Il sentiero clandestino è costellato di indumenti. Memorie infangate di infiniti passaggi. Al Refuge Solidaire di Briançon, casolare gestito da varie associazioni solidali col sostegno del Comune, un centinaio di persone brancolano, giocano, discutono all’aperto. Un foglio plastificato mette in guardia sul rischio dei passeur. Jamal è nato ad Annaba nel 1978, ha vissuto una decina d’anni a La Spezia e condivide in pillole, frettolosamente, la tratta da lui battuta per raggiungere Porto Pino. “Le prime barche per la Sardegna partirono alla fine del 2006 e poi fu un continuo crescere, arginato soltanto nel 2009 con l’aumento dei pattugliamenti della Guardia Costiera algerina. Spesso non c’erano intermediari. Pensavano a tutto i ragazzi del quartiere in cui abitavo. L’equipaggio si divideva le spese e via. Mille euro la barca. Mille euro il motore. Il carburante, i giubbotti di salvataggio, le provviste, poco altro. Su una barca salivano da dieci a quindici passeggeri, non di più. Nel mio caso abbiamo seguito col GPS le tracce dei mercantili”. Nei margini della riunione pomeridiana organizzata dal movimento Tous Migrants, un uomo cieco tiene per mano il figlio sordomuto. “Da dove provengono?” domando a un’anziana volontaria, mentre scarica sacchi di patate. “Italie” ribatte corrucciata. Oltrepassare una montagna buia e ostile senza torce né ripari, arrabattando olfatto, udito e vista per raggiungere un lembo di terra più clemente.
Ieri, 16 maggio, in località La Vachette, in Val Des Prés, si è tenuta una veglia
in ricordo di Blessing, morta nelle acque della Durance che scorre proprio sotto al ponte romano,
arricchito di candele, canti, pensieri. Il giorno seguente l’ennesima
scritta ignota appare sul muro che delimita la strada per Oulx: la
frontiera uccide, ciao Blessing. Luca, quarant’anni, approda
puntuale al bar Obelix di Bardonecchia, ordinando una birra e
un succo alla pera. “Il Rifugio I Re Magi (che gestisco da anni
assieme a mio padre) si trova in Valle Stretta, nel Briançonnais,
splendida valle situata in area protetta che conserva un fascino unico nel suo
genere. I valichi attorno sono impraticabili in inverno. Molti migranti
si sono sbagliati per tutta la stagione: seguendo il sentiero battuto dal gatto
delle nevi sono finiti in Valle Stretta. Li vedevamo e li vediamo
quotidianamente qui in città; partono all’imbrunire, infagottati, a grappoli o
in solitaria. Su, al rifugio, ne passavano giornalmente dieci come minimo,
cinquanta al massimo. Abbiamo aiutato molti di loro con coperte, acqua,
cibo, convincendoli ogni tanto a tornare indietro. Senza adeguata attrezzatura,
queste montagne non perdonano. Nei punti più compatti la neve raggiunge circa
due metri d’altezza e le temperature si aggirano intorno a -10 gradi, toccando
anche picchi di -18. Solitamente li accompagniamo in macchina fino al bivio per
Bardonecchia. Non abbiamo mai accompagnato i ragazzi in Francia, anche
perché la gendarmeria ci ha intimato più volte di non aiutarli; controllano i
bagagliai delle vetture senza chiedere nemmeno i documenti ai conducenti: una
vera caccia
all’uomo. Ma la solidarietà non è un crimine, e così
abbiamo fatto sempre il nostro, ad esempio regalando torce ai migranti in modo
che si orientino un minimo. Domenica riapriranno ufficialmente la via
transalpina. Sono certo che a breve torneranno in quota, non hanno paura di nulla, è
impossibile fermarli”. Un giorno, quando Luca stava finendo di pulire piatti e
bicchieri, due ragazzi camerunensi l’hanno chiamato sul cellulare. Si
erano persi, percorrendo in cerchio
due chilometri nell’arco di ventiquattro ore. “Di aneddoti ne ricordo molti.
Nel novembre 2017, ad esempio, ho riportato due adolescenti in stazione a Bardonecchia che all’epoca era
ancora tenuta aperta nelle ore notturne. Se qualche ragazzo si fosse
addentrato nei valichi a 2500 metri, sarebbe morto. La neve si sta
sciogliendo, spero che non ci siano stati morti negli ultimi
mesi”. “Che cosa ti spinge a dare una mano nonostante il rischio di incappare
nella gendarmeria francese?” chiedo a Luca, salendo sulla sua automobile che ci
condurrà fino alle porte di Bussoleno. “Gestisco un rifugio
di montagna e come tale aiutiamo i viandanti per buonsenso. Se dessimo
retta alle leggi, avremmo solo rimorsi. In dicembre, ricordo, un ragazzo a
rischio ipotermia ha frantumato una vetrata del rifugio e si è accampato
all’interno per scaldarsi. Aveva scarpe da ginnastica ai piedi. L’allarme
mi ha svegliato, sono accorso e ho trovato questo ragazzo, un giovanissimo
eritreo mezzo congelato. Ho chiamato il 118… È stato un mese e mezzo in
ospedale per accertamenti e cure. I tutori del minore mi hanno poi chiamato per
ringraziarmi di avergli salvato la vita”.
Inseguo vecchie mulattiere, laddove crescevano un tempo fitte vigne. Il corteo No Tav avanza e si diffonde, occupando la
statale. Un torrente variopinto fatto di bandiere, slogan, qualche intervento
istituzionale e non. Affretto il passo e raggiungo Tiémoko, una figura
slanciata con dread lunghi legati a mo’ di turbante. “Sono
sbarcato a Siracusa, – racconta, perdendo
lo sguardo fuori dal mio campo visivo – ho vissuto per un po’ nel ghetto di Rosarno prima che andasse
a fuoco, poi a Grosseto. Ho chiesto di lavorare, fare qualcosa, ma né il
tribunale né la cooperativa in cui ero ospitato mi hanno dato chance. È
inutile che a Bardonecchia ci dicano di non andare in Francia, io ci riproverò.
Appena le mie condizioni miglioreranno, mi nasconderò e andrò. A Torino tanti amici sono
caduti nelle grinfie dei passeur, circa l’80 percento, credimi. Sono partito per
guadagnare qualcosa e portarlo alla mia famiglia pensando che l’Europa fosse il
paradiso, ma non è così. Gli amici, online, dicono che in Francia, Germania, Belgio
c’è posto, poi arrivi e capisci
di dover dormire per strada, nelle fabbriche abbandonate, racimolando soldi
come puoi, vergognandoti. La Francia in Mali detiene tutto il
commercio, guadagnando fitto sulla manodopera locale a bassissimo costo. La mia
terra è bella, ma non puoi resistere a lungo”. Tiémoko indossa una maglietta nera con
su scritto you must be strong to survive e conferma, forse
involontariamente, le parole da lui emesse.
Verso della zuppa di carote a Mahmoud, un ragazzino che non conosce nessuno
e che con nessuno comunica. Imbavagliato dalla sua stessa kefiah giallo
zafferanno, si guarda attorno con aria stranita. È un lentissimo centellinare
la chiacchierata: “Non ero convinto di venire
in Europa, macinare chilometri, legarmi sotto a un Tir… In Afghanistan, dopotutto, c’era
ancora la casa di mio padre, i terreni da coltivare… Ma le violenze dei
talebani erano giornaliere. Siamo scappati da Mirzaki, al confine col
Tagikistan. La mia famiglia è ferma ad Ankara dal 2015. Quello stesso
anno ho percorso la rotta
balcanica e da tre anni circa vivevo in Austria, dove avevo ripreso gli studi
di ingegneria. Qualcosa coi documenti deve essere andato storto. Spero di
risolvere presto questi pasticci e tornarmene di corsa a Salisburgo. A confronto
della rotta balcanica, qui puoi trovare molti migranti in panne per colpa
esclusivamente della burocrazia o di autorizzazioni fittizie. Come Touré,
operaio dell’IKEA a Colonia, bloccato per via del permesso di soggiorno
scaduto.” Senza Stati né confini, non ci sono clandestini. Chiedo a
Mahmoud di raccontarmi le dinamiche del viaggio intrapreso. “Le modalità del
pagamento erano queste: lungo il percorso non dovevamo dare i soldi a nessun
altro, perché prendeva tutto il contrabbandiere contattato a Teheran. Lui avrebbe pagato gli
altri suoi collaboratori che ci avrebbero aiutato nei vari posti. Sapevamo
che lungo la tratta c’era la possibilità di incappare dentro la rete di un enorme traffico internazionale di
organi… Non ci crederai, ma ci sono organizzazioni che si procurano reni da
trapiantare agli occidentali ricchi… C’è un’enorme richiesta e molti pagano
cifre esorbitanti per procurarsene uno. I contrabbandieri sono gli
unici intermediari e anche i beni di
prima necessità come cibo o acqua vengono distribuiti da mediatori che sono
all’interno di maglie illegali. La rotta terrestre dall’Afghanistan
attraverso l’Iran e la Turchia è tradizionalmente usata anche per il contrabbando
di oppiacei verso l’Europa. Le opzioni per superare il confine sono
due. La prima, la meno quotata, è quella di avere un passaporto afgano e un
visto iraniano valido. – indica intanto una serie di puntini rossi ordinati:
Peshawar, Quetta, Taftan-Mirjaveh,
Teheran, Istanbul – La seconda è
quella invece di raggiungere l’Iran attraverso il Pakistan”. Dal Medio Oriente
all’Europa, i poliziotti di frontiera sorvegliano
diligentemente il confine, perquisendo le automobili di passaggio. La libertà
di movimento qui, è concessa unicamente alle palline da golf, che, prese a
mazzate volano da un campo Lavazza all’altro,
adiacenti al presidio PAF. Babakar, quindici
anni, guarda incredulo la noce bianca, poi i gendarmi e infine il sotto chiesa.
“Pas possible” dice, scuotendo energicamente la testa. “Ti aspetta
qualcuno a Parigi?” butto là. “Mi aspetta me stesso” conclude lui
indurito.
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