Non si può insegnare bene se non si continua a ricercare tutta la vita. Ogni classe, ogni singolo studente o studentessa è diverso e, come suggeriva Paulo Freire, chi insegna non può limitarsi a proporre la conoscenza che ritiene di possedere in una forma statica, definitiva, ma deve rendersi disponibile a reimparare, a riscoprire, a ristudiare l’oggetto in un’indagine comune che coinvolga attivamente chi apprende.
Fare tutto ciò non è facile. Richiede impegno, costanza, sensibilità e
coraggio. Ciò che può aiutare questo processo sta nell’attivare gruppi
di ricerca all’interno di ciascuna scuola e creare un contesto favorevole alla
ricerca, come sanno bene le dirigenti e i dirigenti scolastici che mettono
al primo posto della loro funzione la qualità della didattica, cercando di non
annegare nella burocrazia.
Un primo necessario luogo di formazione dovrebbe prevedere ad esempio,
negli Istituti comprensivi, ore di programmazione settimanali nella scuola
dell’infanzia e nella scuola superiore di primo grado, come ci sono nella
scuola primaria. Luoghi in cui ci si confronta tra insegnanti con la capacità di
renderli effettivamente momenti di riflessione attenta alle peculiarità delle
diverse classi e dei diversi allievi, giovandosi delle sensibilità e competenze
presenti nel gruppo dei docenti che vi opera.
Una formazione efficace nella scuola, infatti, si deve necessariamente
nutrire del confronto – talvolta difficile – tra colleghe e colleghi. È un
processo, questo, assai complesso che necessita di essere
pensato con ponderazione e attenzione, e che deve essere accompagnato da
diverse misure. La prima riguarda il riconoscimento del lavoro di progettazione
anche a livello salariale, perché a una categoria tra le peggio pagate in
Europa, a cui non si è stati capaci di rinnovare un contratto scaduto da anni,
proporre di impegnarsi a 9 anni di corsi per partecipare a un terno al lotto
per rientrare, forse, nel 2031 in quell’un per cento premiato, è davvero
risibile se non fosse offensivo.
La prima bestialità presente nella proposta surreale del pescare un solo
insegnante per scuola e aumentargli di circa 300 euro il salario fra 9 anni
perché qualcuno lo ha riconosciuto come “docente esperto”, sta nel fatto che il
lungo percorso che dovrebbe intraprendere per arrivare a tale traguardo si
presenta come un percorso individuale che poco si intreccia con ciò che nella
scuola accadrà nel frattempo.
Questa incredibile trovata, inserita impropriamente in un decreto che si
occupa di aiuti urgenti, fa seguito a un’altra scelta assai criticabile: quella
di rendere la formazione in servizio per tutte e tutti i 650.000 docenti,
obbligatoria solo sul terreno del digitale, visto come priorità assoluta.
Le lunghe stagioni della didattica a distanza hanno dimostrato che le e gli
insegnanti che hanno reagito con più efficacia e sensibilità non sono stati
coloro che erano maggiormente attrezzati sul terreno tecnologico, ma coloro che
avevano alle spalle pratiche di educazione attiva e didattiche capaci di
mobilitare risorse, curiosità e tensioni di studentesse e studenti. Coloro che
sono stati in grado di affrontare di petto sul terreno culturale lo
spiazzamento e la vertigine provocata da una totale alterazione di spazi e
ritmi quotidiani, le cui conseguenze di lungo periodo sono davanti ai nostri
occhi nella straordinaria sofferenza che coinvolge ragazze, ragazi e
adolescenti.
Riguardo a chi dovrebbe gestire una pratica così ampia e complessa come la
formazione permanente dei docenti c’è una considerazione che credo sia
importante fare. Dal 1974 al 2007 sono esistiti in Italia gli IRRSAE,
Istituti regionali di ricerca educativa nati per sostenere processi di
aggiornamento, ricerca e formazione. Dove hanno ben funzionato, sono stati
luoghi capaci di scovare le sperimentazioni e ricerche più interessanti portate
avanti sul campo, nelle scuole, dando loro respiro e diffusione. Alcune e
alcuni insegnanti che avevano promosse pratiche didattiche efficaci e
innovative sono stati chiamati per alcuni anni a formare colleghe e colleghi,
diffondendo buone pratiche.
Sono profondamente convinto che la scuola si debba e si possa autoriformare
agendo soprattutto dal basso, partendo e sapendo dare valore a ciò che già si
fa. Che compito del Ministero sia soprattutto quello di riconoscere e aiutare
a diffondere ciò che di meglio si sperimenta, sostenendo processi che debbono
necessariamente essere accompagnati a livello locale, provinciale o regionale.
La relazione tra il “fare scuola” tutti i giorni in classe, affrontando
difficoltà spesso crescenti, e il “fare la scuola”, immaginando e progettando
spazi, tempi, stimoli culturali, modalità di formazione e collegamenti con
l’esterno capaci di dare respiro all’opera educativa in un determinato
territorio è un tema aperto, che va affrontato con profondità e lungimiranza.
Noi adulti abbiamo la grande responsabilità di offrire a ragazze e
ragazzi una scuola capace di dare respiro e risvegliare in loro il senso
dell’aprirsi al mondo e dello studiare, la bellezza del conoscere e del
ricercare. E non è facile essere credibili ai loro occhi in questi
tempi.
Dalla loro capacità di ricercare e mettersi in gioco positivamente dipende
infatti la qualità del futuro di una generazione a cui – non dimentichiamolo
mai – stiamo consegnando un mondo assai più fragile e squilibrato di quello che
abbiamo trovato.
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