La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce
a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di
scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o
sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di
Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di
fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in
alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi,
quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli
incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi
proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella
regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa
anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di
incrementare la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe
segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi
hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.
Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da
Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica
potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.
Fin qui la
presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno
Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la
pena?»
«Was it worth it?»
È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la
visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti
di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno
contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita
Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del
mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in
corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento
di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della
Terra.
«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»
È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un
collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti
americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata
autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno
dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua
presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di
battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire
Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci
dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in
questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su
posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva
altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di
petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il
controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che
riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera, e l’unica industria
che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che
Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è
il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.
Visita elettorale a Tel Aviv
Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati». Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.
«The only way to stop them is to put a credible military threat on the
table»
È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden
dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa
antiraniano.
Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è
accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare
di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce
che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e
militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese
armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato
da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso
chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che
Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su
una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un
pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».
Armi di distruzione di etnie: curdi
palestinesi saharawi
Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende
know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se
fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per
distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri
alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di
capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza
dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in
Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a
lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa
regione.
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