giovedì 30 giugno 2022

Una domanda fratello - Alessandro Ghebreigziabiher

Una domanda.Solo una domanda.

Vorrei farti solo una domanda, fratello, che in quel di Melilla hai perso la vita, che hai perso un amico, un fratello vero e proprio, che hai perso la speranza nell’umanità, o di ciò che ne resta in ciascuno di noi, nel presente, ancora prima che nel futuro, nel destino, in qualsiasi divinità a portata di compassione, altro che orecchio... ma cosa dico? A portata di una mano che si tende solidale, magicamente umana nei tuoi confronti, e ti aiuta ad alzarti da una Storia sbagliata, insensata, crudele e spietata. Restituendo il mal tolto e il ben preso come se fossero entrambi un diritto divino.
Vorrei farti una domanda una volta per tutte, una sola, anche se sono convinto di conoscerne già la risposta, fratello. Sarà forse una mera questione di origini, la mia, ovvero è ciò che mi capita di pensare talvolta, ma non è la migliore come spiegazione. Preferisco la versione ottimista, il più delle volte, che mi induce a credere che certe cose possono risultare evidenti a chiunque, a prescindere dalle differenze costruite a follia e ottusità, più che tavolino.
È da tempo che vorrei fartela, forse perché avrei voluto farla a mio padre quando era ancora tra noi, ma non ne ho avuto probabilmente il coraggio, oltre all’occasione giusta.
Perché sai, sin dal primo istante in cui si è palesata al riparo della mia testa ormai canuta, non ho potuto fare a meno di pensare al paese in cui sono nato e il vecchio continente nel mezzo del quale è bizzarramente disegnata. Ogni giorno che passa la domanda di cui sopra si è fatta più impellente, squillante, urgente. E, soprattutto insieme alla sua risposta, di estrema utilità per ciascuno di noi altri da queste parti.
Da quella primissima volta sino a oggi, più passo il tempo a osservare la società in cui sono venuto alla luce per merito della sana utopia dei miei - solo in apparenza - così diversi genitori, al netto dell’ancora sopravvalutato colore della pelle, e altrettanto si allunga la lista delle cose che a mio avviso non funzionano o funzionano in modo ingiusto.
Nel mentre un anno dopo l’altro è sfilato via come i foglietti del calendario nelle animazioni di una volta, ho saltato a piè pari un secolo, e oramai ben oltre il giro di boa di una vita di cui sono comunque grato, mi guardo attorno e non riesco a non preoccuparmi.
Perché l’Europa è in guerra, fratello, e da molto prima dell’invasione dell’Ucraina.
Perché questa terra sta letteralmente bruciando da un bel po’, anche se in molti se ne rendono conto appieno soltanto quando il puzzo di bruciato riguarda qualcosa che gli appartiene. Come se tutto il resto, ormai in cenere, fosse roba dello spirito santo.
Come se, in altre parole, a prescindere dalla classe non fossimo passeggeri a bordo della medesima nave in serie difficoltà.
Perché questo pugno di Stati, diviso e sempre più in acceso conflitto con il resto del mondo, è a sua volta formato da nazioni altrettanto spaccate, dimostratesi col tempo capaci di costruire muri invece che ponti su ogni argomento immaginabile, ovvero delirabile, se mi lasci passare la parola inventata.
Perdona se il sottoscritto passa buona parte del suo tempo a inventare parole proprio per questo, fratello. Mi sono detto che quelle normali non bastano più  per cercare di mostrare ciò che vedo, con il risultato minimo di sperare in un pizzico di condivisione, ancora prima che cambiare davvero le cose. Anche perché le parole, vere o meno, non ci riescono mai. Solo le persone, e non tutte, possono tanto.
Ciò nonostante, quando la magia della pagina che pare riempirsi da sola si esaurisce mi riaffaccio alla finestra di cui sopra e ciò che osservo a occhio nudo mi angoscia ancora più della volta precedente.
Eppure, nonostante ovunque nel mondo oramai tutti possano guardare con gli stessi occhi il desolante stato di salute di questo anziano dinosauro in poltrona, abitato da gente impaurita da se stessa e delimitato da fil di ferro e idiozia, come il mitico Ulisse tu insisti ad attraversare ogni pericolo narrabile per arrivare fin qui.
Allora, caro fratello, permettimi di chiedertelo, e ti prego, rispondi a gran voce e con dovizia di dettagli in modo che tutti comprendano nel profondo il senso di quelle orrende immagini: quanto devono essere terribili al confronto il luogo e la vita da dove sei fuggito?

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urlanti e muti – Enrico Euli

Come reagiremo alle prossime restrizioni e ai nuovi divieti incombenti?

Come potremo (e soprattutto potranno le giovani generazioni), allevate nelle consuetudini fashioniste del consumo, dello spreco, della facile ed immediata acquisizione di ogni cosa?

Come vivremo l'uscita per obbligo dalle nostre zone di comfort, permeate di agiatezze e vizi, rassicurazioni ed esenzioni?

Che cosa ce ne faremo ora che la pace sta per virare in guerra, il benessere in disperazione, il successo di pochi in fallimento di tutti?

Cosa riusciremo ancora a dire con le nostre lingue perversamente nutrite soltanto di eufemismi perbenisti e politicamente corretti?

 

Non è difficile prevederlo, anche perché inizia ad avvenire già.

Urleremo e ammutoliremo.

Le maggioranze silenziose si riverseranno nei fiumi della paura e del terrore, nei laghi della depressione e dell'isolamento, nei mari della sottomissione e dell'obbedienza.

Cinismo e sentimentalismo estremi andranno insieme tra loro e, ancor più di oggi, ad un opportunismo morale che tutto saprà giustificare ed utilizzare ai propri fini.

Crescerà l'identificazione verso i capi e la loro autorità carismatica del momento.

Crescerà la violenza per bande, ma anche quella di singoli rabbiosi e risentiti, apparentemente insensata, immotivata da null'altro che dal solo bisogno di farla o di subirla.

La distruttività reattiva rappresenterà l'altra faccia di una passività senza limiti, a sua volta premiata da chi vorrà soltanto dominarci in silenzio e a distanza.

 

I segnali ci sono già tutti, e sono purtroppo chiari e incontrovertibili.

Le giovani generazioni sono solo una massa allo sbando, che cerca di sballarsi e non pensare.

Inutile consolarsi con le eccezioni, che sono sempre esistite e non sono mai riuscite ad impedire il disastro.

Gli adulti continuano a nascondere loro la realtà e soprattutto quel che sta per avvenire.

Proseguono a far finta di nulla, a riempirsi di parole e psicofarmaci, a dormire in piedi, a lamentarsi in bagno, a seguire le procedure, a fare il loro lavoro.

Siamo tutti in attesa che qualcun altro faccia qualcosa.

E questi altri lo fanno, ma -dobbiamo saperlo e dirlo-: proprio perché lo fanno, provando a rallentare il disastro e a tappare le falle, proprio così genereranno catastrofi con ancor più pervicacia, intensità, frequenza e convinzione.

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mercoledì 29 giugno 2022

A cosa serve la letteratura? - Mario Barenghi

 

A mio parere chiedersi «che cos’è la letteratura?» o «che cos’è un testo letterario?», come ha fatto Giovanni Bottiroli (La letteratura: se iniziassimo davvero a studiarla?) non è la maniera più appropriata per affrontare il problema dell’insegnamento della letteratura all’università, né tanto meno a scuola. La questione da porre non dovrebbe essere ontologica, bensì funzionale. Occorre interrogarsi sullo scopo della letteratura, qualunque cosa essa sia: sulla sua ragion d’essere. A che cosa serve? Per che cosa ce ne serviamo? Con quali motivazioni? E in vista di quali obiettivi o vantaggi? Dovendo dare una definizione generalissima, io prenderei in prestito la formula che il linguista israeliano Daniel Dor usa per definire il linguaggio (The Instruction of ImaginationLanguage as a Social Communication Technology, Oxford U.P. 2015).

 

La letteratura è una tecnica di «istruzione dell’immaginazione», che serve non a «comunicare», semplicemente, bensì a far vivere esperienze simulate. Attraverso una prassi di simulazione socialmente condivisa (diversa quindi dalla fantasticheria individuale) il lettore ha la possibilità di ampliare la propria esperienza esistenziale complessiva: di chiarirla e di arricchirla, di articolarla ed estenderla, acquisendo così nuovi strumenti per far fronte alle sfide della vita reale. 

Potremmo anche formulare questa idea in termini moralmente più impegnativi. Il fine delle opere letterarie dovrebbe essere di aiutarci a vivere. Servono per vivere: così suona il titolo di un intelligente saggio di Bruno Falcetto (sottotitolo Verso un’educazione all’uso della letteratura) edito nel volume collettivo La didattica della letteratura nella scuola delle competenze (cur. G. Langella, Pisa, ETS 2014). A vivere, o a sopravvivere, o a farci vivere meglio, come ha scritto Tzvetan Todorov in un libro del 2007, La littérature en péril (La letteratura in pericolo, Garzanti) e come ha ribadito Antoine Compagnon nella sua prolusione al Collège de France dello stesso anno, La Littérature, pour quoi faire? (disponibile come file di libero accesso su questo sito), la letteratura serve a renderci più felici. O meno infelici. E a renderci migliori: più saggi, più accorti, più sensibili, più lungimiranti (qui Compagnon cita un celebre passo del saggio di Calvino Il midollo del leone); in genere, più attrezzati nell’interpretare il mondo che ci circonda, il mondo umano in primis. Di conseguenza, meglio inseriti nell’ambiente che ci è proprio: più abili nel capire i nostri simili, le loro azioni e i loro atteggiamenti, così come le dinamiche delle relazioni che a loro ci legano; più pronti a intendere il senso e il peso delle parole, nostre e altrui. 

 

Però attenzione: la letteratura non produce questi effetti in maniera automatica. Anzi, può darsi che non li produca affatto. Non solo e non tanto perché, oltre alla grande letteratura, esiste anche la cattiva letteratura: ma soprattutto perché (il caso dei testi sacri insegna) non c’è buon libro di cui non si possa fare cattivo uso: esattamente come non c’è utensile (attrezzo, apparecchiatura, competenza o cognizione) di cui non si possano servire anche gli «stupidi» e i «banditi», per riprendere due categorie del Cipolla di Allegro ma non troppo (Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino 1988). Possiamo consolarci, forse, pensando che è vero anche il contrario: pure di un libro mediocre si può fare un uso positivo. Fatto sta che l’insegnamento della letteratura dovrebbe perseguire questo scopo: incrementare le probabilità che, nell’esperienza letteraria degli allievi, gli effetti ritenuti proficui, augurabili, desiderabili, prevalgano su quelli ritenuti negativi. 


Ora, l’esperienza letteraria fa leva su due fondamentali procedimenti: la personificazione e il coinvolgimento. D’acchito, il primo sembra riguardare il versante della produzione del testo (l’autore), il secondo quello della ricezione (il lettore). In realtà sono sempre chiamati in gioco entrambi, poiché è appunto attraverso la personificazione che l’autore mira a coinvolgere il lettore, mentre il lettore può ravvisare intenti personali o forme di personalizzazione del discorso anche al di là delle intenzioni consapevoli del produttore del testo. Ma questi sono dettagli teorici; il punto principale è un altro. Di che cosa parla la letteratura? Di tutto, ovviamente. La letteratura può rappresentare qualsiasi cosa. Non solo qualunque aspetto della vita reale, ma qualunque realtà ipotetica, fittizia, immaginaria, controfattuale. Il suo tratto distintivo è che lo fa fingendo persone. Si può trattare di figure umane in senso proprio, magari a tutto tondo, come accade nelle rappresentazioni teatrali o nei romanzi, dove si parla appunto di «personaggi», dramatis personae, o nella lirica, che inscena esplicitamente un «io»: ma si può trattare anche, più sottilmente, di un assetto del discorso abbastanza personalizzato da evocare una presenza umana, come avviene anche nelle poesie più astratte o didascaliche, nelle descrizioni più impassibili, nella saggistica. Il discrimine è sempre un’imputazione di concretezza: qualunque cosa dica il testo, qualunque sia il tema che propone o l’argomento che svolge, esso è incorporato, incarnato (embodied), personificato, appunto.

 

La personificazione può seguire le strade più diverse: offrirsi con esplicitezza anagrafica, con tanto di nome, cognome, data di nascita, ascendenza familiare e così via; oppure evocare una silhouette umana in maniera più sfuggente, e spesso proprio per questo tanto più suggestiva; o ancora, antropomorfizzare entità (forze o creature) non umane; o anche solo disseminare il testo di orme e di tracce, increspando la superficie verbale di accenti abbastanza marcati e riconoscibili da stimolare il rinvio a una personalità particolare. 

«Particolare» è un termine chiave. Prendiamo l’enunciato tertium non datur. Di un concetto astratto come questo la letteratura offre esemplificazioni che contengono sempre qualcosa di meno (cosa per cui non possiamo fare a meno della logica) e qualcosa di più (cosa per cui vale la pena di leggere narrazioni). Saltare o non saltare dalla nave, il dilemma di Lord Jim; cedere all’intimazione dei bravi oppure no, l’alternativa che don Abbondio scarta a priori senza comprendere cosa ciò significhi. Eccoci nel regno del particolare concreto. Ma anche dove in un’opera letteraria si incontrano enunciati generali, è l’insieme delle circostanze particolari a produrre una pressione osmotica sull’esperienza del lettore. D’altronde, se noi siamo permeabili ai casi particolari è perché la vita ci viene appunto incontro come una sequenza (o un complesso) di circostanze particolari. 

 

Non di meno, perché il processo abbia luogo – perché la letteratura funzioni come tale – il lettore, per parte sua, si deve sentire coinvolto. Se ne deve interessare: cioè, letteralmente, deve fingere di starci in mezzo (inter esse). Deve sentirsene, se non rapito, almeno attratto: ovvero interpellato, chiamato in causa. Il meccanismo è quello della proverbiale massima oraziana: mutato nomine, de te fabula narratur (Sat., I, 1, 69-70) Non si dà esperienza letteraria senza un qualche grado di immedesimazione. Sarebbe sbagliato, peraltro, appiattire l’idea di immedesimazione sulla dimensione emotiva e sentimentale, in particolare sulla spinta all’identificazione empatica con i personaggi romanzeschi. Una forma di empatia c’è sempre, ma può investire anche l’attitudine problematica o umoristica o raziocinante che prende corpo nel discorso. Chi parla – chiunque esso sia – la incarna, la incorpora. Il discrimine è sempre un particolare tipo di corporeità, la materialità (sia pur virtuale) di una presenza personale. 

 

Vediamo ora più da vicino la questione dell’insegnamento. Si può insegnare la letteratura? Qui Bottiroli ha ragione: «ciò che un insegnante di lettere può fare è creare le condizioni perché sia possibile un’esperienza estetica. Non la può imporre, ma la può favorire». E ha ragione anche nel sostenere che non deve produrre ostacoli. Io direi, più drasticamente, che dovrebbe evitare di fare danni: primum non nocere, secondo l’aureo monito della scuola salernitana. Lo seguo meno, invece, quando mette in opposizione l’attenzione ai «testi» e l’attenzione ai «contesti», denunciando le nefaste conseguenze del «contestualismo» («il contestualismo uccide la letteratura»). Certo, trattare un testo alla stregua di mero documento di qualcos’altro, riducendolo a pezza d’appoggio per disquisizioni d’ordine storico, psicologico, sociale, «culturale», significa soffocarlo. Danni non meno gravi sono stati prodotti tuttavia – a quanto mi consta, soprattutto a scuola – dall’abuso di nozioni e griglie elaborate dalla teoria letteraria. Non si legge un romanzo per imparare cosa significano le parole «prolessi» o «analessi».

 

A uccidere la letteratura, a mio avviso, è l’indifferenza nei confronti dei lettori. Io non distinguerei tanto fra «artefatto» e «oggetto virtuale» (termine con cui Bottiroli intende «l’insieme delle interpretazioni possibili»), bensì fra «testo» e «opera», dove l’opera è il testo concretamente riattivato dalla lettura: eseguito – nel senso musicale della parola – da un lettore o da una comunità di lettori. Franco Brioschi cita a più riprese – fra l’altro, nella prefazione a Gli immediati dintorni. Primi e secondi di Vittorio Sereni (Il Saggiatore 2013) – l’epigramma riportato da Possidio alla fine della sua biografia di Sant’Agostino. L’intento del poeta latino era di celebrare la funzione eternatrice della poesia, ma questi due versi si prestano benissimo a rappresentare la riattivazione del testo ad opera del lettore: Vivere post obitum vatem vis nosse, viator? Quod legis, ecce loquor; vox tua nempe mea est («Vuoi sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo: la tua voce è la mia»). La poesia rivive, anzi, vive letteralmente nella lettura. Ora, se la letteratura conta in quanto simulazione di esperienze, non si può trascurare il fatto che ogni esperienza è contestuale. Detto altrimenti, chi insegna, insegna sempre a qualcuno: e ciascuno dei soggetti implicati porta con sé un insieme di contesti dai quali non si può prescindere (anche se ovviamente occorre guardarsi con cura dalle derive impressionistiche).

 

Dimostrare che un testo letterario consente molte possibili interpretazioni, o che è stato letto in molte diverse chiavi, è istruttivo ma non cambia le cose, almeno finché non si sia attivata una forma di immedesimazione, di partecipazione – cioè non sia stata intaccata l’indifferenza del destinatario. Il punto cruciale è che da quel testo dovrebbe arrivare, qui e ora, qualcosa di importante per chi lo sta leggendo. Che cosa, è ovviamente impossibile dirlo a priori (in fondo, è il bello della letteratura). 

Da questo punto di vista, l’insistenza di Nadia Fusini sul ruolo del lettore (Leggere con l’orecchio) mi trova del tutto d’accordo. Il centro dell’esperienza letteraria è la lettura: giustissima, quindi, la richiesta che per il fine della «educazione alla lettura» s’impegnino «la scuola, l’università, la critica e l’estetica». Avrei tuttavia una marginale riserva sulla svalutazione della lettura «di evasione». Offrire la possibilità di evadere da un presente frustrante, opprimente o doloroso non è cosa da poco: e, al di là del refrigerio momentaneo, le esperienze estetiche «di evasione» possono poi anche produrre effetti collaterali molto più consistenti e meno effimeri di quanto sospettiamo. Di contro, chi legge con lo scopo «serio» di capire come va il mondo può benissimo commettere errori, incorrere in malintesi. Ben peggio dei lettori ingenui o disimpegnati sono i lettori superficiali, presuntuosi, capaci solo di trovare conferme a convinzioni già acquisite.

 

Un’immagine di buon lettore si trova nelle parole del romanziere Silas Flannery, l’alter ego di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro».  

Concludo. Nell’università di un tempo si poteva dare per scontata, forse, una diffusa familiarità con l’esperienza letteraria. Gli studenti, almeno nelle Facoltà di Lettere, nutrivano un consolidato interesse per la letteratura: se non proprio per tutti gli autori del nostro canone storico-letterario, certo per molti classici della modernità. Ignoro se queste circostanze si riproducano oggi in qualche isola privilegiata dell’arcipelago accademico. Personalmente, insegno in corsi di laurea dove la letteratura non è in cima ai pensieri degli studenti, quindi non posso non pormi il problema di interessarli, nel senso indicato sopra. Mi sforzo di far sì che le letture che propongo interagiscano con le loro coscienze – s’intende, nei modi propri della letteratura. So per certo che non ci riesco con tutti, né – temo – con la maggior parte; mi auguro di riuscirci almeno con qualcuno. Da tutti cerco però di pretendere che si rendano conto della densità del testo letterario, della pregnanza dell’uso delle parole, della complessità della costruzione del discorso, dell’importanza dei temi toccati. Tanto non basterà perché abbia luogo una vera esperienza estetica; ma se nel frattempo sarò riuscito a non suscitare un disgusto eccessivo, una reazione di repulsione per la letteratura in generale, potrà valere, forse, come presupposto o piattaforma di esperienze future. Non molto, ma meglio che niente. 

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Se l’Occidente accontenta Erdogan sulla pelle del Kurdistan e dei dissidenti - Tiziana Barillà

 

La Turchia «ha avuto quello che chiedeva» ha fatto sapere Erdogan. Cosa voleva? L’estradizione dei ricercati curdi rifugiati in Finlandia e Svezia e la revoca delle restrizioni sulle armi imposte dopo l’incursione militare della Turchia nel 2019 nel nord-est della Siria.

In nome dell’antiterrorismo e con la benedizione di Biden e del G7, Finlandia, Svezia e Turchia hanno firmato un memorandum trilaterale che apre la strada all’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia. Ingresso fin qui ostacolato proprio da Ankara. 

In testa all’elenco dei ricercati di Erdogan ci sono gli esponenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan, (Pkk) e della sua estensione siriana (Ypg). 

Ma è d’obbligo chiedersi che ne sarà dei giornalisti curdi e degli esponenti dell’opposizione rifugiati in Svezia e Finlandia. Quando glielo ha chiesto una giornalista, Stoltenberg ha risposto che lo leggeremo presto sul sito della Nato. 

Garantiscono che l’estradizione avverrà esclusivamente su accuse provate e secondo quanto previsto dalla convenzione europea. Ci possiamo fidare? Bisognerebbe chiederlo alle migliaia di dissidenti, giornalisti, oppositori politici, attivisti LGBTQ incarcerati in questi ultimi anni. 

Lo scorso 26 giugno, nel centro di Istanbul, centinaia di persone sono state arrestate (senza contare quelle picchiate e perquisite) per aver marciato con l’Istanbul Pride Parade nonostante il divieto delle autorità. 

Fino al 2014 la Turchia è stata uno dei pochi paesi a maggioranza musulmana a consentire la Marcia dell’Orgoglio. Poi, con l’arrivo di Recep Tayyip Erdogan, le marce sono state bandite. E chi osa scendere in piazza deve affrontare violenze, lacrimogeni, proiettili di plastica e arresti.

L’associazione degli avvocati MLSA ha denunciato che tra i detenuti c’è anche Bülent Kilic, un fotografo di Agence France-Presse. 

Ora per fare il lavoro sporco al posto nostro con i migranti, ora per trattare con Putin, ora per allargare il raggio atlantista, l’Occidente continua a riconoscere il regime osceno di Erdogan come se niente fosse.

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martedì 28 giugno 2022

Abraham B. Yehoshua recensisce La metamorfosi

 

Perché Franz Kafka aveva il terrore che la prima edizione della Metamorfosi fosse accompagnata da un’illustrazione dello scarafaggio?

Interpretazione psicoanalitica di una tragedia familiare

Il venticinque ottobre del 1915 Kafka scrive al suo editore Kurt Wolff una lettera in merito alla copertina del racconto La metamorfosi, in corso di pubblicazione. Questo il tenore della lettera: “Egregio signore, ultimamente Lei mi scrisse che Ottomar Starke avrebbe disegnato la copertina de La metamorfosi. Mi sono preso un piccolo, probabilmente inutile spavento. Inutile stando a ciò che conosco di quell’artista in Napoleone. Mi è venuto in mente, siccome Starke è un vero illustratore, che forse potrebbe voler disegnare l’insetto. Questo no, per favore, questo no! Non voglio limitare la sua libertà d’azione, voglio soltanto avanzare una preghiera derivante dalla mia conoscenza, ovviamente migliore, della storia. L’insetto non può essere disegnato. Ma non può neppure essere mostrato da lontano. Se questa intenzione non sussiste, se, dunque, la mia richiesta è ridicola, tanto meglio. A Lei sarei grato se volesse trasmettere il mio desiderio. Se potessi fare una proposta per una illustrazione, sceglierei scene come: i genitori e il procuratore dinanzi alla porta chiusa o, ancor meglio, i genitori e la sorella nella stanza illuminata, mentre la porta che dà nella stanza attigua, totalmente oscura, è aperta…”. Allora, io proverò qui a delineare lo scarafaggio e capire di conseguenza come mai Kafka fosse così spaventato dall’idea che qualcuno lo raffigurasse.

Non è neppure il caso di cominciare ad addentrarsi nell’immensa ricchezza di significati attribuiti a questo racconto di Kafka. Qui, infatti, la proverbiale ambivalenza ontologica di Kafka giunge all’apice, e non è sbagliato dire che siamo di fronte a uno fra i racconti più studiati nella letteratura del ventesimo secolo, se non il più studiato di tutti. Nella selva di significati spicca ovviamente quello psicoanalitico, che non di rado suscita opposizione proprio per la sua ambizione ad essere totale, e perché presenta la propria interpretazione come ultima, definitiva. In effetti, un’interpretazione psicoanalitica non ha bisogno di alcun supporto storico, sociologico o filologico, è persino autonoma dai dati biografici dell’autore. I personaggi delle tragedie di Sofocle, Shakespeare o Molière sono, in tale contesto, presi per quello che sono, e sotto questo profilo è lecito analizzare loro e i loro complessi come se vivessero qui, accanto a noi. Kafka per parte sua è ben noto alla psicoanalisi. In un certo senso l’ha ispirata, perché tutto ciò che scriveva poteva essere interpretato in un senso psicoanalitico. Tenterò qui soltanto una delle possibili interpretazioni psicoanalitiche, che si fonderà esclusivamente sul testo, senza alcun rapporto con i dati biografici di Kafka, osservando solo l’agente di commercio Gregor Samsa e la sua famiglia così come compaiono nel racconto.

La domanda che mi guida è la seguente: che cosa è esattamente l’insetto descritto nella storia? Dobbiamo prenderlo solo come una metafora, come un oggetto allegorico, o è possibile conferirgli una qualche pregnanza, per lo meno nella stessa misura in cui diamo concretezza alle cose nei sogni, che hanno magari un’alta carica simbolica ma anche una nitida concretezza? Se questo insetto viene interpretato esclusivamente come simbolo metaforico o allegorico, un simbolo generale di disumanizzazione, allora perdiamo secondo me qualcosa di importante in questo racconto che, al di là di tutto ciò che riguarda l’insetto, tiene bene testa a un approccio realistico generale.

Kafka aveva evidentemente in mente qualcosa di molto concreto, non soltanto un simbolo metaforico. Così scrive a Yanok a proposito di questo racconto: “E’ un sogno terribile, è una concezione terribile. Il sogno svela la realtà, mentre l’idea ne è una risultanza. E’ la mostruosità della vita, la natura terrifica dell’arte”. Torneremo su queste parole di Kafka a proposito del racconto; quanto a me, m’incoraggiano lungo la via che cerco.

 


Scenario: la famiglia compressa

Gregor viene da una famiglia borghese, dove troviamo un padre forte (in primo luogo fisicamente, ma la sua forza si rivela assai più sostanziale, generale). Questo padre ha avuto guai finanziari, forse a causa dei suoi istinti prepotenti. Gregor ha deciso di tirare fuori suo padre dalle avversità economiche andando a fare l’agente di commercio nella ditta in cui suo padre aveva fallito. Il fatto che il figlio vada a risollevare le sorti del padre nello stesso luogo in cui questi aveva fallito, e non altrove, ha un significato particolare: con ciò si enfatizza e intensifica il dato della “sostituzione” del padre, e se ne svela ulteriormente il fallimento. Quel posto di lavoro Gregor non lo ama, e in ditta nessuno nutre particolare simpatia per lui. La gente lo tratta con somma diffidenza e in una certa misura lo umilia, memore com’è del fallimento paterno. Il duro lavoro del figlio non serve solo per pagare il debito del padre: se questo fosse l’unico scopo, la durata del lavoro sarebbe stata assai più breve, e anche il padre sarebbe stato in una certa forma mobilitato, per collaborare alla restituzione del debito. Ma il fallimento del padre serve a creare la dipendenza della famiglia da Gregor, a fargli prendere il posto del padre stesso. Prima di tutto il padre smette di lavorare, senza una ragione precisa. Sta di fatto che dopo la metamorfosi di Gregor in scarafaggio il padre torna al lavoro e dimostra che ne sarebbe stato capace, in tutti quegli anni di ozio. Gregor per parte sua mantiene la famiglia non certo al livello di ristrettezze di chi si trova sommerso dai debiti: vivono in una casa grande che richiede molte spese (dopo la morte di Gregor la famiglia decide di trasferirsi in un appartamento più piccolo ed economico). Durante tutti quegli anni di lavoro per restituire il debito, i genitori mettono da parte del denaro. In altre parole, Gregor ha trasformato il fallimento del padre in un pretesto per ereditare il suo posto (un motivo analogo si trova, fra l’altro, nel racconto Il verdetto, scritto prima de La metamorfosi), e ha impedito al padre di partecipare allo sforzo di risanamento della famiglia, perché egli vuole sostituirsi a lui e con ciò rendere ancora più profondo il suo fallimento. Così il padre si indebolisce (benché questa debolezza si sveli in seguito come fittizia, e temporanea), e la scena classica che si evidenzia è più o meno questa: “Le stoviglie della colazione coprivano il tavolo in gran quantità, perché la colazione era per il padre il pasto più importante della giornata, che egli protraeva per ore leggendo diversi giornali” (p. 85). L’immagine del padre fannullone che prolunga la prima colazione, di fronte a quella del figlio sottotenente con la spada e la divisa, bene esemplifica il tipo di relazioni che vigeva in famiglia. Con la maschera della sollecitudine per i propri cari, con la risoluta decisione che il fallimento del padre non può intaccare il processo di riabilitazione della vita familiare, Gregor finisce (consapevolmente o meno) per asservire a sé la famiglia.

In effetti, malgrado sia un agente di commercio, Gregor non pare minimamente interessato al mondo esterno, e sono proprio i suoi frequenti viaggi a esprimere il profondo legame libidico che intrattiene con la famiglia. Il suo vero interesse emotivo è rivolto esclusivamente verso la casa. Quando in uno dei suoi lunghi viaggi riceve le lettere della sorella, in cui lei parla del padre che legge il giornale a voce alta (che notizia sconvolgente!), Gregor ha la sensazione che la casa sia piena di gioia e allegria. Anche la madre descrive al procuratore l’attrazione di suo figlio per la casa e la sua assoluta fedeltà alla famiglia, in questi termini: “Quel ragazzo non ha in testa altro che la ditta. Io mi arrabbio quasi, perché alla sera non esce mai; ora è stato otto giorni in città, ma è rimasto a casa tutte le sere. Sta seduto con noi al tavolo e legge in silenzio il giornale, oppure studia gli orari ferroviari” (p. 80). Non è la famiglia a pretendere che lui stia lì, piuttosto è lui che è attratto dalla famiglia come una specie di padre privo di interessi libidici al di fuori di essa. In effetti, facendo l’agente di commercio, Gregor avrebbe l’opportunità di una vita eccitante, fuori. Invece è vero il contrario: tutto il mondo esterno in cui passa gran parte del suo tempo si riassume conseguentemente in “due, tre amici di altre ditte, una cameriera di un albergo di provincia, un dolce, fuggevole ricordo, la cassiera di un negozio di cappelli, alla quale – seriamente, ma con troppa lentezza – aveva fatto la corte” (p. 109). Tutti i suoi impulsi libidici si concentrano infine sull’immagine di una donna impellicciata che egli ha ritagliato da una rivista illustrata, come un timido sbocco della libido: e per serbare questa innocente immagine lotterà anche quando sarà ormai un insetto...

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lunedì 27 giugno 2022

Telmo Pievani: Vi descrivo come sarà l'Italia nel 2786

 

Di Conquista dell’America e Leggenda nera - Lia (di Haramlik)

  

 (Metto qui un post che avevo scritto su Facebook, ché è una riflessione che voglio continuare.)

Due dati sulla colonizzazione spagnola e una premessa: dal s. XVI, l’operato della Spagna in America è stato oggetto di una violentissima campagna denigratoria chiamata Leggenda nera, il cui scopo apparente era/è la denuncia dei crimini commessi dai conquistatori spagnoli.
In realtà, la Leggenda servì (e continua a servire ancora oggi, in questo momento) a sottrarre il colonialismo alla sua dimensione planetaria, legata alla comparsa e al consolidamento del capitalismo (ve la immaginate, l’Europa di oggi, se non ci fosse stato il colonialismo?) e a gettarne tutte le responsabilità su un unico paese, la Spagna, che nel s. XVI era il più potente e al cui posto aspiravano le metropoli concorrenti: Olanda, Francia e Inghilterra in particolare. Potenze che, in seguito, ne presero effettivamente il posto, come “portatrici di civiltà”, compiendo crimini maggiori, più efferati e in tempi più vicini a noi.

Se facciamo un bilancio, oggi, dei crimini coloniali o neocoloniali commessi da Olanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Stati Uniti (e mettiamoci pure Israele), la Spagna spicca solo per una cosa: per essere stato il paese che si è posto più scrupoli, riflessi in un’imponente legislazione a favore delle popolazioni indigene e nella creazione, dal primo istante, di un meticciato senza uguali nel pianeta. Nessuna altra potenza coloniale espresse, nei secoli passati, uomini come Bartolomé de las Casas, in nessuno ci furono polemiche interne sulla legittimità della Conquista come ci furono in Spagna.
Pierre Vilar scrive: “E’ degno di nota, per una potenza coloniale, avere avuto un Las Casas e non averlo lasciato isolato e privo di influenza. La Escuela de Salamanca, con Melchor Cano, Domingo de Soto e Francisco de Vitoria, a metà del s. XVI, riuscì a spostare la discussione dal piano umanitario a quello giuridico del “diritto delle genti”. […] L’essenziale, di fatto, è distinguere tra una pratica brutale (ma non più brutale di qualsiasi altra colonizzazione) e una dottrina, che include una legislazione dalle intenzioni sommamente elevate, che sono peraltro costantemente mancate in colonizzazioni più moderne.”

Fare della Spagna lo “straw man” del colonialismo ha peraltro svolto, e continua a svolgere, un ruolo di rafforzamento delle “ragioni” del razzismo dei paesi “bianchi”, che sono alla base del loro discorso “civilizzatorio”. L’Africa, si sa, comincia con i Pirenei. Gli spagnoli erano diversi, impasto di mori ed ebrei, scuri e cattolici. Facile raffigurarli nella rappresentazione dell’Altro.
E arriviamo a oggi: è indubbio che buona parte della cultura ispanoamericana è di matrice spagnola. Dalla sua storia all’unità linguistica, fino ai suoi uomini più rappresentativi, a cominciare da José Martì. Per secoli, inoltre, la Spagna rimane fuori dal novero delle “potenze occidentali”, in una situazione economica e sociale che non è quella dei paesi dal capitalismo pienamente sviluppato. Gettare discredito sulla Spagna serve a gettarlo sulle radici culturali dell’Ispanoamerica e a creare il terreno per missioni “civilizzatorie” sempre nuove, costanti nel tempo. Ad affascinare quei gruppi sociali ispanoamericani avidi di “modernizzazione” e a ribadire la presunta superiorità di quei paesi che ancora oggi, per sostenere le loro politiche di rapine, hanno bisogno di vendere ai colonizzandi la narrazione della loro presunta superiorità, anche morale.

E quindi, no: non è un bello spettacolo, quello della furia antispagnola dei benintenzionati cittadini USA. Dovrebbero guardare in casa loro, per essere credibili. Suggerirei il monumento al Maine di New York, per esempio.

(Come fonti sto usando R. Fernandez Retamar, “Contra la Leyenda Negra”, e G. Bellini, “Spagna e Ispanoamerica, storia di una civiltà”.)


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domenica 26 giugno 2022

Il sindaco di Atene sgombera il centro per rifugiati modello di accoglienza –Dimitri Deliolanes

 

Nuovo tentativo del governo greco di spostare profughi e migranti lontano dai grandi centri urbani e in particolare da Atene. Questa volta l’iniziativa è stata lanciata al sindaco di Atene Kostas Bakoyannis, nipote del premier. Martedì Bakoyannis ha annunciato che l’unico campo di accoglienza del comune, quello in località Eleonas, nei dintorni della capitale, sarà smantellato e i circa 1.600 residenti saranno spostati altrove e tutto il personale di sostegno sarà licenziato. È molto probabile, quasi certo, che tutti i rifugiati saranno spostati lontano dai centri urbani in campi recintati, per vivere in condizioni di isolamento.

La decisione del sindaco è sicuramente da collegare alla complessiva politica punitiva verso i profughi adottata dal suo partito e dallo zio. Ma ci sono progetti di Bakoyannis stesso, poiché l’area di Eleonas sarà destinata all’edificazione del nuovo stadio del Panathinaikos, squadra che appartiene all’armatore Alafouzos, importante oligarca che controlla tv e giornali, vere corazzate della propaganda filogovernativa.

Eleonas è in funzione da sei anni, fondato da un sindaco socialista del Pasok. Sono indirizzate in questa struttura situazioni particolarmente delicate, con persone che hanno subito violenze, hanno infermità o soffrono di malattie croniche. Si trova a 400 metri dalla stazione della metro, permettendo così a tutti i ragazzi in età scolare di frequentare le scuole mentre parecchi adulti hanno trovato qualche sistemazione lavorativa.

L’annuncio dello smantellamento è arrivato martedì, portato dall’Iniziativa dei Lavoratori di Eleonas, il Comitato dei Profughi e dal Movimento contro il razzismo e la minaccia fascista (Keerfa). Ne è seguito un possente corteo lungo le strade del quartiere con cartelli in greco e inglese, bel accolto dagli abitanti della zona.

La grande mobilitazione non è rimasta senza risultati. Ieri mattina il bus arrivato per il trasporto dei primo 226 profughi è stato bloccato ed è andato via vuoto. Lo stesso hanno fatto altri cinque bus. Nel pomeriggio c’è stato un incontro dei rappresentati dei profughi con esponenti del comune e del famigerato ministero dell’Immigrazione. Il ministro Notis Mitarakis è il responsabile dei respingimenti sistematici denunciati dall’Onu e dall’Europa e dell’indecente comportamento delle autorità greche che brutalizzano e derubano i migranti.

I migranti hanno insistito sul fatto che Eleonas si è dimostrato un campo che ha fortemente favorito l’inserimento e l’integrazione dei rifugiati nella società ateniese. Hanno sottolineato il rischio che i minori interrompano il loro corso scolastico e gli adulti perdano il lavoro.
«Atene sta per diventare una città senza alcuna struttura di accoglienza per i profughi, visto che l’attuale governo ha interrotto anche il programma di ospitalità in appartamenti», ha commentato il coordinatore di Keerfa e consigliere comunale Petros Konstantinou. Il professore dell’Università di Atene Yorgos Tsiakalos ha definito la struttura di Eleonas «un esempio della civiltà e dell’ospitalità greca». Se Il comune, ha proseguito, «chiude il campo darà il segnale che la città è in balia di politiche che portano alla barbarie».

La mobilitazione di Eleonas getta luce anche su altri episodi. Tre giovani curdi che da sei anni frequentano il liceo greco con ottimi risultati rischiano di essere rispediti in Iraq poiché il famigerato ministero ha rifiutato la loro domanda di asilo. I cittadini del comune, il sindaco e i loro insegnanti si sono mobilitati testimoniando sulla perfetta integrazione e il grande impegno dei giovani nello studio. Lo stesso sta avvenendo al liceo di Samos dove Cisè Vafing, 19 anni, della Guinea Bissau, è arrivato tre anni fa come minore non accompagnato, ma ora non ha ottenuto asilo, anche se lavora e frequenta con costanza la scuola ed è perfettamente integrato nella società di Samos.

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L’alfabetizzazione al conflitto - Daniele Novara

Ci sono dei miti duri a morire. Quello della pace come bontà, come armonia, come volersi bene è uno dei più duri in assoluto. È un mito deleterio, perché sostanzialmente autodistruttivo, che contiene al suo interno un’impossibilità operativa che lo rende del tutto inutile sul piano pratico e storico.

L’educazione alla pace è un movimento che parte da lontano. Fin dagli inizi del XX secolo si hanno delle tracce,dei reperti documentari,[1] però sempre con questo fervore filantropico. L’educazione alla pace finiva con l’attenere al rafforzamento delle zone di luce dell’essere umano e quindi a tutto ciò che riguardava il miglioramento dei buoni sentimenti. L’analisi di Franco Fornari[2] forse lo psicanalista che a livello internazionale ha lavorato di più sui temi della pace recuperando la tradizione freudiana e kleiniana, ci ha permesso di evidenziare come questo tipo di posizione fosse fisiologicamente ingestibile, nel senso che conteneva in sé la sua sostanziale negazione. Negazione dettata dal fatto che è proprio sul terreno della bontà e dei buoni sentimenti che la cultura di guerra, o comunque le ragioni della violenza, si raccolgono maggiormente. 

Il guerriero, il mafioso, il terrorista, l’integralista religioso sono assolutamente convinti di aderire a una causa il cui scopo è la permanenza di quei valori che gli antagonisti stanno mettendo in discussione. Questi valori riguardano sostanzialmente il senso di appartenenza affettivo, ma possono anche essere valori subliminali di tipo ideologico, così com’è stato per alcuni terroristi, o in tante guerre di liberazione, e implicano un’adesione incondizionata e fortissima dell’individuo. Questi valori possono riguardare l’ambito della famiglia, della madre patria, del proprio gruppo, del proprio clan, della propria causa (nei gruppi di carattere ideologico). C’è comunque sempre un richiamo primario a una simbiosi e a una fusionalità gruppale di appartenenza che implica la disponibilità dell’individuo al sacrificio supremo, ovviamente anche al sacrificio di sé, pur di far trionfare i valori in cui crede.

Sono gli stessi valori che vengono predicati da chi fa dell’educazione alla pace un territorio di enfatizzazione dei buoni sentimenti. Il caso più eclatante è senz’altro quello della mafia, dove addirittura attività oggettivamente criminali vengono gestite come attività appartenenti al proprio clan e sotto la componente etico-valoriale della famiglia. Tante volte il termine “famiglia” sostituisce addirittura quello di mafia. Perciò combattere la mafia sul terreno dei buoni sentimenti è quantomeno ridicolo e grottesco.

Non si tratta soltanto di un adeguamento passivo e conformistico, così come ci avevano segnalato gli studi di Salomon Asch, di Stanley Milgram, e poi le riflessioni puntuali della filosofa ebraica Hanna Arendt, ma proprio di una motivazione psichica che si legittima sulla base di un fortissimo senso di appartenenza, anche etica e di sangue, che non solo consente, ma addirittura enfatizza nell’individuo la disponibilità a creare, come dice Fornari, una cultura paranoica dell’altro, come se fosse l’altro la causa di ogni male.

È difficile, in interviste a militari o comunque a individui impegnati in azioni non soltanto belliche, ma violente in generale (si pensi ad esempio ai tifosi ultras), non notare come le loro azioni abbiano un richiamo preciso a delle componenti più grandi, a delle finalità ideali, a dei sentimenti che vanno al di là del particolare o a una presunta malvagità personale.

Fu questo il quadro in cui iniziò a delinearsi, ai primi degli anni Ottanta, un’azione di educazione alla pace che doveva per forza fare i conti con questi retaggi e anche costruirsi un nuovo modo di intervenire. Il quadro era piuttosto desolante. Permanevano impostazioni pedagogiche fondate sull’idea dello “star buoni”, dell’implementare la bontà nei bambini cattivi, dell’enfatizzare tutto ciò che richiamasse alla tranquillità, all’armonia,al benessere assoluto, a una dimensione di fraternità totale. Su questo leitmotif si registravano a livello scolastico le programmazioni didattico-educative più incredibili, con delle digressioni che poi ovviamente non potevano che scivolare su toni soporiferi senza alcuna attinenza con la realtà. In Italia ancora oggi succede di trovare mostre sulla pace piene di poesiole e filastrocche ricche di tutti i buoni sentimenti che qualsiasi terrorista o mafioso potrebbe sottoscrivere senza problemi.

Le prescrizioni impossibili

Tale tipo di distorsione della realtà produce, sul piano strettamente educativo, delle difficoltà relazionali e gestionali facili a immaginarsi. Possiamo definire queste difficoltà col termine di prescrizioni impossibili, ossia porsi obiettivi che da un punto di vista della realtà risultano assolutamente incompatibili. Si tratta di strategie di gestione dei problemi basate sulla banalizzazione la cui logica è sostanzialmente la seguente: “il problema verrà risolto quando non ci sarà più il problema”.

Da un punto di vista strettamente logico questo è una sorta di tautologia, ma sotto il profilo di gestione dei problemi nella realtà, purtroppo questa strategia ha ancora un fortissimo impatto[3].

Lo registriamo anche a livello educativo. È diffusa per esempio l’idea che i litigi fra i bambini scompariranno quando i bambini smetteranno di litigare, oppure quando tutti si vorranno bene, o quando anche i più agitati saranno tranquilli, i disturbatori non disturberanno più, i timidi parleranno, e via di seguito, in una lunga serie di autoprescrizioni di tipo formativo che sono, se non in casi eccezionali, di impossibile raggiungimento. Purtroppo spesso queste prescrizioni diventano anche obiettivi didattici. Nell’ambito dei temi che stiamo trattando troviamo programmazioni educative in cui fra gli obiettivi viene incluso quello di evitare litigi fra i bambini.

A partire da questo esempio possiamo fare una serie di considerazioni che ruotano attorno alla inevitabilità di certi fenomeni, comportamenti e situazioni.

Esiste una mitologia percettiva legata alla pace come armonia che non consente di affrontare le situazioni di perturbazione, di conflittualità, di aggressività e di tutto quello che succede nel momento in cui la divergenza entra a far parte della relazione interpersonale.

Le prescrizioni impossibili generano ansia, in quanto irraggiungibili. Producono uno stato di tensione permanente, di insoddisfazione, uno stato talvolta di frustrazione.

Certi fenomeni sono fisiologici: componenti di ordine e di disordine appaiono imprescindibili; il problema è come affrontarli, con che spirito, con che atteggiamento.

È necessaria una decontrazione emotiva, accettando la dimensione di perturbazione come componente essenziale e normale della relazione stessa. 

Aggiornare le mappe: la pace è conflitto

Si arriva pertanto alla necessità di affrontare la questione della pace sotto un profilo completamente diverso rispetto a quella che è stata finora la cultura del buon senso.

Se la pace è stata considerata antitetica rispetto al conflitto, e il conflitto visto come guerra, come devastazione, come combattimento armato (sono queste sostanzialmente le definizioni che compaiono su tutti i dizionari) un nuovo modo per affrontare le possibilità di una pace che sa essere qualcosa di concreto e operativo, è sottoporre sotto il profilo epistemologico il termine e la concezione stessa di pace a una ristrutturazione semantica, culturale e psichica.

Recentemente si è sviluppato un filone di ricerca, specialmente in ambito educativo, che considera la pace coerente con il conflitto. La pace è conflitto, in quanto permette di mantenere la relazione anche nella divergenza.

In quest’ottica la guerra spesso assume le sembianze di un tentativo paradossale e ossessivo di ristabilire la pace intesa come un elemento di aconflittualità, di ordine e di assenza di divergenze, contrasti e diversità. Questo lo abbiamo registrato con molta enfasi e anche con molta ripugnanza nell’ambito di quelle che oggi si definiscono “guerre etniche”, che appaiono come un tentativo psicotico di ristabilire un ordine che passa attraverso l’eliminazione totale della perturbazione che l’altro procura con la sua presenza.

L’educazione alla pace tenta di proporre un’idea di pace come conflitto, e quindi una nuova mappa per attraversare questi territori. Una mappa che abbia questo orientamento: assumere il conflitto come un elemento generativo.

In questo tipo di lavoro emerge la difficoltà nel decentrarsi, nel capire le ragioni altrui, nell’accettare la divergenza. Sta in questo la sfida dell’educazione alla pacenel creare le condizioni affinché il rapporto possa alimentarsi non solo nella simpatia ma anche nella discordanza e nella diversità.

È una sfida enorme ma imprescindibile all’interno di una società che diventa sempre più densa di complessità etniche e sociali, in cui i cambiamenti sono molto rapidi.

L’educazione alla pace non significa altro che un processo di apprendimento di un’arte della convivenza più raffinata della semplice tolleranza, del semplice controllo della diversità.

Un’arte della convivenza che diventa un addestramento continuo, incessante, una vera e propria alfabetizzazione che ci porti ad acquisire la capacità di stare dentro il conflitto e la diversità come un momento di crescita, e non più come un fattore di paura o di minaccia.


Articolo di Daniele Novara, pedagogista e direttore CPP.


Note

1 Vedi M. C. Giuntella, “I bambini eroi di pace”, in AA. VV., Il bambino nella storia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993

2 Vedi F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1979; Psicoanalisi e cultura di pace (antologia di scritti a cura di G. Maglerini), Edizioni Cultura Pace, Firenze 1992

3 Vedi Paul Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, Milano 1997; Change, Astrolabio, Roma 1976, ed altri testi dello stesso autore.

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sabato 25 giugno 2022

Proiettili e giornali che fanno male - Alessandro Ghebreigziabiher

 

Un mese e dieci giorni dopo l’ennesimo, ancora impunito, omicidio di una giornalista, vorrei parlare di giornali e più che mai di proiettili.
Di proiettili che uccidono, ma quando è il dolore di chi resta a essere ancora caldo, più che 
il corpo di chi scompare, risulta quasi inutile puntare il dito sul più probabile degli assassini.
Malgrado sia lì a un passo, unico ad aver potuto colpire a morte l’innocente con tale precisione e altrettanta paura. Perché per molti a questo mondo non c’è nulla di più temuto di un’anima onesta dotata di particolare coraggio.
Nondimeno, a distanza di quasi quaranta giorni e altrettante notti di tale torrida anticamera di un’imminente estate, vorrei parlarvi soprattutto di altri, apparentemente invisibili proiettili.
proiettili dei colpevoli, che continuano a sparare imperterriti e a far male, lì dove ancora duole e così sarà per sempre, nel negare l’evidenza di un crimine che va ben oltre il singolo colpo di fucile.
proiettili di coloro che sono testimoni oculari, che sia l’occhio o la stessa coscienza a ritrovarsi nudo di fronte al ripetuto delitto, ma sebbene abbiano il dovere di raccontarlo al mondo senza addolcir parole o attenuar colori, si permettono addirittura di farsi megafono della menzogna, del travisamento, o perfino della perversione di un cerchiobottismo da cui non smetto mai di restare inorridito. Al punto da riuscire a mettere sullo stesso piano il vivo con la pistola fumante in mano  e il cadavere dell’ucciso.
Eppure alcuni si chiamano giornalinotiziarisettimanali quotidiani, in breve stampa, altrettanto in sintesi, il nulla.
Perché a forza di silenziare la verità che infastidisce il finanziatore di turno, se oramai sei finito per prender soldi da chiunque te ne offra, cosa ti resta da pubblicare se non un grosso zero ripieno di banalità e luoghi comuni?
Ma poi devi stare attento ai proiettili di governanti e politicanti amici, di quelli complici alla luce del sole o tali a busta chiusa, di simpatizzanti con interessi strategici o i sempre comuni alleati non richiesti. Perché non sai mai cosa ti riservi il futuro o anche solo la prossima guerra, ecco.
E come non parlare di tutti gli altri proiettili, che uccidono o altrettanto dilaniano il corpo e tutto il resto, che sia tangibile o meno, e che occupano incessantemente l’intero palco. Allora per settimane intere di quel mese e dieci giorni, innanzi allo spettacolo dell’omicidio in prima pagina, non puoi fare a meno di dispiacerti per mogli e figli trucidati in modo folle e insensato, come di intere popolazioni decimate in modo lucido e ragionato.
Nondimeno, se è davvero il crudele sacrificio di vite senza colpa a essere in cima ai vostri pensieri, perché operate una scelta tra un martirio e l’altro?
Come ci riuscite?
E quando avete terminato tale iniquamente parziale compito, come fate a tornare a casa e dormire sereni?
Sono forse io a non aver ancora compreso appieno, nonostante l’età, il senso del mestiere di cronista di fatti e attualità?
In altre parole, le meno equivocabili, perché dall’undici maggio a oggi c’è bisogno che lo dica anche il 
New York Times per ammettere che i soldati israeliani hanno ucciso una giornalista palestinese mentre cercava di fare il suo dovere in Cisgiordania?
Non fate lo stesso lavoro?

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Prima di liberare l’Ucraina, dobbiamo innanzitutto liberare la nostra mente - Jonathan Cook

 

Prima di passare a un quadro più ampio consideriamo gli sviluppi in Israele, poiché il suo governo “storico”, in carica da un anno, che includeva per la prima volta un partito che rappresenta una parte della minoranza israeliana di cittadini palestinesi, sta vacillando.

La crisi è scoppiata, come tutti si aspettavano prima o poi sarebbe successo, perché il parlamento israeliano ha dovuto votare su una questione importante relativa all’occupazione: rinnovare una legge provvisoria che per decenni ha regolarmente esteso l’ordinamento giuridico israeliano al di fuori del suo territorio, applicandolo ai coloni ebrei che vivono su terreni palestinesi rubati in Cisgiordania.

Quella legge è al centro di un sistema politico israeliano che i principali gruppi mondiali per i diritti umani, sia in Israele che all’estero, riconoscono ora tardivamente come un regime di Apartheid. La legge garantisce che i coloni ebrei che vivono in Cisgiordania in violazione del diritto internazionale ricevano diritti diversi e di gran lunga superiori a quelli dei palestinesi che sono governati dalle autorità militari di occupazione israeliane.

La legge sancisce il principio della disuguaglianza in stile leggi di Jim Crow, creando due diversi sistemi giuridici in Cisgiordania: uno per i coloni ebrei e un altro per i palestinesi. Ma fa di più. Quei diritti superiori, e la loro applicazione da parte dell’esercito israeliano, hanno consentito per decenni ai coloni ebrei di scatenarsi contro le comunità rurali palestinesi nell’assoluta impunità e di rubare le loro terre, al punto che i palestinesi sono ora confinati in minuscoli frammenti segregati della loro stessa Patria.

Nel diritto internazionale, quel processo è chiamato “trasferimento forzato”, o ciò che potremmo definire pulizia etnica. È uno dei motivi principali per cui gli insediamenti sono un crimine di guerra, un fatto che la Corte Penale Internazionale dell’Aia sta trovando molto difficile da ignorare. I principali politici e generali israeliani sarebbero tutti processati per crimini di guerra se vivessimo in un mondo giusto e sensato.

Allora cosa è successo quando questa legge è stata presentata al parlamento per una votazione sul suo rinnovo? Il governo “storico”, presumibilmente una coalizione variopinta di partiti ebrei di sinistra e di destra uniti da un partito palestinese religiosamente conservatore, si è diviso su posizioni etniche del tutto prevedibili.

I membri del partito palestinese hanno votato contro la legge o si sono astenuti. Tutti i partiti ebrei al governo hanno votato a favore. La legge non è passata, e il governo è ora in difficoltà, perché il partito di destra Likud dell’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è unito ai partiti palestinesi nel votare contro la legge, nella speranza di far cadere il governo, anche se i suoi legislatori sono completamente coinvolti nel sistema di Apartheid che sostiene.

Sostenere l’apartheid

La cosa più significativa del voto è che ha rivelato qualcosa di molto più brutto sul tribalismo ebraico di Israele di quanto la maggior parte degli occidentali apprezzi. Mostra che tutti i partiti ebraici di Israele, anche quelli “moderati” che sono definiti di sinistra o liberali, sono essenzialmente razzisti.

La maggior parte degli occidentali ritiene che il sionismo sia diviso in due grandi campi: il campo di destra, inclusa l’estrema destra, e il campo di sinistra liberale.

Oggi questo cosiddetto campo di sinistra liberale è minuscolo e rappresentato dal Partito Laburista israeliano e Meretz. Il Partito Laburista israeliano è considerato così rispettabile che il leader Laburista britannico, Sir Keir Starmer, ha celebrato pubblicamente il recente riallaccio dei rapporti interrotti tempo prima dal partito israeliano durante il mandato del predecessore di Starmer, Jeremy Corbyn.

Da notare che i partiti Laburista e Meretz non solo sono stati per un anno in un governo guidato da Naftali Bennett, il cui partito rappresenta gli insediamenti illegali, ma hanno anche appena votato per la stessa legge sull’Apartheid che garantisce ai coloni diritti superiori sui palestinesi, compreso il diritto di ripulire etnicamente i palestinesi dalla loro terra.

Nel caso del Partito Laburista israeliano, non c’è da sorprendersi. I laburisti fondarono i primi insediamenti e, a parte un breve periodo alla fine degli anni ’90 in cui hanno reso omaggio a un processo di pace, hanno sempre sostenuto fino in fondo il sistema di Apartheid che ha consentito agli insediamenti di espandersi. Niente di tutto ciò ha mai turbato il Partito Laburista britannico, a parte quando era guidato da Corbyn, un autentico antirazzista.

Ma a differenza dei laburisti, Meretz è un partito dichiaratamente contro l’occupazione. Questo è stato il vero motivo per cui fu fondato all’inizio degli anni ’90. L’opposizione all’occupazione e agli insediamenti è presumibilmente radicata nel suo DNA. Allora perché ha votato a favore della legge sull’Apartheid che sta alla base degli insediamenti?

Ipocrisia assoluta

Gli ingenui, o i maliziosi, diranno che Meretz non aveva scelta perché l’alternativa era che il governo di Bennett perdesse il voto, cosa che in realtà è accaduta comunque, riaccendendo le possibilità che Netanyahu torni al potere. Meretz aveva presumibilmente le mani legate.

Questo argomento, di vera necessità, è quello che sentiamo spesso quando i gruppi che affermano di credere in una cosa agiscono in modi che danneggiano proprio ciò che dicono di avere a cuore.

Ma il giornalista israeliano Gideon Levy fa un’analisi molto significativa che si applica ben oltre questo particolare caso israeliano.

Osserva che Meretz non avrebbe mai votato per la legge sull’Apartheid, qualunque fossero state le conseguenze, se la questione fosse stata la violazione dei diritti della comunità LGBTQ di Israele piuttosto che la violazione dei diritti dei palestinesi. Meretz, il cui leader è gay, pone i diritti LGBTQ in cima al suo programma.

Levy scrive: “Due sistemi giudiziari nello stesso territorio, uno per gli etero e l’altro per i gay? C’è qualche circostanza in cui ciò accadrebbe? Un solo schieramento politico che potrebbe realizzarlo?”

Lo stesso si potrebbe dire dei laburisti, anche se crediamo, come sembra fare Starmer, che si tratti di un partito di sinistra. La sua leader, Merav Michaeli, è un’ardente femminista.

I laburisti, scrive Levy, “voterebbero mai per una legge sull’Apartheid contro le donne israeliane in Cisgiordania? Due sistemi giuridici separati, uno per gli uomini e l’altro per le donne? Mai. Assolutamente no”.

Il ragionamento di Levy è che anche per la cosiddetta sinistra sionista, i palestinesi sono intrinsecamente inferiori in virtù del fatto che sono palestinesi. La comunità gay palestinese e le donne palestinesi sono altrettanto colpite dalla legge israeliana sull’Apartheid che favorisce i coloni ebrei quanto gli uomini palestinesi. Quindi, votando a favore, Meretz e i laburisti hanno dimostrato che non si preoccupano dei diritti delle donne palestinesi o dei membri della comunità LGBTQ palestinese. Il loro sostegno alle donne e alla comunità gay dipende dall’etnia di coloro che appartengono a questi gruppi.

Non dovrebbe essere necessario sottolineare quanto una tale distinzione per motivi razziali sia vicina alle opinioni sposate dai tradizionali sostenitori delle leggi di Jim Crow negli Stati Uniti o dai sostenitori dell’Apartheid in Sud Africa.

Quindi cosa rende Meretz e i legislatori laburisti capaci non solo di una totale ipocrisia, ma di un razzismo così palese? La risposta è il sionismo.

Il sionismo è una forma di tribalismo ideologico che dà priorità al privilegio ebraico nel campo giuridico, militare e politico. Per quanto ci si possa considerare di sinistra, se si aderisce al sionismo, significa considerare il proprio tribalismo etnico estremamente importante, e solo per questo motivo si è razzisti.

Si può non essere consapevoli del proprio razzismo, si potrebbe non voler essere razzisti, ma intrinsecamente lo si è. Alla fine, quando arriva il momento cruciale, quando si percepisce che il proprio tribalismo ebraico è minacciato da un altro tribalismo, l’istinto di conservazione emergerà. Il razzismo verrà fuori, proprio come quello di Meretz.

Solidarietà ingannevole

Ma naturalmente, non c’è nulla di eccezionale nella maggior parte degli ebrei israeliani o nei sostenitori sionisti di Israele all’estero, ebrei o meno. Il tribalismo è endemico nel modo in cui la maggior parte di noi vede il mondo ed emerge rapidamente ogni volta che percepiamo che la nostra tribù è in pericolo.

La maggior parte di noi può diventare rapidamente un tribalista estremista. Quando il tribalismo si riferisce a questioni più banali, come sostenere una squadra sportiva, si manifesta principalmente in forme meno pericolose, come comportamenti incivili o aggressivi. Ma se si riferisce a un gruppo etnico o nazionale, incoraggia una serie di comportamenti più pericolosi: nazionalismo esasperato, razzismo, discriminazione, segregazione e bellicismo.

Per quanto Meretz sia sensibile alle proprie identità tribali, sia quella ebraica che una solidale con la comunità LGBTQ, la sua sensibilità alle preoccupazioni tribali degli altri può rapidamente dissolversi quando l’altra identità viene presentata come una minaccia. Ecco perché Meretz, nel dare priorità alla sua identità ebraica, manca di qualsiasi solidarietà significativa con i palestinesi o anche con la comunità LGBTQ palestinese.

Invece, l’opposizione di Meretz all’occupazione e agli insediamenti appare spesso più radicata nel sentimento che gli insediamenti non siano dannosi per Israele e le sue relazioni con l’Occidente e che non che siano un crimine contro i palestinesi.

Questa incoerenza significa che possiamo facilmente essere ingannati su chi sono i nostri veri alleati. Solo perché condividiamo l’impegno per una cosa, come porre fine all’occupazione, non significa necessariamente che lo facciamo per le stesse ragioni, o attribuiamo la stessa importanza al nostro impegno.

È facile, ad esempio, per gli attivisti della solidarietà palestinese meno esperti presumere, quando sentono parlare i politici di Meretz, che il partito aiuterà a portare avanti la causa palestinese. Ma non riuscire a capire le priorità tribali di Meretz è una ricetta per una costante delusione e un futile attivismo a favore dei palestinesi.

Il processo di “pace” di Oslo è rimasto credibile in Occidente per così tanto tempo solo perché gli occidentali hanno frainteso il modo in cui si adattava alle priorità tribali degli israeliani. La maggior parte era pronta a sostenere la pace in astratto purché non comportasse alcuna perdita pratica dei loro privilegi tribali.

Yitzhak Rabin, il partner israeliano occidentale nel processo di Oslo, ha mostrato cosa comportasse tale tribalismo sulla scia di una furia armata da parte di un colono, Baruch Goldstein, nel 1994 che uccise e ferì più di 100 palestinesi durante la preghiera all’interno della Moschea Ibrahimi nella città palestinese di Hebron.

Piuttosto che usare la carneficina come giustificazione per attuare il suo impegno di rimuovere le piccole colonie di coloni estremisti da Hebron, Rabin ha imposto ai palestinesi di Hebron il coprifuoco per molti mesi. Tali restrizioni non sono mai state completamente revocate per molti palestinesi di Hebron e da allora hanno consentito ai coloni ebrei di espandere le loro colonie.

Gerarchia dei tribalismi

C’è un altro punto che va sottolineato e che il caso israelo-palestinese illustra alla perfezione. Non tutti i tribalismi sono uguali o ugualmente pericolosi. Anche i palestinesi sono perfettamente capaci di essere tribali. Basta guardare l’atteggiamento ipocrita di alcuni alti dirigenti di Hamas, per esempio.

Ma qualunque siano le illusioni condivise dai sionisti, il tribalismo palestinese è chiaramente molto meno pericoloso per Israele di quanto lo sia il tribalismo ebraico per i palestinesi.

Israele, lo Stato che rappresenta i tribalisti ebrei, ha il sostegno di tutti i governi occidentali e dei principali media, così come della maggior parte dei governi arabi, e per lo meno la complicità delle istituzioni globali. Israele ha un esercito, una marina e un’aviazione, che possono fare affidamento sulle armi più moderne e potenti, a sua volta pesantemente sovvenzionato dagli Stati Uniti Israele gode anche di uno status commerciale speciale con l’Occidente, il che ha reso la sua economia una delle più forti del globo.

L’idea che gli ebrei israeliani abbiano una ragione maggiore per temere i palestinesi (o, in un’ulteriore illusione, il mondo arabo) di quanti ne abbiano i palestinesi per temere Israele, è facilmente confutabile. Considerate semplicemente quanti ebrei israeliani vorrebbero scambiarsi di posto con un palestinese, a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est o con la  minoranza palestinese che vive all’interno di Israele.

La lezione è che esiste una gerarchia di tribalismi e che un tribalismo è più pericoloso se gode di più potere. I tribalismi potenziati hanno la capacità di causare danni molto maggiori rispetto ai tribalismi privi di potere. Non tutti i tribalismi sono ugualmente distruttivi.

Ma c’è un punto più significativo. Un tribalismo potenziato provoca necessariamente, accentua e approfondisce un tribalismo privo di potere. I sionisti spesso affermano che i palestinesi sono un popolo inventato o immaginario perché non si sono identificati come palestinesi fino a dopo la creazione dello Stato di Israele. L’ex Primo Ministro israeliano Golda Meir ha notoriamente suggerito che i palestinesi fossero un popolo inventato.

Questa era, ovviamente, una sciocchezza opportunistica. Ma ha un fondo di verità che la fa sembrare plausibile. L’identità palestinese si è chiarita e si è rafforzata a seguito della minaccia rappresentata dagli immigrati ebrei in arrivo dall’Europa, che rivendicano la Patria Palestinese come propria.

Come si suol dire, non sempre si apprezza pienamente ciò che si ha finché non lo si perde. I palestinesi hanno dovuto affinare la loro identità nazionale e le loro ambizioni nazionali, di fronte alla minaccia che qualcun altro stesse rivendicando ciò che avevano sempre creduto gli appartenesse.

Valori superiori

In che modo tutto questo ci aiuta a comprendere il nostro tribalismo in Occidente?

Non da ultimo, quali che siano le ansie incoraggiate in Occidente per la presunta minaccia rappresentata da Russia e Cina, la realtà è che il tribalismo occidentale, a volte definito “civiltà occidentale”, o “ordine basato sulle regole”, o “mondo democratico” o, ancora più ridicolmente, “comunità internazionale”, è di gran lunga il più potente di tutti i tribalismi del pianeta. E quindi anche il più pericoloso.

Il potere tribale di Israele, ad esempio, deriva quasi esclusivamente dal potere tribale dell’Occidente. È un coadiuvante, un’estensione, del potere tribale occidentale.

Ma dobbiamo essere un po’ più specifici nel nostro modo di pensare. Noi sottoscriviamo il tribalismo occidentale, consapevolmente o meno, a seconda che ci consideriamo a destra o a sinistra dello spettro politico, perché è stato coltivato in noi nel corso della vita attraverso i genitori, le scuole e i media istituzionali.

Pensiamo che l’Occidente sia il migliore. Nessuno di noi vorrebbe essere russo o cinese, non più di quanto gli ebrei israeliani sceglierebbero di essere palestinesi. Comprendiamo implicitamente che abbiamo privilegi sulle altre tribù. E poiché siamo tribali, presumiamo che quei privilegi siano in qualche modo giustificati. Derivano o dalla nostra intrinseca superiorità (un punto di vista spesso associato all’estrema destra) o da una cultura o tradizioni superiori (un punto di vista che di solito abbraccia la destra moderata, i liberali e parti della sinistra).

Ancora una volta, questo fa eco alle opinioni sioniste. Gli ebrei israeliani di destra tendono a credere di avere qualità intrinsecamente superiori ai palestinesi e agli arabi, che sono visti come terroristi radicali, arretrati o barbari. Sovrapponendosi a questi presupposti, gli ebrei religiosi-sionisti tendono a pensare di essere superiori perché hanno l’unico vero Dio dalla loro parte.

Al contrario, la maggior parte degli ebrei laici di sinistra, come i liberali di Meretz, credono che la loro superiorità derivi da una vaga concezione della “cultura” o civiltà occidentale che ha favorito in loro una maggiore capacità di mostrare tolleranza e compassione, e di agire razionalmente, rispetto alla maggior parte dei palestinesi.

Meretz vorrebbe estendere quella cultura ai palestinesi per aiutarli a beneficiare delle stesse influenze civilizzatrici. Ma finché ciò non accadrà, loro, come la destra sionista, vedono i palestinesi principalmente come una minaccia.

Visto in termini semplici, Meretz crede che non possano facilmente conferire potere alla comunità LGBTQ palestinese, per quanto lo desiderino, senza anche conferire potere ad Hamas. E non vogliono farlo perché un Hamas potenziato, temono, non minaccerebbe solo la comunità LGBTQ palestinese ma anche quella israeliana.

Quindi, per liberare i palestinesi da decenni di occupazione militare israeliana e pulizia etnica dovrà solo aspettare un momento più opportuno, indipendentemente da quanto tempo possa richiedere e per quanto molti palestinesi debbano soffrire nel frattempo.

Nuovi Hitler

I parallelismi con la nostra visione del mondo occidentale non dovrebbero essere difficili da percepire.

Comprendiamo che il nostro tribalismo, la nostra priorità dei nostri privilegi in Occidente, comporta sofferenza per gli altri. Ma noi diamo per scontato che siamo più meritevoli di altre tribù, o diamo per scontato che gli altri, per diventare meritevoli, debbano prima essere portati al nostro livello attraverso l’istruzione e altre influenze civilizzatrici. Dovranno solo soffrire nel frattempo.

Quando leggiamo la visione del mondo del “fardello dell’uomo bianco” nei libri di storia, comprendiamo, con il beneficio della distanza da quei tempi, quanto fosse brutto il colonialismo occidentale. Quando viene suggerito che potremmo ancora nutrire questo tipo di tribalismo, ci irritiamo o, più probabilmente, ci indigniamo. “Razzista, io? Ridicolo!”

Inoltre, la nostra cecità nei confronti del nostro tribalismo occidentale super-potenziato ci rende anche ignari dell’effetto che il nostro tribalismo ha sui tribalismi meno potenti. Ci immaginiamo costantemente minacciati da qualsiasi altro gruppo tribale che affermi il proprio tribalismo di fronte al nostro più potente tribalismo.

Alcune di queste minacce possono essere più ideologiche e amorfe, soprattutto negli ultimi anni: come il presunto “scontro di civiltà” contro l’estremismo islamista di al-Qaeda e dello Stato Islamico.

Ma i nostri migliori nemici hanno un volto, e fin troppo facilmente possono essere presentati come un improbabile sostituto del nostro modello dell’uomo nero: Adolf Hitler.

Quei nuovi Hitler spuntano uno dopo l’altro, come in un videogioco che non riusciamo mai a vincere.

Saddam Hussein in Iraq, presumibilmente pronto a sparare le armi di distruzione di massa che in realtà non aveva contro di noi in meno di 45 minuti.

I pazzi ayatollah dell’Iran e i loro burattini politici, che cercano di costruire una bomba nucleare per distruggere il nostro avamposto, Israele, prima di rivolgere presumibilmente le loro testate contro l’Europa e gli Stati Uniti.

E poi c’è il mostro più grande e più cattivo di tutti: Vladimir Putin. La mente che minaccia il nostro modo di vivere, i nostri valori o la civiltà con i suoi giochi mentali, la disinformazione e il controllo dei social media attraverso un esercito di Bot.

Minacce esistenziali

Poiché siamo ciechi al nostro stesso tribalismo come Meretz lo è al suo razzismo nei confronti dei palestinesi, non riusciamo a capire perché qualcun altro possa temerci più di quanto noi temiamo loro. La nostra civiltà “superiore” ha coltivato in noi un egocentrismo, un narcisismo, che rifiuta di riconoscere la nostra presenza minacciosa nel mondo.

I russi non potrebbero mai rispondere a una minaccia, reale o immaginaria, che potremmo rappresentare espandendo la nostra presenza militare fino ai confini della Russia.

I russi non potrebbero mai vedere la nostra alleanza militare della NATO principalmente come aggressiva piuttosto che difensiva, come affermiamo, anche se da qualche parte in un piccolo e oscuro meandro mentale in cui le cose che ci mettono a disagio vengono spinte, sappiamo che gli eserciti occidentali hanno lanciato una serie di guerre dirette di aggressione contro Paesi come l’Iraq e l’Afghanistan, e per procura in Siria, Yemen, Iran e Venezuela.

I russi non avrebbero mai potuto temere sinceramente i gruppi neonazisti in Ucraina, gruppi che fino a poco tempo fa i media occidentali temevano potessero salire al potere, anche dopo che quei neonazisti furono integrati nell’esercito ucraino e guidarono quella che equivale a una guerra civile contro le comunità etniche russe nell’Est del Paese.

A nostro avviso, quando Putin ha parlato della necessità di de-nazificare l’Ucraina, non stava amplificando i giustificati timori dei russi nei confronti del nazismo alle loro porte, data la loro storia, o la minaccia che quei gruppi rappresentano sinceramente per le comunità etniche russe vicine. No, stava semplicemente dimostrando che lui e la probabile maggioranza dei russi che la pensano come lui sono pazzi.

Inoltre, la sua esagerazione ci ha dato il permesso di portare alla luce il nostro armamento segreto di questi gruppi neonazisti. Ora abbracciamo questi neonazisti, come facciamo con il resto dell’Ucraina, e inviamo loro armi avanzate ed equipaggiamenti per un valore di molti miliardi di dollari.

E mentre lo facciamo, rimproveriamo ipocritamente Putin per essere un pazzo e per la sua disinformazione. È pazzo o bugiardo per averci visto come una minaccia esistenziale per la Russia, mentre siamo del tutto giustificati nel vederlo come una minaccia esistenziale per la civiltà occidentale.

E così continuiamo a nutrire il diavolo chimerico che temiamo. E per quanto spesso le nostre paure vengano smascherate come auto-razionalizzanti, non impariamo mai.

Saddam Hussein rappresentava una minaccia esistenziale. Le sue armi di distruzione di massa inesistenti sarebbero state collocate nei suoi missili a lungo raggio inesistenti per distruggerci. Quindi avevamo tutto il diritto di distruggere l’Iraq per primi, preventivamente. Ma quando quelle armi di distruzione di massa si sono rivelate inesistenti, di chi era la colpa? Non nostra, ovviamente. Era di Saddam Hussein. Non ci ha detto che non aveva armi di distruzione di massa. Come avremmo potuto saperlo? Dal nostro punto di vista, l’Iraq finì per essere distrutto perché Saddam era un uomo forte che credeva alla propria propaganda, un arabo primitivo caduto nella sua stessa trappola.

Se ci fermassimo per un momento e ci trovassimo al di fuori del nostro tribalismo, potremmo renderci conto di quanto sembriamo pericolosamente narcisisti, di quanto pazzi sembriamo. Saddam Hussein non ci ha detto che non aveva armi di distruzione di massa, che le aveva segretamente distrutte molti anni prima, perché temeva noi e il nostro desiderio incontrollabile di dominare il globo. Temeva che, se avessimo saputo che gli mancavano quelle armi, avremmo potuto essere più incentivati ​​ad attaccare lui e l’Iraq, direttamente o indirettamente, per procura. Siamo stati noi a intrappolarlo nella sua stessa bugia.

E poi c’è l’Iran. La nostra simulata furia contro i pazzi ayatollah, le nostre sanzioni economiche, le esecuzioni nostre e israeliane degli scienziati iraniani, le nostre continue chiacchiere sull’invasione, hanno lo scopo di impedire a Teheran di acquisire un’arma nucleare che potrebbe finalmente pareggiare il campo di gioco del Medio Oriente con Israele, che abbiamo aiutato a sviluppare un grande arsenale nucleare decenni fa.

L’Iran deve essere fermato in modo che non possa distruggere Israele e poi noi. I nostri timori per la minaccia nucleare iraniana sono di primaria importanza. Dobbiamo colpire, direttamente o indirettamente, i suoi alleati in Libano, Yemen, Siria e Gaza. Tutta la nostra politica mediorientale deve essere modellata attorno allo sforzo di impedire all’Iran di ottenere la bomba.

Nella nostra follia, non possiamo immaginare le paure degli iraniani, la loro realistica sensazione che rappresentiamo per loro una minaccia molto più grave di quella che potrebbero mai rappresentare per noi. Date le circostanze, per gli iraniani, un’arma nucleare potrebbe sicuramente sembrare una polizza assicurativa molto saggia, un deterrente, contro la nostra sconfinata ipocrisia.

Circolo vizioso

Poiché siamo la tribù più forte del pianeta, siamo anche la più illusa, la più indottrinata e anche la più pericolosa. Creiamo la realtà a cui pensiamo di opporci. Generiamo i demoni che temiamo. Forziamo i nostri rivali nel ruolo dell’uomo nero che ci fa sentire bene con noi stessi.

In Israele, Meretz immagina di opporsi all’occupazione. Eppure continua a cospirare in azioni, presumibilmente per aiutare la sicurezza di Israele, come la legge sull’Apartheid, che giustamente fa temere ai palestinesi per la loro esistenza e credere di non avere alleati ebrei in Israele. Messi all’angolo, i palestinesi resistono, o in modo organizzato, come durante le loro rivolte dell’Intifada, o attraverso inefficaci attacchi da “lupo solitario” da parte di singoli individui.

Ma il tribalismo sionista di Meretz, per quanto liberali, umani e premurosi possano essere, significa che possono percepire solo le proprie ansie esistenziali; non possono vedersi come una minaccia per gli altri o cogliere le paure che loro e gli altri sionisti provocano nei palestinesi. Quindi i palestinesi devono essere liquidati come fondamentalisti religiosi, o primitivi, o barbari-terroristi.

Questo tipo di tribalismo produce un circolo vizioso, per noi, come per Israele. I nostri comportamenti basati sul presupposto della superiorità, la nostra avidità e aggressività, significano che inevitabilmente approfondiamo i tribalismi degli altri e provochiamo la loro resistenza. Il che a sua volta razionalizza la nostra convinzione che dobbiamo agire in modo ancora più tribale, ancora più egoista, ancora più aggressivo.

Guerra di propaganda

Ognuno di noi ha più di un’identità tribale, ovviamente. Non siamo solo inglesi, francesi, americani, brasiliani. Siamo neri, asiatici, ispanici, bianchi. Siamo etero, gay, trans o qualcosa di ancora più complesso. Siamo conservatori, liberali, di sinistra. Possiamo sostenere una squadra o avere una fede.

Queste identità tribali possono entrare in conflitto e interagire in modi complessi. Come mostra Meretz, un’identità può emergere e passare in secondo piano, a seconda delle circostanze e della percezione della minaccia.

Ma forse la cosa più importante di tutte, alcuni tribalismi possono essere imbrigliati e manipolati da altre identità tribali più ristrette e nascoste. Ricordiamo, non tutti i tribalismi sono uguali.

Le élite occidentali, i nostri politici, dirigenti aziendali, miliardari, hanno il loro ristretto tribalismo. Danno la priorità alla propria tribù e ai suoi interessi: fare soldi e mantenere il potere sulla scena mondiale. Ma dato quanto sembrerebbe brutta, egoista e distruttiva questa tribù se si trovasse davanti a noi perseguendo apertamente il potere a proprio vantaggio, promuove i suoi interessi tribali in nome della tribù più ampia e dei suoi valori “culturali”.

Questa tribù elitaria combatte le sue guerre senza fine per il controllo delle risorse, opprime gli altri, impone l’austerità, distrugge il pianeta, tutto in nome della civiltà occidentale.

Quando facciamo il tifo per le guerre dell’Occidente; quando ammettiamo con riluttanza che altre società devono essere distrutte; quando accettiamo che la povertà e le banche alimentari sono uno sfortunato sottoprodotto di presunte realtà economiche, così come lo è l’intossicazione del pianeta, cospiriamo per promuovere non i nostri interessi tribali ma quelli di qualcun altro.

Quando inviamo decine di miliardi di dollari di armi in Ucraina, immaginiamo di essere altruisti, di aiutare chi è oppresso, di fermare un pazzo malvagio, di sostenere il diritto internazionale, di ascoltare gli ucraini. Ma la nostra comprensione del perché gli eventi si stanno svolgendo come in Ucraina, più che come si stanno svolgendo, ci è stata imposta, proprio come è successo ai comuni ucraini e ai comuni russi.

Crediamo di poter porre fine alla guerra con più forza. Presumiamo di poter terrorizzare la Russia e farla ritirare. O, ancora più pericolosamente, sogniamo di poter sconfiggere una Russia dotata di armi nucleari e rimuovere il suo presidente “pazzo”. Non possiamo immaginare che stiamo solo alimentando le stesse paure che hanno spinto la Russia ad invadere l’Ucraina, le stesse paure che hanno portato al potere e sostenuto un uomo forte come Putin. Peggioriamo la situazione supponendo di renderla migliore

Allora perché lo facciamo?

Perché i nostri pensieri non sono i nostri. Stiamo ballando su una melodia composta da altri di cui comprendiamo a malapena motivazioni e interessi.

Una guerra senza fine non è nei nostri interessi, né in quelli degli ucraini o dei russi. Ma potrebbe essere solo nell’interesse delle élite occidentali che hanno bisogno di “indebolire il nemico” per espandere il loro dominio; che hanno bisogno di pretesti per usare i nostri soldi per guerre che solo loro avvantaggiano; quella necessità di creare nemici per sostenere il tribalismo del pubblico occidentale in modo da non iniziare a vedere le cose dal punto di vista degli altri o chiederci se il nostro stesso tribalismo serve davvero i nostri interessi o quelli di un’élite.

La verità è che veniamo costantemente manipolati, ingannati, indottrinati per promuovere “valori” che non sono inerenti alla nostra cultura “superiore” ma fabbricati per noi dal braccio delle pubbliche relazioni delle élite, i grandi media. Siamo trasformati in volontari co-cospiratori adottando comportamenti che in realtà danneggiano noi, gli altri e il pianeta.

In Ucraina, la nostra stessa compassione per aiutare viene utilizzata come arma in modi che uccideranno gli ucraini e distruggeranno le loro comunità, proprio come il premuroso liberalismo di Meretz ha passato decenni a razionalizzare l’oppressione dei palestinesi in nome della sua fine.

Non possiamo liberare l’Ucraina o la Russia. Ma quello che possiamo fare, a lungo termine, può rivelarsi molto più significativo: possiamo iniziare a liberare le nostre menti.

 

Jonathan Cook è vincitore del Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. I suoi libri includono “Israele e lo Scontro di Civiltà: Iraq, Iran e il Piano per Ricostruire il Medio Oriente” (Pluto Press) e “Palestina Scomparsa: Gli Esperimenti di Israele Nella Disperazione Umana” (Zed Books). Visitate il suo sito web www.jonathan-cook.net

 

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