Una conversazione con Sarah Gainsforth, autrice di Abitare stanca.
Andrea Staid è
docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, ricercatore presso
Universidad de Granada, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia.
Ha scritto: I dannati della metropoli, Gli arditi del popolo, Abitare illegale,
Le nostre braccia, Senza Confini, Contro la gerarchia e il dominio. I suoi libri
sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna e adottati in varie facoltà
universitarie.
Abitare è senza dubbio una delle
principali attività di noi esseri umani. In realtà lo è anche per gli animali
non umani, ma da loro ci separa una fatto importante; noi homo sapiens siamo
l’unica specie vivente che ha pensato la casa come una merce, ovvero il frutto
di un privilegio e non un qualcosa di universalmente garantito a tutte e
tutti.
Quando ho studiato il senso della dimora per le
popolazioni indigene che non hanno sviluppato come in Occidente il pensiero
della casa come merce è sempre stato difficile sul campo di ricerca raccontare
che da “noi” in Europa ci sono donne e uomini ai quali viene negata la casa: è
veramente un fatto inconcepibile per chi a differenza nostra non riesce a
immaginare la casa come qualcosa che ha un valore monetario di mercato. Da
poco è uscito un libro lucido e appassionante che ha un titolo
esplicativo: Abitare stanca. La casa: un racconto politico di
Sarah Gainsforth. L’autrice racconta
la tragedia della casa in Occidente, dove essa diventa luogo di chiusura che
rappresenta sempre di più un motivo di profondo malessere psicologico, di
indebitamento e di esclusione. Un libro particolare sotto molti punti di vista,
inclusa la sua forma, per questo ho deciso di conversare con Sarah sui temi
della sua ultima pubblicazione.
Sicuramente concordiamo pienamente su una cosa: la
casa merce non è un dato naturale ma una costruzione culturale e sociale ben
specifica. Per te cosa rappresenta o dovrebbe rappresentare la casa?
La casa dovrebbe essere un punto di partenza, la terra
sotto i piedi, la base per fare altro, non un punto di arrivo, un obiettivo,
uno status symbol o un fine. Questo non sminuisce la sua importanza: proprio
perché la casa è un requisito fondamentale per stare felicemente e pienamente
nel mondo è assurdo e profondamente ingiusto che qualcuno ce l’abbia e qualcun
altro no.
È in questa situazione che la casa alimenta le disuguaglianze: chi ce l’ha,
magari perché l’ha ereditata, chi ne ha più di una e vi guadagna un affitto,
parte avvantaggiato e può fare altro, accumulare. Chi non ce l’ha spende la
maggior parte delle proprie risorse ed energie solo per sopravvivere.
Ovviamente tra questi estremi c’è una realtà variegata e mista, di persone che
lavorano o meno, che pagano un affitto o un mutuo – a questo proposito,
bisognerebbe leggere all’interno dei blocchi tutte le differenze, rompere per
la narrazione monolitica sulla proprietà, e forse la maggior parte dei
proprietari capirebbe che no, una riforma del fisco o del catasto non
toccherebbe loro ma solo i ricchi.
Ma sto andando fuori tema. La casa non dovrebbe assorbire più di una certa
percentuale di energia fisica, mentale ed economica – non oltre il 30% del
proprio reddito. Per me la casa era sempre stata un obiettivo perché sono
partita senza avere la terra sotto i piedi. Tutte le mie energie erano
assorbite da questo, dall’avere una casa. Ne ho abitate tante, in affitto. Le
arredavo, le rendevo comode, belle. Ma ero troppo impegnata a non precipitare.
Ho passato anni con una sensazione di essere aggrappata sopra il vuoto,
provando un senso di fatica, di solitudine e di irrealtà, con la consapevolezza
di essere finita a fare una vita non mia. A quel punto la casa mi sembrava un
set, ma per che cosa non sapevo. Così ho mollato la presa e in effetti non sono
precipitata ma ho trovato una strada che sale e scende ma non precipita, sono
ripartita – senza casa – con un altro obiettivo. O almeno questo è il senso che
attribuisco oggi alla mia scelta. Mi rendo conto che anche la precarietà come
quella a cui sono andata incontro, sottraendomi al ricatto della casa-merce,
può essere un lusso. Perché non tutti possono mollare tutto, non tutti possono
contare su una comunità di attivisti e di amici su cui appoggiarsi, che
sostituisce un welfare inesistente, per cambiare la propria vita.
Il tuo è un testo denso che riesce continuamente a
muoversi tra le tue storie familiari, i racconti biografici, la storia, la
geopolitica, la critica radicale. Un libro che viaggia tra saggistica,
racconto, reportage… come hai pensato a questa struttura?
È venuta scrivendolo. Venendo da una scrittura
giornalistica, di reportage appunto, immaginavo un tipo di struttura in cui
alternare dati e voci, immaginavo di scrivere un saggio sulla storia delle
politiche abitative e urbanistiche, con parti di aneddoti e racconti personali.
Questo era il punto di partenza. Francesco Quatraro di Effequ, l’artefice di
tutto insieme a Silvia Costantino, insisteva perché dessi più spazio al
racconto in prima persona, io ero un po’ scettica. Poi, immergendomi nella
storia, studiando e scrivendo al tempo stesso, ho scoperto una trama a tratti
imprevista – la questione irlandese, per esempio, non c’era nella prima
struttura. Da dentro la scrittura ho visto le connessioni tra le storie
familiari, biografiche, e la storia. È stato un viaggio non lineare, prima a
ritroso, poi verso il presente. Credo che questo si veda. Non sapevo se avrebbe
tenuto, ho rischiato di perdermi più volte.
Racconta brevemente a chi ci legge la geografia del
libro, cerchiamo di costruire una piccola mappa per la lettrice e il
lettore, perché con il tuo libro si viaggia anche grazie alle tue storie
famigliari che non sono affatto secondarie nel libro.
La piccola mappa inizia oggi, in una via di Roma, con
una ragazza che gesticola e che abita in una rientranza in un muro. Inizia con
me che guardo le case degli altri. Inizia con la storia di mio padre, nato nel
’37 in un piccolo paese in Nebraska da cui emigra a diciotto anni dopo aver
passato un anno in un carcere per adulti per un piccolo furto. Lo seguo nei
suoi spostamenti in giro per le Americhe, nella traversata dell’Atlantico sullo
yacht di John Wayne dove lavora come barman, e poi in Europa. La storia
prosegue tornando indietro nel tempo, alla ricerca delle origini della mia
famiglia e di quel modello di accumulazione capitalista basato sull’estrazione
di rendita dalla terra, origini che in qualche modo coincidono, perché sono per
tre quarti di origine irlandese. I miei bisnonni sono emigrati perché non
avevano abbastanza terra per sfamare le famiglie. L’Irlanda era una colonia
dell’impero britannico, di quella nazione dove secoli prima era avvenuta la
transizione a un modello di accumulazione capitalistico e verso la creazione
del mercato del lavoro salariato, con la recinzione delle terre comuni. C’è il
tema della povertà, della sua gestione, il tema della nascita della miseria
moderna nella città industriale dove esplode la questione abitativa. Ed è a
Liverpool, dove nel ’48 in una casa affollata di migranti irlandesi nasce mia
madre, che la questione abitativa e urbanistica viene affrontata per la prima
volta con norme che iniziano a limitare il dominio della proprietà privata. Mia
madre cresce in una casa popolare, durante la stagione d’oro del welfare e
dell’edilizia pubblica, una politica universale. Va all’università e ci va
perché praticamente costretta da un’insegnante, non per sua scelta, si sentiva
troppo in colpa per farlo, il che dimostra l’importanza della scuola e delle istituzioni
oltre la famiglia e, nella mia testa, fa di lei la negazione vivente dell’homo
oeconomicus neoliberale teorizzato da von Mises e Hayek secondo cui
l’agire umano sarebbe sempre un agire intenzionale, un calcolo razionale,
economico, fondato sulla competizione. Stronzate. Lei era la prima della
classe, ma la madre era morta e doveva badare al padre e a tre fratelli. Come
avrebbe potuto lasciare tutto per studiare? In ogni caso, costretta, andò e
partecipò alle lotte studentesche. Era il ’68. Di lì a poco avrà inizio
l’avvento del neoliberismo, lo smantellamento del welfare state, la diffusione
della proprietà di massa per rompere le lotte della classe operaia mentre si
ristruttura l’economia, finanziarizzandola. Poi siamo di nuovo a Roma, dove mio
padre è stato felice negli anni Sessanta e dove ritorna dieci anni dopo dopo
aver strappato la propria tessera di leva e invitato il capo di stato maggiore
ad andare a farsi fottere per via della guerra in Vietnam. A Roma lui ignora le
condizioni di chi abita in baracche ai bordi della città, le lotte per la casa,
gli scontri sul tema della rendita, le lotte delle donne, la proposta di Sullo,
la restaurazione del blocco edilizio che segue e la rimozione dal dibattito
pubblico di questo tema. Ritroviamo l’origine delle narrazioni e degli
argomenti utilizzati per stigmatizzare l’edilizia residenziale pubblica e per
promuovere la proprietà, che sommiamo a quelli già intercettati all’epoca del
dominio coloniale inglese, quelli che giustificano lo spossessamento e l’appropriazione
di terre raccontate come vuote da “migliorare” e “valorizzare” che solo la
proprietà assicurerebbe, che sono gli stessi argomenti usati oggi per
privatizzare lo spazio pubblico in nome del decoro. Sono argomenti che rimuovo
le cause economiche e sociali dei problemi e li riducono a problemi
architettonici, estetici, che rimuovono i problemi eliminando lo spazio
pubblico e demolendo le case. Racconto le trasformazioni urbane contemporanee
in quartieri in via di gentrificazione, a Milano, o semplicemente depredati e
impoveriti, a Roma. Le politiche abitative di fatto non ci sono più, il poco
che c’è come i sussidi per il mercato privato non funziona, la proprietà viene
ancora proposta come la soluzione, il cerchio si è chiuso.
Chi legge il tuo libro alla fine non avrà dubbi: la
storia della casa-merce è una storia di ingiustizie e speculazioni,
espropri e occupazioni, di fatto è una storia di lotta di classe…
Si, lo è. La promozione della proprietà è stata il
principale strumento di una guerra di classe dall’alto che ha frammentato,
individualizzandola, la società e le lotte. In Italia le cose sono andate un
po’ diversamente rispetto all’Inghilterra di Margaret Thatcher, perché non c’è
stato un piano esplicito di diffusione dell’ideologia neoliberale. In Italia
questa agenda è passata per una serie di riforme e per una gestione sempre più
tecnocratica delle scelte economiche, il che spiega anche la sparizione
dell’urbanistica dal dibattito pubblico: se l’urbanistica era stata uno
strumento di emancipazione per i ceti popolari, per gli esclusi, per le donne
che rivendicano servizi sociali, asili, parchi, successivamente viene
depoliticizzata, resa materia tecnica per pochi esperti maschi.
In secondo luogo in Italia, soprattutto a Roma e nel meridione, nella
diffusione della proprietà gioca un grande ruolo l’abusivismo edilizio, prima
per necessità e poi per speculazione. In ogni caso, la casa è stata un veicolo
per la penetrazione del mercato in un ambito che è sociale, che andrebbe
tutelato dal mercato. La promozione della proprietà è servita ad alimentare il
mercato finanziario, innescando un ciclo di prestiti e debiti per case sempre
più costose, mentre il mercato del lavoro e i settori industriali venivano
smantellati. Oggi ci troviamo in un punto di rottura tra queste due dinamiche,
le politiche sul lavoro sono completamente scollegate da quelle per la casa (il
lavoro non c’è, la casa costa troppo), mentre la rendita ha sostituito il
lavoro. Raramente questi due aspetti vengono collegati, come nel dibattito
attuale sui lavoratori che non ci sono. Il risultato potrebbe essere, almeno io
me lo auguro, una rottura. Ogni avanzamento sul piano dei diritti, tra cui la
nascita stessa dell’urbanistica e delle politiche abitative nelle città
industriali, nasce da un punto di rottura, di protesta dal basso, di non
sopportazione delle condizioni di miseria. Forse neanche di miseria in
assoluto, ma di miseria in un contesto di benessere generale da cui però nei
fatti si è esclusi.
Un punto per me fondamentale del tuo testo è l’analisi
del concetto del decoro, in tante e tanti ricercatrici e ricercatori abbiamo
ragionato e attaccato le politiche del decoro che si sono sviluppate senza
sosta negli ultimi trenta anni.
Il tuo capitolo che affronta questa tematica parte subito a gamba tesa sulla
questione della riqualificazione urbana (spesso, se non sempre, una farsa per
speculare al meglio sugli immobili) nello specifico l’incipit ci racconta come
una delle pratiche sempre più comuni nelle città è utilizzare la “street art”
per riqualificare ( che fa rima con gentrificare), ovvero un inizio di
sostituzione del tessuto sociale di un luogo con un altro tipo di abitanti che
“stranamente” avranno un potere d’acquisto maggiore. Ci sono molti esempi
e tanti studi etnografici che ci raccontano che un’opera di street art può far
crescere il valore immobiliare dell’edificio su cui viene realizzata e quindi
velocizzare il processo di “rigenerazione”…o per meglio dire: di
gentrificazione. Cosa hai visto a Roma e perché non ti piacciono i bei
disegni sui muri dei quartieri popolari? Ci fai qualche esempio?
Il punto per me è provare a leggere la retorica del
decoro da una prospettiva storica ampia, non solo legata agli ultimi trent’anni
– tutti i capitoli precedenti dovrebbero servire a leggere quello sul decoro.
Quella sul decoro è la nuova versione di una narrazione vecchissima, quella del
miglioramento, che legittima l’appropriazione di spazi e risorse. Il
miglioramento significa la messa a profitto, l’ingresso del mercato in spazi
liberi dal mercato, presentati come vuoti, dimenticati, degradati. Questa
narrativa legittima un intervento di “miglioramento”, ovvero di mercificazione.
Questo è essenzialmente il meccanismo. L’abbiamo visto con le recinzioni delle
terre comuni, con la stigmatizzazione dell’edilizia residenziale pubblica, con
le piazze nelle città turistificate, tutti spazi liberi e colonizzati dal
mercato. Si basa sulla rimozione delle condizioni economiche che determinano
l’uso dello spazio, e sull’identificazione dei problemi in un fattore estetico,
architettonico (nel caso dell’edilizia pubblica), e con l’identificazione della
soluzione nella proprietà privata. Solo la proprietà instillerebbe quel senso
di cura, ci dice Oscar Newman, tra gli ideologi neoliberisti più influenti che
hanno contribuito alla stigmatizzazione, e demolizione, dell’edilizia
residenziale pubblica. Retake opera lo stesso meccanismo, paragonando la città
a una casa, a un condominio, in cui lo spazio pubblico, dell’imprevisto,
semplicemente sparisce. La street-art serve a costruire questo canone estetico,
un tappeto sotto cui far sparire le disuguaglianze. Serve ad addomesticare il
conflitto, a imbrigliarlo in un gioco di apparenze, a rendere quartiere
attrattivi per una popolazione più ricca, anche e soprattutto fagocitando
espressioni di una contro-cultura che resiste alla distruzione del capitale.
David Harvey lo ha detto meglio di me: “Se il capitale non deve distruggere
totalmente l’unicità che è alla base dell’appropriazione delle rendite di
monopolio, allora deve sostenere una forma di differenziazione, consentire
divergenze e sviluppi culturali locali in una certa misura incontrollabili, che
possono rivelarsi antagonistici rispetto al suo normale funzionamento. (…)
Il problema per il capitale è trovare le strade per cooptare, sussumere,
mercificare e monetizzare tali differenze in modo tale da potersene appropriare
come rendite di monopolio. Il problema dei movimenti di opposizione consiste
nell’utilizzare la validazione di particolarità, unicità, autenticità,
significati culturali ed estetici per aprire nuove possibilità e alternative,
piuttosto che permettere che esse vengano usate per creare un terreno più
fertile per l’estrazione di rendite di monopolio da parte di coloro che hanno
il potere e l’inclinazione compulsiva nel farlo”. Non è un caso che sui muri di
Roma compaiano opere si street-art finanziate da operatori immobiliari. Quello
che distingue la vera street-art illegale da quella degli iperatori immobiliari
è tutto quello che non è visibile: non l’immagine, ma il processo che sta
dietro l’immagine. Nella vera street-art, come nella
produzione culturale in generale, questo conta tantissimo. C’è bisogno di spazi
fuori dal mercato perché la cultura possa nascere, prima che sia compiuta,
visibile, commerciabile. Il fatto grave dei murales che stanno tappezzando le
mura di Roma come di tante altre città, e di cui ci saremmo anche stufati, è la
loro sponsorizzazione pubblica. A San Lorenzo e a Ostiense, a Roma, sono stati
inaugurati da assessori e presidenti di municipio. I che rivela che la
gentrificazione è a tutti gli effetti una politica pubblica per le città, che
serve a rimuovere problemi e persone, a non affrontare le condizioni di vita di
chi vi abita (la casa, il lavoro) ma a rendere belli i muri.
Anche in questo tuo nuovo lavoro torni su uno dei
motori della speculazione e della desertificazione sociale dei centri storici:
la tua critica a AirBnB e simili è totale. Perché il turismo fa male alla città
e crea divari di classe sempre più feroci?
Il turismo fa male alle città come strumento di
rianimazione della rendita, come strumento di appropriazione, mercificazione e
di distruzione di quell’unicità di cui parlavamo poc’anzi. Come ogni
monocultura che sfrutta intensivamente una risorsa, anche l’economia turistica
distrugge ciò di cui si nutre, si autodistrugge. Le città turistiche si
somigliano tutte, hanno perso la propria unicità, sono, come dici giustamente,
desertificate. L’economia turistica distrugge e poi mercifica l’esperienza dei
luoghi– Giacomo Salerno ha scritto un bellissimo libro su questo,
sul turismo come “industria della nostalgia” che ci vende l’esperienza della
città che ha appena distrutto. Il turismo è una macchina estrattiva, preda le
risorse comuni, scarica i costi sulla collettività e privatizza i profitti. In
questo senso è una strategia coloniale, dove la colonia è interna, la colonia
siamo noi. I proprietari delle case si arricchiscono, i prezzi aumentano, la
parte di popolazione più povera è cacciata fuori, i divari crescono. Quello che
ho provato a rimettere in luce è che la rendita stessa (connaturata alle
trasformazioni urbane, perché le trasformazioni urbane sono inserite dentro un
modello di sviluppo che è quello capitalistico, dell’urbanizzazione del
capitale) è una costruzione collettiva, perché la formazione della
rendita, ovvero del valore di un terreno, deriva non solo dalla sua
edificabilità ma anche dalla sua posizione rispetto alla città e a una serie
di vantaggi che questa offre in termini di servizi pubblici: la rendita è il
risultato di scelte delle collettività. Dunque non è una prerogativa della
proprietà privata, come viene presentata dalle associazioni di proprietari che
si oppongono alla regolamentazione degli affitti brevi e lamentano l’ingerenza
in quello che considerano un loro diritto – fare della proprietà quello che
vogliono (salvo poi invocare aiuti pubblici quando il turismo crolla). Se le
loro case valgono tanto è perché sono in zone ben servite e collegate o in zone
turisticamente attrattive per via di un patrimonio storico, artistico e culturale…
collettivo. Insomma l’esistenza di forme di pre e redistribuzione di questi
vantaggi dovrebbe essere un fatto ovvio, non dovremmo neanche starne a parlare.
Invece.
Il tuo è un libro speciale, si legge come un romanzo
ma è denso di dati come un reportage sullo stato di salute della casa
contemporanea, sono pagine che scorrono veloci e che lasciano l’amaro in bocca.
Su una cosa però che scrivi non concordo, e questo mio sospetto
probabilmente è dettato dalla mia esperienza personale politica e di vita:
ci parli di un epoca passata di welfare universale in Europa, credi veramente
che sia esistita? Ma soprattutto credi che il welfare elargito dall’alto
in una società verticale e gerarchica possa non avere un doppio fine (quello
del dominio e del controllo)?
La tua domanda è molto strana. Certo che è esistito un
welfare universale, altrimenti non avremmo un sistema sanitario nazionale. Il
punto credo sia un altro, ovvero se principi universali costituzionali come
l’uguaglianza sostanziale e formale siano attuati o meno. Quei principi sono
validi ancora oggi ma è evidente, anche nel caso del SSN, che non sono
pienamente attuati, e che il welfare, inteso come una protezione sociale non
demandabile al mercato o agli individui, è stato eroso con l’ingresso del
mercato e con la logica della sussidiarietà. In secondo luogo, il welfare non è
stato “elargito dall’alto”: sono state le lotte a conquistare diritti e servizi
nel corso del Novecento. Sono le lotte che danno contenuto ai principi, che li
sostanziano. In terzo luogo è proprio il welfare che abolisce le istituzioni
totali, come le workhouses per i poveri di cui scrivo nel libro, o come i
manicomi in Italia. La chiusura dei manicomi era strettamente legata
all’introduzione del sistema sanitario nazionale come sistema non di controllo
ma di pianificazione sociale, come esito di una visione olistica
dell’insieme sociale, della socializzazione del disagio che dev’essere gestito
dalla società nella sua interezza e quindi non rinchiuso. Il senso dei servizi
territoriali di cura, che non sono “verticali e gerarchici” è questo. Che la
riforma sia incompleta è stato detto e ridetto, ma il principio è questo.
C’è poi un’altra questione: l’Italia non ha mai avuto
un welfare “calato dall’alto”, semmai è proprio la peculiarità italiana quella
di aver avuto un welfare non universale ma particolaristico, lavoristico,
differenziato a seconda del lavoratore, e familistico. In ogni caso il welfare
state, sebbene difettoso (basta guardare Cathy come home di
Ken Loach girato nel ’66, cosa che ho fatto l’altra sera con mia madre) nasce
della lotte e nasce come meccanismo di protezione, non di controllo. Lo diventa
con il neoliberismo, quando diventa punitivo. La riforma del welfare fatta da
Clinton è emblematica fin dal titolo (Personal Responsibility and Work
Opportunity Act); la riforma fa del matrimonio il fondamento della società e
delle politiche di welfare, è una restaurazione dopo le lotte, anche
femministe, degli anni Settanta. Sono semmai i programmi di lavoro obbligatorio
introdotti che hanno un fine di dominio e di controllo – programmi che
ricordano la gestione della povertà in un’epoca pre-welfare state. L’idea di un
welfare universale “elargito dall’alto” come strumento di controllo è
esattamente la narrativa che è stata impiegata per smantellarlo, secondo un
concetto di “libertà” neoliberale, di libertà di iniziativa economica, in cui
il welfare è raccontato come sinonimo di controllo, ma solo perché è un freno
al libero mercato e alla competizione tra lavoratori salariati. Ne libro questo
c’è, perché è quello che è successo prima dell’avvento del welfare state,
quando nel 1834 in Inghilterra furono aboliti i sussidi per sancire la
supremazia del sistema salariale. Una questione di nuovo attuale in Italia… Da
un punto di vista politico, quando il welfare universale sparisce sostituito da
logiche di sussidiarietà e privatizzazione, quello che resta sono richieste
particolaristiche di inclusione in un sistema che produce esclusione, qualcosa
di paradossale – come le istanze dell’identity politics negli Stati Uniti. È
come se lo stato non ci fosse più: è stato esternalizzato, è uno strumento del
mercato. Allora chiariamoci su che cosa vogliamo. Le lotte, anche quelle più
recenti, hanno sempre chiesto più welfare universale (non
riconoscimenti particolari), più servizi, più ospedali, più reddito
di base, non meno servizi e più libertà. Diverso è
provare a immaginare come questo può darsi, oltre il welfare
state, e che ruolo possono giocare le lotte e le esperienze dal basso, il
mutualismo; come possono non sostituire lo Stato (in un’ottica di
sussidiarietà) ma imporre un’agenda di vera partecipazione e redistribuzione,
ripoliticizzare il welfare. Perché, e torno alla questione della casa, il
privilegio esiste solo in relazione all’assenza di politiche e meccanismi di
pre e redistribuzione.
Hai ragione, ho posto male la domanda da un punto di
vista temporale e geografico, dando per scontato che stessimo ragionando sul
concetto di “universale” in termini antropologici, ovvero di qualcosa valido
per tutti/e e per il mio modo di leggere la storia, il diritto universale alla
casa, alla salute, alla scuola… non è mai esistito in Europa. Le democrazie
europee non hanno mai garantito a tutte e tutti un welfare, ma solo a un numero
ristretto di persone privilegiate e per lo più bianche che abitavano in Europa,
basti pensare al trattamento riservato alle comunità rom e sinti, o alla
difficoltà di tutte le comunità diasporiche che con il crollo del colonialismo
dagli anni sessanta sono arrivate in quella che oggi chiamiamo fortezza Europa.
Detto questo, condivido con te che oggi la situazione è peggiorata rispetto a
40 anni fa e sottoscrivo che il welfare è stato conquistato attraverso le
lotte, ma lo considero una sorta di “contentino” utile per non mettere in
discussione la democrazia della maggioranza, ovvero la tirannia del
numero.Torno all’incipit di questa conversazione, per concludere: ho conosciuto
luoghi dove era presente una sorta di welfare universale ma non all’interno
della società industriale e capitalista. Luoghi dove la casa non può essere
pensata come merce, dove la proprietà privata e inconcepibile e, soprattuto,
società native definite da una configurazione diffusa del potere, distribuito
in maniera tendenzialmente egualitaria tra le persone, ognuna portatrice di
parola pubblica, di istanze, di volontà, che vanno considerate e rispettare
nelle decisioni collettive.
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