Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per
l’agenzia Agi correlati alla
corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di
contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali
con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua
estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con
potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si
estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi
mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato
e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti.
Lo Scudo Nato a Sud
La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare
verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel
passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta
dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della
crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua
missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte
della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione
“Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non
dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni
esempi.
Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza
a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa
collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la
gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel.
Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno –
rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale
politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato
verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare
un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto
abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a
guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.
Necessari nuovi approcci alle crisi
nelle marcoaree
La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno
necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il
consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in
questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si
affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi,
la forte presenza della Russia in quell’area.
Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere
camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia
russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora,
di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal
Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel
rompicapo.
Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche
ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in
Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal
ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo
spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile
intervento della Nato in Mali.
Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo
convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro
queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente
legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora
pagando».
Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni
del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a
incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano».
L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che
la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un
qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione
dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a
questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle
missioni militari francesi ed europee nell’area.
Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto
francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum,
la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova
strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò
che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in
partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un
esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della
sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la
Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.
Ma il problema su tutti è quello di
avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi
Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno
interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche
“sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a
“scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma,
un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona
parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre
penetrante.
È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente
la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole
essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella
francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della
Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di
spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi
migratori.
Parigi vs Mosca in Françafrique
In Niger per rendere meno urticante la
presenza francese in Sahel
La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal
Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua
presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità
occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una
presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica,
anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e
alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto
aggressiva.
Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende
intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali.
Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono
frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le
capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una
maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.
Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista”
ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che
finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche
africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica.
L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i
francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree.
Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del
quartier generale, Hervé Pierre:
«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che
decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le
operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad
agire efficacemente al loro fianco».
L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare
con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare
dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono
“ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto
complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende
più la politica postcoloniale della Francia.
Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo
Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta
Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la
Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per
quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano
dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane
perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche
qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva,
hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di
diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua
presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un
momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di
influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di
disinformazione antifrancesi.
Le mosse Wagner
L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social
network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in
Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a
strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in
Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e
si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una
penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno
cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il
crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non
hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello
militare e degli armamenti sì.
«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul
fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni.
È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni
umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di
disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a
Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha
deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e
mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.),
depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando
dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione
migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo
e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche
verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a
controlli incrociati».
Approccio militare o cooperazione: il
dilemma dell’Eliseo
La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza
ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è
se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e,
soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione
Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece,
dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della
cooperazione allo sviluppo, sia vincente.
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