[Traduzione a
cura di Valentina Gruarin dell’articolo
originale di pubblicato su openDemocracy]
È sempre più evidente che il cambiamento climatico
costituisca una questione di giustizia sociale: affrontare le
disuguaglianze globali è il primo passo necessario per arrivare a una
soluzione. Vi è una vasta documentazione riguardo il divario di
ricchezza – frutto di ingiustizie storiche e relazioni di potere diseguali –
tra le nazioni responsabili delle emissioni e quelle costrette ad affrontarne
gli effetti peggiori, dalle inondazioni alla siccità e agli incendi selvaggi.
Per troppo tempo, le popolazioni bianche del Nord
globale – in gran parte esenti dalle realtà catastrofiche del
cambiamento climatico – hanno dominato il dibattito sul clima,
mentre quelle del Sud del mondo, in particolare donne e comunità indigene, sono
state ignorate. Ne è risultato un drastico
aumento delle emissioni e una carenza
di finanziamenti a sostegno delle azioni di mitigazione e adattamento climatici,
nonché di risarcimento delle perdite
e dei danni.
Nel frattempo le “soluzioni” di ordinaria
amministrazione, come la compensazione
delle emissioni di carbonio, acuiscono le disuguaglianze globali invece di
risolverle. Il gigante petrolifero Shell, ad esempio, ha in programma di
compensare 120 milioni di tonnellate di anidride carbonica derivanti dalle sue
attività inquinanti con piantagioni di alberi su larga scala. Ma ciò,
probabilmente, porterà a un incremento
del land grabbing nel Sud del mondo.
Come ha detto l’attivista kenyota per il
clima e l’ambiente Elizabeth Wathuti:
Se vogliamo affrontare seriamente la crisi climatica,
dobbiamo iniziare ad ascoltare e accogliere il dolore di coloro che ne
subiscono le conseguenze già oggi.
Non si tratta unicamente di una richiesta di
rappresentanza, nonostante anch’essa sia importante. Per citare l’attivista
americana per i diritti civili Audre Lorde: “Gli strumenti del padrone non
smantelleranno mai la sua casa”. Infatti, per affrontare la crisi climatica e raggiungere così la giustizia
climatica, abbiamo bisogno di “strumenti”, leadership e principi
radicalmente diversi da quelli finora utilizzati.
Le donne e le femministe – soprattutto quelle del Sud
globale che hanno alle spalle una lunga storia di lotta contro la
disuguaglianza e per la costruzione di soluzioni inclusive – sembrano in grado
di offrire soluzioni concrete. Sono infatti queste donne,
provenienti da contesti diversi, che stanno diventando sempre più visibili
nella lotta per la giustizia climatica.
In qualità di conduttrice del podcast “People
vs Inequality”, ho avuto l’onore di intervistare sei tra le
leader, appartenenti a movimenti ambientali, più preparate sul tema. Hanno una caratteristica in comune che mi ha colpita: una
leadership audace e coraggiosa, che utilizzano per cercare di
spostare il potere nelle mani delle popolazioni più colpite dal cambiamento
climatico.
Indipendentemente dal fatto che queste donne si
considerino o meno femministe, le loro storie sono forti esempi della
leadership e dei principi femministi. Come agiscono, dunque, queste leader in tema di
protezione ambientale? Che cosa possiamo imparare noi – a partire dagli
attivisti e politici occidentali – su come raggiungere la giustizia climatica?
Costruire un mondo più attento
Una delle motivazioni che ha spinto le sei leader a
battersi per la giustizia climatica è il loro forte legame con la
natura, ma anche il rapporto creatosi con altri attivisti e con le comunità
colpite dalla crisi climatica. L’attivista Elizabeth Wathuti segue infatti le orme di Wangari Maathai, ambientalista kenyota e prima donna africana
a vincere il Premio Nobel per la pace. Tra le tante cose ha fondato movimenti
femministi creatisi attraverso esperienze quali la piantagione di alberi e la
difesa della natura [esperienze ancora vive nel Green Belt
Movement Ndt].
Come Maathai, Wathuti insegna ai giovani non
solo a piantare alberi, ma anche a saperli coltivare,
mostrando loro, attraverso la natura, le qualità fondamentali della leadership. L’attivista
utilizza poi le sue piattaforme online per condividere le storie dei kenyoti
che affrontano gli effetti del cambiamento climatico – come la siccità – invitando
i leader ad aprire i loro cuori e a umanizzare la crisi climatica.
Rigenerare la natura, esprimere solidarietà e
costruire un’economia solidale sono elementi fondamentali per creare un mondo
più giusto e sostenibile. Le leader femministe hanno dato prova di saper integrare questi
principi nella loro vita quotidiana, nel loro attivismo e nelle loro proposte
politiche.
Condividere il potere
La storia ci ha insegnato che il cambiamento è possibile solo quando gli individui si uniscono
per agire insieme. Un’altra donna con cui ho parlato, Victoria
Tauli-Corpuz, attivista
per i diritti degli indigeni ed ex relatrice delle Nazioni Unite, incoraggia le
iniziative collettive stimolando la capacità delle donne e delle loro comunità
di difendere i propri diritti.
Tauli-Corpuz ci ricorda inoltre quali sono le
conoscenze e le soluzioni che le popolazioni indigene adottano da tempo quando
si tratta di proteggere il pianeta. Giovani femministe e attiviste
per il clima, come Chihiro Geuzenbroek, si impegnano per realizzare
un’inclusione radicale, assicurandosi che le voci escluse vengano ascoltate per
prime. Geuzenbroek sottolinea la necessità, soprattutto per noi
del Nord globale, di mettere in discussione i nostri comportamenti e la nostra
mentalità. Queste leader femministe ci mostrano anche come unire i movimenti, abbattendo le barriere che limitano un
approccio unitario alle soluzioni olistiche.
Essere coraggiosi e audaci
Per affrontare al meglio la crisi climatica, è
necessario un cambiamento radicale nelle politiche e nelle pratiche: il potere deve passare dalle mani di chi inquina alle mani di chi
è più colpito dalla crisi e di chi cerca soluzioni giuste e sostenibili.
In una puntata di “People vs Inequality”,
l’avvocatessa per i diritti umani Tessa
Khan ha
spiegato cosa significhi, in pratica, questo cambiamento di prospettiva. La sua
missione risulta chiara e costituisce una strategia completa in grado di riunire i cittadini, i lavoratori e le organizzazioni
ambientaliste perché quello dove vive, il Regno Unito, sia un
Paese più giusto verso l’ambiente e libero dall’uso di combustibili fossili.
L’avvocatessa mostra concretezza e capacità di agire, dando prova
dell’importanza di coinvolgere un maggior numero di persone nella lotta al
cambiamento climatico.
Anche le leader Tasneem Essop e Farhana Yamin, attiviste da tempo sul fronte
della crisi ambientale, sfidano esplicitamente gli squilibri di potere, la
mancanza di solidarietà globale e l’attenzione alla crescita economica.
Entrambe dimostrano come costruire organizzazioni che rappresentino il mondo in
cui sperano.
I politici spesso non affrontano il potere invisibile
(le norme, ad esempio) o nascosto (le lobby aziendali) che frenano il
cambiamento. Per sostituire le soluzioni di breve termine con quelle
strutturali, coloro che operano nel settore ambientale dovranno essere
audaci abbastanza da affrontare il potere.
Le leader femministe, storicamente costrette a sfidare
l’autorità, si sono dimostrate capaci di agire concretamente anche nella sfera
ambientale. Gli
strumenti e le strategie che esse hanno sviluppato per analizzare, costruire,
affermare e trasformare il potere sono utili a chiunque voglia affrontare le
cause profonde della crisi climatica e costruire soluzioni più giuste.
Le sfide globali di oggi sono grandi e a volte possono
sembrare insormontabili; richiedono un diverso tipo di leadership. Le donne che
lavorano per la giustizia climatica ci dimostrano in che cosa consiste la
leadership femminista, dando prova del perché ne abbiamo urgente bisogno.
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