Siamo abituati a fare la spesa in maniera narcisistica: l’attenzione
puntata tutta su noi stessi, badiamo solo al prezzo e alla qualità tecnica dei
prodotti. Mai un pensiero, un interrogativo, sulla provenienza e il destino dei
prodotti, quasi approdassero sugli scaffali del supermercato piovuti dal cielo.
In realtà ogni prodotto ha una sua storia ambientale, una sua storia sociale, addirittura una sua
storia politica e a seconda della storia rischiamo di renderci complici di
gravi misfatti.
Potremmo parlare del caffè: in Italia ne consumiamo ogni anno 5
chili a testa. Ogni mattino cominciamo la nostra giornata preparandoci una
tazzina di caffè e, senza saperlo, la prima persona con cui entriamo in
contatto è un contadino dell’Africa o un bracciante dell’America del Sud.
Fra contadini e braccianti, le persone che coltivano caffè sono 25 milioni.
Contando anche i loro familiari, fanno 125 milioni di persone che vivono su
questo prodotto. La loro condizione di vita dipende da un solo elemento: il
prezzo che si forma a livello internazionale. Al supermercato, il caffè noi lo
paghiamo fra i due e i tre euro a pacchetto, ma ai produttori arrivano solo le
briciole. Una situazione simile a ciò che succede nell’ambito dei pomodori e delle arance in Italia un settore affollato
da migranti costretti a lavorare dieci ore al giorno per 25 euro su cui gravano
i taglieggiamenti da parte dei caporali.
23 aprile 2013
Con l’estendersi della globalizzazione lo sfruttamento del lavoro non si
limita alle paghe da fame, ma compromette la vita stessa, come mostra il crollo
del Rana Plaza,
un edificio di Dacca che su quattro piani abusivi ospitava oltre 2.000 operaie
che cucivano camicette per le più grandi marche mondiali. Quel palazzo non
resse all
’eccesso di peso e il 23 aprile 2013 crollò seppellendo 1.500 persone.
Potremmo parlare dell’acqua in bottiglia di cui gli italiani sono i più
grandi bevitori del mondo con un consumo pro capite annuo di 190 litri. Complessivamente
nel 2014 ne abbiamo bevuta 10 miliardi di litri. Nel nostro paese il giro
d’affari dell’acqua in bottiglia è di 2,2 miliardi di euro, suddiviso fra 180
imprese. L’acqua in bottiglia costa mediamente mille volte di più dell’acqua
del rubinetto e i risultati si vedono: i profitti del settore ammontano a 110
milioni di euro. Gli enti locali danno il loro contributo rilasciando
concessioni a prezzi ridicoli. L’acqua viene regalata alle imprese anche dove
non ce n’è. Nel 2007 a Santo Stefano Quisquinna, una località in provincia di
Agrigento, Sanpellegrino/Nestlè ha ricevuto in concessione due pozzi. Ci estrae
acqua che rivende col marchio “Vera Santa Rosalia”. Un’autorizzazione per
36.000 litri l’ora che fa sognare l’amministratore delegato di Sanpellegrino:
“È buona come l’acqua Vera. Contiamo di coprire il 50 per cento dei consumi
dell’isola”. Intanto ad Agrigento, quaranta chilometri più in là, i rubinetti
sono a secco vari giorni la settimana, talvolta anche per quarantotto ore di
fila.
Togliere acqua alle popolazioni locali per permettere alle imprese di
guadagnare su un vezzo, è uno scandalo degno soltanto del regno dell’imperatore
Bokasso. Ma lo scandalo ancora più grave è che per vendere un litro di acqua se
ne sprecano dodici, perchè questa è la quantità di acqua che serve per produrre
i 40 grammi di plastica che formano la bottiglia. Per non parlare del petrolio
utilizzato non solo come materia prima, ma anche come carburante per fare
viaggiare l’acqua su e giù per l’Italia. La libertà di mercato esige che i
veneziani bevano l’acqua Lete prodotta a Caserta e i casertani l’acqua San
Benedetto prodotta a Venezia. In conclusione chi beve un litro
d’acqua che ha fatto 1000 chilometri è come se bevesse tre quartini di petrolio
di cui mezzo litro per trasporto e 160 centilitri per la plastica.
Acqua e petrolio
Spreco di acqua e spreco di petrolio sono solo una parte del problema
ambientale scaricato sulla collettività. In Italia si bevono 11 miliardi di
litri di acqua in bottiglia che richiedono 320/350mila tonnellate di plastica
Pet (polietilene tereftato). Per ogni chilo di Pet ci vogliono 4 chili di
petrolio, 300 litri di acqua, 3.700 litri di aria come coadiuvante dei processi
chimici e di combustione. Dall’altra si rilasciano 5 kg di gas serra (qui il
dossier sul clima Il bivio di Parigi, ndr), un
peso indefinito di inquinanti tossici (benzene, arsenio, cadmio) e 180 g di
scorie solide. Non è ancora arrivata nelle nostre case e l’acqua in bottiglia
ha già prodotto un sacco di spazzatura, finchè la bottiglia non diventa essa
stessa rifiuto.
I sette od otto miliardi di bottiglie di plastica messe ogni anno in
circolazione non sono biodegradabili e se gettate in discarica formano una
grande montagna che ci mette qualche centinaio di anni per disintegrarsi. Se
incenerite possono produrre sostanze dannose come furani e diossine. Ma noi
issiamo la bandiera del riciclaggio e pensiamo di salvarci. Illusione: i
rifiuti creano problemi, sempre e comunque. Per cominciare va detto che in
Italia si recupera solo il 60 per cento della plastica consumata e quella
effettivamente riciclata non supera il 29 per cento. Morale della favola una
buona metà del differenziato finisce nell’inceneritore. Un vero schiaffo al
buonsenso, all’impegno degli italiani e agli alti costi di recupero.
Come consumatori ci troviamo nella parte finale della filiera e siamo molto
sensibili al tema dei rifiuti nella forma di prodotti consumati. Ma la maggior
parte di essi si producono mentre gli oggetti sono ancora in fase di
costruzione, ben lontani dal consumo. Uno dei fattori d’inquinamento è il
trasporto dei prodotti alimentari da un capo all’altro del mondo e proprio per
attirare l’attenzione sull’inquinamento e lo spreco d’energia che si cela
dietro ai chilometri percorsi dal nostro cibo, nel 1992 il ricercatore inglese
Tim Lang ha coniato l’espressione Foodmiles.
Nel mercato globalizzato il cibo non conosce più confini. Viaggia da un
punto all’altro del pianeta come se fosse su una giostra in perenne movimento. Nei supermercati ci
sono le fragole del Sudafrica, anche quando i campi sono coperti di neve, i
fagiolini dal Burkina Faso anche quando la nostra terra è indurita dal gelo, le
pesche del Cile anche quando i nostri peschi sono ancora in fiore. Il supermercato si
fa mondiale: i fiori dal Kenya, i fagiolini dal Burkina Faso, le magliette dal
Bangladesh, le ciabatte dall’Indonesia. E con le distanze si moltiplicano le
tonnellate di cherosene e le tonnellate di Co2. Ad ogni chilo di pere fatto
arrivare dall’Argentina via aerea, corrisponde un consumo di 2,6 litri di
cherosene e una produzione di 6,5 kg di anidride carbonica. Un vero assurdo non
solo da un punto di vista ambientale ma anche energetico: si bruciano 53
calorie fossili per disporre di una caloria vegetale. Per non parlare dei
trasporti interni: è stato calcolato che in Inghilterra i camion dei
supermercati percorrono complessivamente 408 milioni di miglia, il
corrispettivo di 854 viaggi andata e ritorno sulla luna. Ogni anno 600.000
tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera.
Consumo critico
Un modo per privilegiare gli acquisti locali e là
costituzione dei Gruppi di Acquisto Solidale che consistono in gruppi di
famiglie organizzate fra loro per effettuare gli acquisti direttamente dai
piccoli produttori locali con lo scopo di potenziare il consumo locale e di
sperimentare nuove relazioni economiche. Attualmente i gruppi di acquisto
esistenti sono 1500. Benché ognuno abbia le sue particolarità, tutti sono
animati dallo stesso spirito e sono organizzati sullo stesso modello. Ad
esempio i compiti sono svolti a rotazione dai soci. C’è chi cerca i produttori,
chi raccoglie gli ordini, chi ritira la merce, chi distribuisce i prodotti.
Tutto in forma rigorosamente gratuita. Per questo il gruppo è definito
solidale.
Se è fondamentale porre attenzione alla storia sociale e ambientale dei
prodotti, è altrettanto importante concentrarsi sul comportamento di chi ce li
offre. Di qui l’importanza del consumo critico. Talvolta, può
esserci niente da ridire sul prodotto come tale, ma molto da obiettare sull’
impresa produttrice. Prendiamo come esempio l’olio a marchio Bertolli. In origine era
espressione di una piccola azienda toscana, ma oggi questo marchio fa parte
dell’impero Unilever che è la seconda multinazionale più grande del mondo del
settore alimentare. Unilever possiede piantagioni di tè in Africa e India, è
uno dei più grandi acquirenti di olio di palma e di cacao. Tutti settori
estremamente critici caratterizzati da salari al limite della sopravvivenza, da
problemi ambientali di ogni tipo e perfino dalla presenza di lavoro minorile
talvolta in schiavitù. Unilever è anche un fornitore importante di prodotti
alimentari all’esercito statunitense mentre in vari paesi del mondo è
denunciata per atteggiamento antisindacale. Le critiche potrebbero continuare e
non si limitano solo a materie correlate con la produzione, ma sfondano anche
nel politico e nel sociale. Potremmo citare come esempio il coinvolgimento col
commercio di armi, l’invasione della politica, l’elusione fiscale, la
segretezza.
L’esperienza dimostra che dove i consumatori si fanno
sentire, le imprese sono disposte a cambiare, non perché si convertono
all’ambiente o alla giustizia, ma perché non vogliono perdere quote di mercato. Dunque ogni volta
che andiamo a fare la spesa ricordiamoci che siamo potenti e che le imprese sono in una posizione
di profonda dipendenza dal nostro comportamento di consumatori. Consumando in
maniera critica è come se andassimo a votare ogni volta che facciamo la spesa.
Votiamo sul comportamento delle imprese, premiando quelle che si comportano bene
e punendo le altre. Alla lunga le imprese capiscono quali sono i comportamenti
graditi dai consumatori e vi si adeguano instaurando fra loro una nuova forma
di concorrenza, non più basata sulle caratteristiche estetiche ed economiche
dei prodotti, ma sulle scelte sociali ed ambientali.
Ridurre e cambiare i consumi
Oltre che alla qualità dei prodotti bisogna porre attenzione anche alla
quantità, non solo per ridurre i rifiuti, ma anche per salvaguardare le
risorse. È evidente, ormai, che il livello dei consumi mondiali sta mettendo in
crisi alcuni equilibri naturali fondamentali e sta intaccando le riserve di
varie materie prime. È importante ridurre i nostri consumi per lasciare
spazi di crescita agli impoveriti che hanno il diritto di mangiare di più,
vestirsi di più, calzarsi di più, curarsi di più, studiare di più, viaggiare di
più. Ma non possono farlo finché i benestanti non accettano di sottoporsi a
cura dimagrante, perché c’è competizione per le risorse e gli spazi ambientali
scarsi.
La soluzione è che i ricchi si convertano alla sobrietà. Ossia a uno stile di
vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più
inserito nei cicli naturali, in modo da lasciare ai poveri le risorse e gli
spazi ambientali di cui hanno bisogno. La sobrietà non significa ritorno alla
candela o alla morte per tetano. Significa eliminazione degli
eccessi e rimodellamento del nostro modo di produrre e di consumare. Significa adottare
uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più
lento, più inserito nei cicli naturali, ricordandoci che la civiltà, nel vero
senso della parola, non consiste nella moltiplicazione dei bisogni, ma nella capacità
di ridurli.
Nella vita di tutti i giorni, la sobrietà passa attraverso piccole scelte
come quella di utilizzare meno auto più bicicletta, meno mezzo
privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati
più prodotti locali, meno merendine confezionate più panini fatti in casa, meno
cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del
rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere
più prodotti alla spina, meno pasti ingrassanti più correttezza alimentare.
L’esperienza di Bilanci di
Giustizia, un movimento di famiglie italiane che praticano il
consumo responsabile, dimostra che la sobrietà è possibile, non costa niente,
anzi fa risparmiare, e riempe di soddisfazione. La soddisfazione di sentirsi
persone libere che decidono esse stesse cosa comprare.
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