulana (negli anni, tra le ipotesi di
filologia fantastica, c’è stato persino chi ha ipotizzato che un dattiloscritto
più completo di quest’ultimo possa un giorno riemergere dalle carte di Citati,
con una immaginazione non troppo diversa da quella degli umanisti che sognavano
di veder riapparire interi tutti e centoquarantadue i libri della storia di
Roma composti da Tito Livio).
Con le sue sessanta tessere
accuratamente selezionate, la sua prima raccolta di recensioni – Il the
del cappellaio matto, apparsa nel 1972 e oggi disponibile da Adelphi –
offre un’idea solo parziale della vivacità con cui Citati sapeva dialogare col
proprio tempo, in un momento in cui la letteratura, non solo italiana,
sperimentava un tumultuoso rinnovamento delle forme. Mai tenero con la neo-avanguardia,
anzi tradizionalmente piuttosto cauto nei confronti di ogni sperimentalismo
letterario troppo spinto (a eccezione di Giorgio Manganelli, con il quale
condivideva un interesse speciale per la teologia), il Citati di questi anni
appare tuttavia lo stesso straordinariamente ricettivo delle novità e subito a
suo agio con le ultime proposte, soprattutto straniere, dando prova di
un’apertura sul mondo tutt’altro che scontata per le nostre Lettere (ma tanto
più allora). Rilette oggi, quelle pagine appaiono anzitutto uno straordinario
sismografo del decennio, ma sono sicuramente qualcosa di più: e Italo Calvino,
recensendo il volume, propose un impegnativo paragone con Vite
immaginarie di Marcel Schwob che senza dubbio deve aver contato non
poco nella successiva evoluzione di Citati, da quel momento sempre più
rifacitore dei libri altrui che critico-scrittore (cioè un saggista dalla penna
affilatissima), come era stato invece in precedenza.
Una volta Citati ha scritto che, delle
biografie degli autori a lui più cari, lo interessavano soprattutto i primi
anni, quando erano degli «uomini qualunque» e il demone della letteratura non
si era ancora impossessato di loro: prima insomma della metamorfosi decisiva.
Non è escluso, così, che Citati racconterebbe anche la propria storia come
quella di uno di questi «uomini qualunque» – un comunissimo critico
letterario, come altri erano stati un dandy, o un impiegato, o un militare –
che un giorno comprese che voleva e poteva essere anche qualcos’altro: un
autore in proprio. Questo passo però richiedeva un sacrificio. È l’antica
storia della crisalide e della farfalla: affinché nascesse lo scrittore era
indispensabile che, almeno in parte, morisse il critico. E in nome di questo
sogno Citati accettò allora di pagare il prezzo massimo.
Gusto sicuro, prospettiva
internazionale, rapidità di giudizio, presa sul presente, prosa di una eleganza
sobria: questo era il giovane Citati. Quando è avvenuta allora, con esattezza,
la trasfigurazione? Sicuramente una seconda voce, molto diversa, si avverte
dall’inizio nelle empatiche biografie letterarie che nel corso degli anni gli
hanno dato ampia notorietà in Francia, Spagna e Portogallo (senza che invece
sfondasse mai in Germania e nel mondo anglofono, dove fiorisce una potente tradizione
di biografie autoctona e i suoi libri devono essere apparsi meno originali o
semplicemente meno necessari): su Johann Wolfgang Goethe (1970), Katherine
Mansfield (1980), Alessandro Manzoni (1980), Lev Tolstoj (1983), Franz Kafka
(1987), Marcel Proust (1995), Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda
(2006), Giacomo Leopardi (2010) e Fyodor Dostoevskij (2021), più diverse
incursioni nel mito e alcune letture di altri super-super-classici della
letteratura occidentale, dall’Odissea (2002) al Don Chisciotte (2013).
È con gli anni Ottanta, tuttavia, in un nuovo clima intellettuale e politico,
che la svolta di Citati si manifesta con la massima chiarezza (molti dicono
proprio con il libro sulla Mansfield). Travolta dalla fine della sbronza
semiotico-strutturalista, la critica come corpo a corpo con il testo aveva
cominciato a perdere prestigio; per raggiungere un pubblico in fuga, era adesso
necessario attrarlo in altri modi, e narrare le vite degli scrittori anche a
costo di infrangere il perentorio divieto del Contre Sainte-Beuve di
Proust era uno di questi. Un tardo esperimento con il romanzo alla soglia dei
sessant’anni, Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (1989),
nel quale Citati racconta una vicenda familiare riguardante i suoi bisnonni, non
ebbe invece successo e rimase senza seguito.
Come si vede anche solo da questo elenco
sintetico, il Citati della maturità è stato impacciato da una sorta di
gigantismo, già evidente nella scelta di dialogare da pari a pari con quasi
tutti i massimi autori di un ideale lungo Ottocento (il suo secolo preferito),
ma manifestatosi soprattutto in una crescente tendenza all’enfasi: quasi che –
secondo la vecchia teoria degli stili – per parlare di autori così sommi
bisognasse per forza dotarsi di un linguaggio sublime. Il principale rischio di
questa retorica dell’eccesso è naturalmente il kitsch, che si annuncia
minaccioso già nei titoli di molte delle raccolte più tarde (La luce della
notte, La malattia dell’infinito, Il Male assoluto, Il
silenzio e l’abisso…), e fa rimpiangere la maggiore sobrietà degli inizi.
Anche questo è un tratto costitutivo della cultura degli anni Ottanta, in
quella che molti hanno descritto come una pura e semplice resa degli
intellettuali alla nuova industria culturale emersa più forte di prima dalla
contestazione del decennio precedente. Come tanti altri, Citati ha seguito il
flusso: e forse non si sbaglierebbe troppo a dire che in parte il suo successo
con il grande pubblico è dipeso anche da questa scelta.
Nel corso degli anni pure certe
dissonanze e stonature tipicamente moderne si sono fatte sempre più rare. Da
cristiano (come confessò di essere una volta in una intervista), Citati è
sempre stato affascinato dall’opposto della fede (l’ombra, la negazione, il
dubbio…), con accenti che talvolta possono ricordare addirittura Georges
Bataille, ma in chiave assai più conciliata e meno radicale, quasi
addomesticata, in definitiva consolatoria. Si comprende dunque perché c’è stato
un tempo in cui, giocando sulla somiglianza tra i loro due cognomi, si potesse
dire scherzando che in Italia chi si occupava di letteratura parteggiava o per
Citati o per Celati – vale a dire, o per la grande tradizione del passato, o
per la nuova letteratura, che, introiettati gli scossoni degli anni Sessanta,
allora procedeva autonomamente per la propria strada. Gli stessi scossoni che,
per ironia della sorte, al loro prima manifestarsi proprio Citati aveva saputo
illustrare così bene ai suoi lettori.
La vita non è stata avara di riconoscimenti
con Citati: tantissime traduzioni, un Premio Strega (per la biografia di
Tolstoj), la direzione della «Fondazione Valla», il titolo di
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana,
un «Meridiano» nel quale lo stesso critico ha selezionato il meglio dei suoi saggi e
le sue monografie predilette (quelle sull’Odissea, su Kafka e su
Proust), in modo da attraversare nelle sue varie fasi l’intera civiltà
letteraria dell’Occidente: forse in competizione con The Western Canon di
Harold Bloom (un altro grande critico non esattamente noto per sobrietà e
modestia). Per chi l’ha tentata, l’immersione in quelle quasi duemila pagine («da Omero a Nabokov», come recita il
sottotitolo) ha però qualcosa di sconcertante. Lungo quasi tre millenni autori
delle culture più disparate si esprimono in lingue e attraverso generi
letterari diversissimi: eppure, per come Citati li presenta nella sua
auto-antologia si ha l’impressione che ripetano tutti le stesse elementari
verità sull’esistenza (un difetto che la La civiltà letteraria europea,
come il volume è intitolato, condivide probabilmente con la summa del
teoreticamente più agguerrito Bloom, anche se in quest’ultimo sono il conflitto
tra personalità creative e l’angoscia dell’influenza verso i propri
predecessori a fornire il filo conduttore del racconto). Nei casi più estremi
viene da pensare che intere pagine particolarmente virtuosistiche potrebbero
essere riferite pari pari a un autore diverso da quello del quale Citati parla.
Non bisogna appartenere alla Compagnia
di Gesù per sapere che uno dei primi imperativi della buona critica letteraria
è distingue frequenter. In queste pagine, invece, ogni asperità dei
testi viene massaggiata fino a quando non scompaiano tutte le differenze.
Ricordando l’ammirazione di Citati per Jorge Luis Borges (e per il saggista,
non meno che per il narratore), si potrebbe descrivere questo viaggio da fermo
nella letteratura occidentale come una sorta di appendice alla Nuova confutazione del
tempo dell’argentino. O forse conviene richiamarsi a un altro autore a lui
specialmente caro, Ferdinando Pessoa, notando come, da un certo momento in poi,
Citati ha cominciato a trattare i massimi autori della tradizione occidentale
non come un oggetto di piacere estetico, ammirazione e studio, ma come
altrettanti eteronimi. Ne ha fatto, insomma, i tasselli del proprio
autoritratto intellettuale: in una programmatica simbiosi con i biografati che
rivendica per il critico il diritto di prescindere da qualsiasi verifica sui
testi.
Per chi, negli anni, si è imbattuto
casualmente negli scritti giovanili di Citati e li ha letti con stupore e
ammirazione, la selezione de La civiltà letteraria europea reca
però anzitutto un insegnamento: di rado gli autori sono in grado di giudicare veramente
il senso della propria opera e dare il giusto valore ai mille tasselli dai
quali essa ha preso forma nel tempo. Il migliore Citati rimane così non solo
raccolto nelle prime raccolte di articoli, ma resta ancora da recuperare in
emeroteca tra i tanti quotidiani, riviste e rivistine ai quali collaborò nei
primi trent’anni della sua carriera (anche scrivendo in francese, per esempio
sul «Journal de Géneve», con articoli su Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Vitaliano Brancati e
altri). Ma questa è, a suo modo, una buona notizia: si tratta di attendere
soltanto che abbia inizio il lavoro di scavo che sempre, in casi come questo,
si mette in moto alla morte di una grande figura intellettuale, come Citati
indubbiamente è stato. E le belle sorprese, c’è da giurarci, non mancheranno.
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