mercoledì 3 agosto 2022

Affrontare l’ignoto - Gian Andrea Franchi

 

Nel testo pubblicato su Comune intitolato La politica come possibilità di fare esperienza, avevo considerato l’immaginazione come il cuore di questa essenziale possibilità. Tuttavia, quel complesso emotivo-rappresentativo che chiamiamo “immaginazione” comporta il rischio che Simone Weil indica nei suoi Cahiers con la nozione di “imagination combleuse”: l’immaginazione colma il vuoto con raffigurazioni che servono soltanto a calmare l’angoscia. Simone Weil ritiene di poter sfuggire a questo rischio mediante l’assoluta trascendenza della “grazia”:

Il pensiero della morte esige un contrappeso, e questo contrappeso – a parte la grazia – non può essere che una menzogna (Simone Weil, Quaderni, II, Adelphi, p. 59).

Per chi non può accogliere questa impostazione, considerando anch’essa frutto di un’imagination combleuse spinta al limite, non rimane che l’accettazione del rischio nella continua ricerca del senso della propria esistenza nel contesto dell’esistenza degli altri: è quello che possiamo chiamare politica.

Da questo rischio si può tentare di sfuggire – mai del tutto – partendo dai bisogni vitali del corpo. Nel mio caso (analogo a quello di tante e tanti altri), l’incontro con corpi migranti. Più precisamente: corpi di profughi. L’incontro politico col corpo può riguardare, ovviamente, molte altre situazioni: è nella storia delle rivolte popolari, della lotta di classe, partire dai bisogni vitali del subalterno, dell’oppresso, dello sfruttato. Insiste, però, inesauribile, la domanda: come possiamo distinguere un’immaginazione politica costruttiva o creativa dall’imagination combleuse?

L’azione politica

L’attività politica, a differenza dell’attività umanitaria che si limita ad alleviare la sofferenza e quindi a renderla sopportabile, deve inserire l’inevitabile, umanissima, ricerca di senso nel contesto dinamico di una situazione concreta – quella nella quale ci si trova a vivere e quindi ad agire –, dotata però di conseguenze potenzialmente valide per tutti, non solo per i soggetti di un’area particolare di sofferenza: è questo che distingue l’azione politica come tale.

Le trasformazioni sociali, nate con un’intenzione liberatoria e costruttiva di forme di vita migliori, quando avvengono, possono produrre effetti che durano per un periodo o una fase storica, più o meno lunga; possono essere aleatorie o anche contraddittorie: l’effetto futuro di azioni ha sempre un amplissimo margine d’imprevedibilità.

Il dominio sugli altri

La previsione di effetti futuri si è rivelata spesso puramente immaginaria, nella valenza combleuse della parola. Prevale allora in chi opera il bisogno soggettivo di senso, (quale dato antropologico) che può sposarsi perfettamente con il potere. Avere potere su altri, infatti, è un modo fondamentale per dare valore alla propria esistenza. Qui si apre una questione essenziale: l’importanza della relazione di potere a livello storico-politico, ma anche a livello di relazione personali.

Una delle ragioni fondamentali per cui la relazione di potere è capillarmente diffusa e così desiderabile sta proprio nel fatto che esercitare potere su altri esseri umani dà senso. Ne è anzi il modo più diffuso.

Nascita e morte

La vita, che nella nostra cultura occidentale ci rappresentiamo con le pratiche e il linguaggio delle discipline biologiche, mostra due aspetti essenziali che si richiamano fra loro: la nascita e la morte.

Il concetto di “nascita”, nel significato di apparizione al mondo di una nuova forma di vita, si può estendere anche al rapporto con l’altro: ogni incontro, ogni relazione può diventare una piccola rinascita. D’altro canto, ogni rapporto all’altro può ridursi a rapporto di potere, ma nel fondo di ogni rapporto di potere brilla la luce nera della possibilità di uccidere l’altro, nel senso di dominarlo, controllarlo. Nei rapporti “normali”, quotidiani, anche e soprattutto a livello psicologico, ciò avviene in innumerevoli modi, semplicemente superandolo in qualcosa, umiliandolo, mostrando una qualche superiorità. Ogni rapporto da superiore a inferiore, in qualsiasi situazione, implica un rimando, per quanto indiretto e sommesso, alla mortalità: una messa in discussione della capacità di esistere. Sulla relazione di potere, di comando, di dominio, per quanto minimo, aleggia sempre il soffio di una piccola morte: ogni subalternità è una piccola morte.

La vita ha dunque, ontologicamente, queste due fondamentali possibilità di relazione che a livello umano si complicano portando alle complesse formazioni storiche. Prima di tutto: perché la vita, soprattutto la vita umana, prosegua, ci vuole un minimo di accudimento per chi nasce, un minimo di amore. La famiglia patriarcale è stata l’ambito in cui il potere ha cercato di governare il quantum d’amore necessario per raggiungere un minimo di energia vitale. La storia umana è stata dominata dal tentativo di trovare questo minimo di equilibrio fra il quantum d’amore necessario per non produrre esseri umani mostruosi o folli o incapaci di sopravvivere e i sistemi di potere: dalla famiglia allo Stato.

L’economia di mercato

Ai nostri tempi, sembra che questo fragilissimo equilibrio stia cedendo a livello complessivo, sotto i colpi di una civiltà nata in Europa e divenuta mondiale, in una fase in cui i rapporti di potere nella forma chiamata “economia di mercato”, hanno bucato il livello della storia umana, coinvolgendo e mettendo in pericolo il delicato tessuto della vita intera. Per dirla in maniera sintetica, sembra che l’equilibrio complessivo tra vita e morte si stia alterandoL’economia di mercato parte dai bisogni primari della vita, cui la parola allude, ma li amplia a dismisura, costruendo su di essi un universo di potere, facendo dell’essere umano, o più precisamente di una parte di umani, dei predatori dall’appetito illimitato, che stanno divorando l’insieme della vita.

Ritornando alla problematica dell’immaginazione, è impossibile uscire da una situazione di incertezza e imprevedibilità, più o meno forte a seconda delle situazioni, legata ai limiti intrinseci della condizione umana. È il rischio della qualità trasformativa dell’impegno politico, che va sempre oltre e a latere rispetto all’immaginabile, al prevedibile e al progettabile. A certe dimensioni, può avere anche effetti catastrofici, individuali e collettivi, molto diversi e persino opposti a quelli previsti.

Nell’ambito dell’esperienza di chi scrive, quello che possiamo fare, tuttavia, per non cadere pienamente nella soggettività della ricerca di senso, è praticare il difficile equilibrio nella dinamica fra sé e gli altri, fra il proprio impegno e la situazione, sempre complessa e mai completamente rappresentabileCercare quindi un equilibrio nel rapporto fra la propria singolarità, gli altri e il contesto della situazione in cui ci si trova ad agire – nella consapevolezza che non potrà essere mai risolto -, è compito essenziale di chi si impegna politicamente.

Accettare l’incertezza, mettersi in discussione

Dobbiamo essere consapevoli, però, che, su questo aspetto fondamentale, dalla tradizione “rivoluzionaria” abbiamo ricevuto assai più problemi che soluzioni. Bisogna tenersi sempre stretti alla consapevolezza che le situazioni in cui ci troviamo a operare non sono mai del tutto oggettivabili in rappresentazioni. Spesso l’urgenza di sicurezza rappresentativa chiude l’insieme della situazione e l’aspettativa del futuro in rappresentazioni, individuali e collettive che nascono dalla proiezione del passato sul futuro proprio per l’urgenza e l’ansia di superare il passato. Chi ha vissuto esistenzialmente e politicamente il decennio 1965-’75 lo sa (o dovrebbe saperlo). Agire politicamente, in termini alternativi all’invasiva cultura dominante, al capitalismo, significa tradizionalmente capacità di costruire un progetto alternativo per modificare lo stato di cose presente. È necessario constatare, però, che tutti i progetti di cambiamento radicale, “rivoluzionario”, sono falliti nel lungo termine, anche quando parevano vincitori nel breve, perché non erano sufficientemente radicali: non avevano gli strumenti culturali per affrontare creativamente l’ignoto.

Così è accaduto, esemplarmente, con l’impostazione lenininista: in quanto alternativa reale al capitalismo, si è suicidata a Kronstadt. Questi progetti, infatti, erano ancora legati a schemi di quel passato da cui si voleva uscire, come il dispositivo statuale, modello implicito ed esplicito del concetto di partito.

Questo punto apre una questione, che possiamo chiamare ontologica: noi operiamo sempre con rappresentazioni che ci vengono dal passato. C’è una sorta di dialettica fra il pieno del passato e il vuoto del futuro che destabilizza il presente, in cui il passato tende a mangiarsi il futuro. La mancanza di rappresentazioni, infatti – il vuoto -, terrorizza. Bisogna, invece, imparare ad accettare l’incertezza, il vuoto, il dubbio… Oggi, quando ci affacciamo tutti su un futuro imprevedibile, questo atteggiamento è assolutamente necessario: una forte capacità esistenzial-intellettuale di mettersi in discussione, continuando ad agire. Non trovo nulla di meglio per esprimerlo in sintesi che l’ossimoro michelstaedteriano “disperata speranza”.

Autogestione

Per quel che riguarda una questione fondamentale, dovremmo aver imparato che con il potere non si supera la dimensione del potere: si sostituisce un potere con un altro.

Dovremmo aver imparato che, anche se ci sono differenze fra poteri – ci sono certamente poteri peggiori e poteri meno peggiori -, tutti i poteri sono simili nel fondamentale: c’è chi comanda e chi deve obbedire. Il potere è strutturalmente non emancipatorio. Non è certo una novità. Lo dicono da oltre due secoli gli anarchici. Costruttivamente, però, su come organizzare una società senza potere, sull’autogestione di vasti insiemi sociali, tutti ne sappiamo pochissimo – quasi nulla. Il nostro passato è su questo molto avaro di insegnamenti. Forse, ne sanno di più popolazioni o gruppi sociali che conservano la memoria di culture altre rispetto a quella di matrice europea.

Il messaggio più vivo, più aperto dal nostro passato – per quel che mi riguarda – viene da figure come quella di Rosa Luxemburg: di coloro che, senza cessar di lottare fino in fondo, hanno avanzato dubbi e cercato di capire piuttosto che fissarsi in una rigida convinzione da imporre con ogni mezzo. Anche una convinzione politica teoricamente valida – poniamo il collettivismo in agricoltura -, se imposta con la forza di uno Stato, diventa altro, diventa la coazione di un potere e perde ogni senso emancipatorio.

Oggi, siamo in una situazione che dobbiamo definire tragica per la mancanza di alternative in atto, o anche concretamente immaginabili, all’orrore esistente, accettato, o quasi, come normalità. L’orrore più grande è proprio quello che diventa normale. Questa situazione dipende dalla metamorfosi cancerogena di quella forma di dominio storico detta capitalismo dentro altre storie, finora ignorate dalla storia umana, ma che ne sono la base: la storia della vita e la storia della terra. Ciò ha cambiato tutti i presupposti del pensiero dell’azione politica. È necessario essere consapevoli dell’impossibilità storica di costruire un progetto sufficientemente articolato all’altezza della situazione in cui stiamo scivolando con l’inesorabilità dello scioglimento dei ghiacciai.

In un impegno concretamente situato, ritengo che dobbiamo trattenere della tradizione “rivoluzionaria” – per la pars destruens: l’indispensabile analisi critica marxiana del Capitale con tutti gli arricchimenti successivi, fra cui la luxemburghiana analisi de Laccumulazione del capitale, che rende conto della spinta alla rottura di ogni limite.

Per la pars construens: l’esigenza, confortata da pratiche sparse, di come dovrebbero essere i rapporti collettivi, tenendo conto del rapporto intrinseco fra singolo e collettivo, per cui l’uno non si dà senza l’altro e viceversa – contrariamente all’individualismo neoliberista di mercato, oggi dominante. Questo, però, è proprio quell’aspetto essenziale su cui la tradizione comunista e anche anarchica non sono riuscite a far luce in termini di progettualità e di costruzione concreta. Il punto cieco è stato il rapporto dinamico singolarità/collettività, manifesto con temporalità diverse, che non può essere rimandato ad un futuro indeterminato. Questo, a mio parere, il problema di fondo che la tradizione rivoluzionaria non ha voluto-potuto affrontare, cui è anche legata anche l’imposizione dei valori rivoluzionari tramite la costruzione di sistemi di potere.

Le comunità del Chiapas e i popoli curdi

Per quel che riguarda l’oggi, pur considerando anche i semi di contestazione e lotta in Occidente nelle esperienze degli ultimi decenni, forse bisogna guardare a situazioni storiche e sociali diverse da quelle della tradizione occidentale, come alcune situazioni sudamericane, fra cui quella del Chiapas. Voglio ricordare inoltre le difficilissime resistenze e forme di autogestione dei popoli curdi.

Nel caos regolato dei nostri tempi, di fronte all’aprirsi di un futuro che si presenta come un probabilissimo insieme di catastrofi, è necessario partire umilmente dall’humus concreto dell’esperienza: una situazione concreta che abbia insieme una valenza generale, avendo l’animo di affrontare un’oscurità situazionale, di navigare in un mare in cui non si intravvede ancora una terra, utilizzando con capacità critica gli strumenti culturali che pur abbiamo. Bisogna imparare a camminare nel buio, senza proiettare fantasmi sui muri del tunnel…

Partire dai corpi dei migranti

Per quel che riguarda la mia esperienza, questo modo consiste nel partire dai corpi dei migranti-profughi del confine orientale, in quello che è diventato il minuscolo tentativo chiamato Linea d’Ombra, nella convinzione che i migranti siano i portatori di un futuro irrappresentabile, ma di cui saranno i principali protagonisti quando vastissime parti della terra diventeranno invivibili (l’associazione Linea d’Ombra da alcuni anni ogni giorno, in piazza della Libertà, a Trieste, incontra i migranti della rotta balcanica, ndr). Nel loro game i migranti sono portatori di un diritto di libero movimento inaccettabile dagli Stati e di una critica pratica del confine, ma anche di un modo di vivere che, nell’incombenza di un tempo di catastrofi, si chiude nell’ossessione della sicurezza e di una normalità profondamente impregnata di razzismo.

Dobbiamo assumere una condizione storica indicata in maniera esemplare in un messaggio apparso qualche anno fa, sui muri calcinati di At-Tuwani (ma chissà in quante altre città e lingue), un minuscolo paese nella Palestina occupata dall’esercito e dai coloni dello Stato di Israele (la cui esistenza indica la tragica incapacità culturale di affrontare uno dei più gravi drammi storici del Novecento, ma anche una radice antica nel cuore dell’Europa). Un messaggio che chiama a una visione dell’esistenza come resistenza, meglio come re-esistenza. Sui muri di At-Tuwani si legge:

Esistere è resistere, resistere è esistere.

da qui

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