sabato 23 luglio 2022

La casa: un racconto politico - Sarah Gainsforth e Andrea Staid

Una conversazione con Sarah Gainsforth, autrice di Abitare stanca.

Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, ricercatore presso Universidad de Granada, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Ha scritto: I dannati della metropoli, Gli arditi del popolo, Abitare illegale, Le nostre braccia, Senza Confini, Contro la gerarchia e il dominio. I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna e adottati in varie facoltà universitarie.

Abitare è senza dubbio una delle principali attività di noi esseri umani. In realtà lo è anche per gli animali non umani, ma da loro ci separa una fatto importante; noi homo sapiens siamo l’unica specie vivente che ha pensato la casa come una merce, ovvero il frutto di un privilegio e non un qualcosa di universalmente garantito a tutte e tutti. 

Quando ho studiato il senso della dimora per le popolazioni indigene che non hanno sviluppato come in Occidente il pensiero della casa come merce è sempre stato difficile sul campo di ricerca raccontare che da “noi” in Europa ci sono donne e uomini ai quali viene negata la casa: è veramente un fatto inconcepibile per chi a differenza nostra non riesce a immaginare la casa come qualcosa che ha un valore monetario di mercato. Da poco è uscito un libro lucido e appassionante che ha un titolo esplicativo: Abitare stanca. La casa: un racconto politico di Sarah Gainsforth. L’autrice racconta la tragedia della casa in Occidente, dove essa diventa luogo di chiusura che rappresenta sempre di più un motivo di profondo malessere psicologico, di indebitamento e di esclusione. Un libro particolare sotto molti punti di vista, inclusa la sua forma, per questo ho deciso di conversare con Sarah sui temi della sua ultima pubblicazione.

Sicuramente concordiamo pienamente su una cosa: la casa merce non è un dato naturale ma una costruzione culturale e sociale ben specifica. Per te cosa rappresenta o dovrebbe rappresentare la casa?

La casa dovrebbe essere un punto di partenza, la terra sotto i piedi, la base per fare altro, non un punto di arrivo, un obiettivo, uno status symbol o un fine. Questo non sminuisce la sua importanza: proprio perché la casa è un requisito fondamentale per stare felicemente e pienamente nel mondo è assurdo e profondamente ingiusto che qualcuno ce l’abbia e qualcun altro no.
È in questa situazione che la casa alimenta le disuguaglianze: chi ce l’ha, magari perché l’ha ereditata, chi ne ha più di una e vi guadagna un affitto, parte avvantaggiato e può fare altro, accumulare. Chi non ce l’ha spende la maggior parte delle proprie risorse ed energie solo per sopravvivere. Ovviamente tra questi estremi c’è una realtà variegata e mista, di persone che lavorano o meno, che pagano un affitto o un mutuo – a questo proposito, bisognerebbe leggere all’interno dei blocchi tutte le differenze, rompere per la narrazione monolitica sulla proprietà, e forse la maggior parte dei proprietari capirebbe che no, una riforma del fisco o del catasto non toccherebbe loro ma solo i ricchi.
Ma sto andando fuori tema. La casa non dovrebbe assorbire più di una certa percentuale di energia fisica, mentale ed economica – non oltre il 30% del proprio reddito. Per me la casa era sempre stata un obiettivo perché sono partita senza avere la terra sotto i piedi. Tutte le mie energie erano assorbite da questo, dall’avere una casa. Ne ho abitate tante, in affitto. Le arredavo, le rendevo comode, belle. Ma ero troppo impegnata a non precipitare. Ho passato anni con una sensazione di essere aggrappata sopra il vuoto, provando un senso di fatica, di solitudine e di irrealtà, con la consapevolezza di essere finita a fare una vita non mia. A quel punto la casa mi sembrava un set, ma per che cosa non sapevo. Così ho mollato la presa e in effetti non sono precipitata ma ho trovato una strada che sale e scende ma non precipita, sono ripartita – senza casa – con un altro obiettivo. O almeno questo è il senso che attribuisco oggi alla mia scelta. Mi rendo conto che anche la precarietà come quella a cui sono andata incontro, sottraendomi al ricatto della casa-merce, può essere un lusso. Perché non tutti possono mollare tutto, non tutti possono contare su una comunità di attivisti e di amici su cui appoggiarsi, che sostituisce un welfare inesistente, per cambiare la propria vita.

 

Il tuo è un testo denso che riesce continuamente a muoversi tra le tue storie familiari, i racconti biografici, la storia, la geopolitica, la critica radicale. Un libro che viaggia tra saggistica, racconto, reportage… come hai pensato a questa struttura?

È venuta scrivendolo. Venendo da una scrittura giornalistica, di reportage appunto, immaginavo un tipo di struttura in cui alternare dati e voci, immaginavo di scrivere un saggio sulla storia delle politiche abitative e urbanistiche, con parti di aneddoti e racconti personali. Questo era il punto di partenza. Francesco Quatraro di Effequ, l’artefice di tutto insieme a Silvia Costantino, insisteva perché dessi più spazio al racconto in prima persona, io ero un po’ scettica. Poi, immergendomi nella storia, studiando e scrivendo al tempo stesso, ho scoperto una trama a tratti imprevista – la questione irlandese, per esempio, non c’era nella prima struttura. Da dentro la scrittura ho visto le connessioni tra le storie familiari, biografiche, e la storia. È stato un viaggio non lineare, prima a ritroso, poi verso il presente. Credo che questo si veda. Non sapevo se avrebbe tenuto, ho rischiato di perdermi più volte.

Racconta brevemente a chi ci legge la geografia del libro, cerchiamo di costruire una piccola mappa per la lettrice e il lettore, perché con il tuo libro si viaggia anche grazie alle tue storie famigliari che non sono affatto secondarie nel libro.

La piccola mappa inizia oggi, in una via di Roma, con una ragazza che gesticola e che abita in una rientranza in un muro. Inizia con me che guardo le case degli altri. Inizia con la storia di mio padre, nato nel ’37 in un piccolo paese in Nebraska da cui emigra a diciotto anni dopo aver passato un anno in un carcere per adulti per un piccolo furto. Lo seguo nei suoi spostamenti in giro per le Americhe, nella traversata dell’Atlantico sullo yacht di John Wayne dove lavora come barman, e poi in Europa. La storia prosegue tornando indietro nel tempo, alla ricerca delle origini della mia famiglia e di quel modello di accumulazione capitalista basato sull’estrazione di rendita dalla terra, origini che in qualche modo coincidono, perché sono per tre quarti di origine irlandese. I miei bisnonni sono emigrati perché non avevano abbastanza terra per sfamare le famiglie. L’Irlanda era una colonia dell’impero britannico, di quella nazione dove secoli prima era avvenuta la transizione a un modello di accumulazione capitalistico e verso la creazione del mercato del lavoro salariato, con la recinzione delle terre comuni. C’è il tema della povertà, della sua gestione, il tema della nascita della miseria moderna nella città industriale dove esplode la questione abitativa. Ed è a Liverpool, dove nel ’48 in una casa affollata di migranti irlandesi nasce mia madre, che la questione abitativa e urbanistica viene affrontata per la prima volta con norme che iniziano a limitare il dominio della proprietà privata. Mia madre cresce in una casa popolare, durante la stagione d’oro del welfare e dell’edilizia pubblica, una politica universale. Va all’università e ci va perché praticamente costretta da un’insegnante, non per sua scelta, si sentiva troppo in colpa per farlo, il che dimostra l’importanza della scuola e delle istituzioni oltre la famiglia e, nella mia testa, fa di lei la negazione vivente dell’homo oeconomicus neoliberale teorizzato da von Mises e Hayek secondo cui l’agire umano sarebbe sempre un agire intenzionale, un calcolo razionale, economico, fondato sulla competizione. Stronzate. Lei era la prima della classe, ma la madre era morta e doveva badare al padre e a tre fratelli. Come avrebbe potuto lasciare tutto per studiare? In ogni caso, costretta, andò e partecipò alle lotte studentesche. Era il ’68. Di lì a poco avrà inizio l’avvento del neoliberismo, lo smantellamento del welfare state, la diffusione della proprietà di massa per rompere le lotte della classe operaia mentre si ristruttura l’economia, finanziarizzandola. Poi siamo di nuovo a Roma, dove mio padre è stato felice negli anni Sessanta e dove ritorna dieci anni dopo dopo aver strappato la propria tessera di leva e invitato il capo di stato maggiore ad andare a farsi fottere per via della guerra in Vietnam. A Roma lui ignora le condizioni di chi abita in baracche ai bordi della città, le lotte per la casa, gli scontri sul tema della rendita, le lotte delle donne, la proposta di Sullo, la restaurazione del blocco edilizio che segue e la rimozione dal dibattito pubblico di questo tema. Ritroviamo l’origine delle narrazioni e degli argomenti utilizzati per stigmatizzare l’edilizia residenziale pubblica e per promuovere la proprietà, che sommiamo a quelli già intercettati all’epoca del dominio coloniale inglese, quelli che giustificano lo spossessamento e l’appropriazione di terre raccontate come vuote da “migliorare” e “valorizzare” che solo la proprietà assicurerebbe, che sono gli stessi argomenti usati oggi per privatizzare lo spazio pubblico in nome del decoro. Sono argomenti che rimuovo le cause economiche e sociali dei problemi e li riducono a problemi architettonici, estetici, che rimuovono i problemi eliminando lo spazio pubblico e demolendo le case. Racconto le trasformazioni urbane contemporanee in quartieri in via di gentrificazione, a Milano, o semplicemente depredati e impoveriti, a Roma. Le politiche abitative di fatto non ci sono più, il poco che c’è come i sussidi per il mercato privato non funziona, la proprietà viene ancora proposta come la soluzione, il cerchio si è chiuso.

Chi legge il tuo libro alla fine non avrà dubbi: la storia della casa-merce è una storia di ingiustizie e speculazioni, espropri e occupazioni, di fatto è una storia di lotta di classe…

Si, lo è. La promozione della proprietà è stata il principale strumento di una guerra di classe dall’alto che ha frammentato, individualizzandola, la società e le lotte. In Italia le cose sono andate un po’ diversamente rispetto all’Inghilterra di Margaret Thatcher, perché non c’è stato un piano esplicito di diffusione dell’ideologia neoliberale. In Italia questa agenda è passata per una serie di riforme e per una gestione sempre più tecnocratica delle scelte economiche, il che spiega anche la sparizione dell’urbanistica dal dibattito pubblico: se l’urbanistica era stata uno strumento di emancipazione per i ceti popolari, per gli esclusi, per le donne che rivendicano servizi sociali, asili, parchi, successivamente viene depoliticizzata, resa materia tecnica per pochi esperti maschi.
In secondo luogo in Italia, soprattutto a Roma e nel meridione, nella diffusione della proprietà gioca un grande ruolo l’abusivismo edilizio, prima per necessità e poi per speculazione. In ogni caso, la casa è stata un veicolo per la penetrazione del mercato in un ambito che è sociale, che andrebbe tutelato dal mercato. La promozione della proprietà è servita ad alimentare il mercato finanziario, innescando un ciclo di prestiti e debiti per case sempre più costose, mentre il mercato del lavoro e i settori industriali venivano smantellati. Oggi ci troviamo in un punto di rottura tra queste due dinamiche, le politiche sul lavoro sono completamente scollegate da quelle per la casa (il lavoro non c’è, la casa costa troppo), mentre la rendita ha sostituito il lavoro. Raramente questi due aspetti vengono collegati, come nel dibattito attuale sui lavoratori che non ci sono. Il risultato potrebbe essere, almeno io me lo auguro, una rottura. Ogni avanzamento sul piano dei diritti, tra cui la nascita stessa dell’urbanistica e delle politiche abitative nelle città industriali, nasce da un punto di rottura, di protesta dal basso, di non sopportazione delle condizioni di miseria. Forse neanche di miseria in assoluto, ma di miseria in un contesto di benessere generale da cui però nei fatti si è esclusi.

Un punto per me fondamentale del tuo testo è l’analisi del concetto del decoro, in tante e tanti ricercatrici e ricercatori abbiamo ragionato e attaccato le politiche del decoro che si sono sviluppate senza sosta negli ultimi trenta anni.
Il tuo capitolo che affronta questa tematica parte subito a gamba tesa sulla questione della riqualificazione urbana (spesso, se non sempre, una farsa per speculare al meglio sugli immobili) nello specifico l’incipit ci racconta come una delle pratiche sempre più comuni nelle città è utilizzare la “street art” per riqualificare ( che fa rima con gentrificare), ovvero un inizio di sostituzione del tessuto sociale di un luogo con un altro tipo di abitanti che “stranamente” avranno un potere d’acquisto maggiore. Ci sono molti esempi e tanti studi etnografici che ci raccontano che un’opera di street art può far crescere il valore immobiliare dell’edificio su cui viene realizzata e quindi velocizzare il processo di “rigenerazione”…o per meglio dire: di gentrificazione. Cosa hai visto a Roma e perché non ti piacciono i bei disegni sui muri dei quartieri popolari? Ci fai qualche esempio?

Il punto per me è provare a leggere la retorica del decoro da una prospettiva storica ampia, non solo legata agli ultimi trent’anni – tutti i capitoli precedenti dovrebbero servire a leggere quello sul decoro. Quella sul decoro è la nuova versione di una narrazione vecchissima, quella del miglioramento, che legittima l’appropriazione di spazi e risorse. Il miglioramento significa la messa a profitto, l’ingresso del mercato in spazi liberi dal mercato, presentati come vuoti, dimenticati, degradati. Questa narrativa legittima un intervento di “miglioramento”, ovvero di mercificazione. Questo è essenzialmente il meccanismo. L’abbiamo visto con le recinzioni delle terre comuni, con la stigmatizzazione dell’edilizia residenziale pubblica, con le piazze nelle città turistificate, tutti spazi liberi e colonizzati dal mercato. Si basa sulla rimozione delle condizioni economiche che determinano l’uso dello spazio, e sull’identificazione dei problemi in un fattore estetico, architettonico (nel caso dell’edilizia pubblica), e con l’identificazione della soluzione nella proprietà privata. Solo la proprietà instillerebbe quel senso di cura, ci dice Oscar Newman, tra gli ideologi neoliberisti più influenti che hanno contribuito alla stigmatizzazione, e demolizione, dell’edilizia residenziale pubblica. Retake opera lo stesso meccanismo, paragonando la città a una casa, a un condominio, in cui lo spazio pubblico, dell’imprevisto, semplicemente sparisce. La street-art serve a costruire questo canone estetico, un tappeto sotto cui far sparire le disuguaglianze. Serve ad addomesticare il conflitto, a imbrigliarlo in un gioco di apparenze, a rendere quartiere attrattivi per una popolazione più ricca, anche e soprattutto fagocitando espressioni di una contro-cultura che resiste alla distruzione del capitale. David Harvey lo ha detto meglio di me: “Se il capitale non deve distruggere totalmente l’unicità che è alla base dell’appropriazione delle rendite di monopolio, allora deve sostenere una forma di differenziazione, consentire divergenze e sviluppi culturali locali in una certa misura incontrollabili, che possono rivelarsi antagonistici rispetto al suo normale funzionamento. (…) Il problema per il capitale è trovare le strade per cooptare, sussumere, mercificare e monetizzare tali differenze in modo tale da potersene appropriare come rendite di monopolio. Il problema dei movimenti di opposizione consiste nell’utilizzare la validazione di particolarità, unicità, autenticità, significati culturali ed estetici per aprire nuove possibilità e alternative, piuttosto che permettere che esse vengano usate per creare un terreno più fertile per l’estrazione di rendite di monopolio da parte di coloro che hanno il potere e l’inclinazione compulsiva nel farlo”. Non è un caso che sui muri di Roma compaiano opere si street-art finanziate da operatori immobiliari. Quello che distingue la vera street-art illegale da quella degli iperatori immobiliari è tutto quello che non è visibile: non l’immagine, ma il processo che sta dietro l’immagine. Nella vera street-art, come nella produzione culturale in generale, questo conta tantissimo. C’è bisogno di spazi fuori dal mercato perché la cultura possa nascere, prima che sia compiuta, visibile, commerciabile. Il fatto grave dei murales che stanno tappezzando le mura di Roma come di tante altre città, e di cui ci saremmo anche stufati, è la loro sponsorizzazione pubblica. A San Lorenzo e a Ostiense, a Roma, sono stati inaugurati da assessori e presidenti di municipio. I che rivela che la gentrificazione è a tutti gli effetti una politica pubblica per le città, che serve a rimuovere problemi e persone, a non affrontare le condizioni di vita di chi vi abita (la casa, il lavoro) ma a rendere belli i muri.

Anche in questo tuo nuovo lavoro torni su uno dei motori della speculazione e della desertificazione sociale dei centri storici: la tua critica a AirBnB e simili è totale. Perché il turismo fa male alla città e crea divari di classe sempre più feroci?

Il turismo fa male alle città come strumento di rianimazione della rendita, come strumento di appropriazione, mercificazione e di distruzione di quell’unicità di cui parlavamo poc’anzi. Come ogni monocultura che sfrutta intensivamente una risorsa, anche l’economia turistica distrugge ciò di cui si nutre, si autodistrugge. Le città turistiche si somigliano tutte, hanno perso la propria unicità, sono, come dici giustamente, desertificate. L’economia turistica distrugge e poi mercifica l’esperienza dei luoghi– Giacomo Salerno ha scritto un bellissimo libro su questo, sul turismo come “industria della nostalgia” che ci vende l’esperienza della città che ha appena distrutto. Il turismo è una macchina estrattiva, preda le risorse comuni, scarica i costi sulla collettività e privatizza i profitti. In questo senso è una strategia coloniale, dove la colonia è interna, la colonia siamo noi. I proprietari delle case si arricchiscono, i prezzi aumentano, la parte di popolazione più povera è cacciata fuori, i divari crescono. Quello che ho provato a rimettere in luce è che la rendita stessa (connaturata alle trasformazioni urbane, perché le trasformazioni urbane sono inserite dentro un modello di sviluppo che è quello capitalistico, dell’urbanizzazione del capitale) è una costruzione collettiva, perché la formazione della rendita, ovvero del valore di un terreno, deriva non solo dalla sua edificabilità ma anche dalla sua posizione rispetto alla città e a una serie di vantaggi che questa offre in termini di servizi pubblici: la rendita è il risultato di scelte delle collettività. Dunque non è una prerogativa della proprietà privata, come viene presentata dalle associazioni di proprietari che si oppongono alla regolamentazione degli affitti brevi e lamentano l’ingerenza in quello che considerano un loro diritto – fare della proprietà quello che vogliono (salvo poi invocare aiuti pubblici quando il turismo crolla). Se le loro case valgono tanto è perché sono in zone ben servite e collegate o in zone turisticamente attrattive per via di un patrimonio storico, artistico e culturale… collettivo. Insomma l’esistenza di forme di pre e redistribuzione di questi vantaggi dovrebbe essere un fatto ovvio, non dovremmo neanche starne a parlare. Invece.

Il tuo è un libro speciale, si legge come un romanzo ma è denso di dati come un reportage sullo stato di salute della casa contemporanea, sono pagine che scorrono veloci e che lasciano l’amaro in bocca. Su una cosa però che scrivi non concordo, e questo mio sospetto probabilmente è dettato dalla mia esperienza personale politica e di vita: ci parli di un epoca passata di welfare universale in Europa, credi veramente che sia esistita? Ma soprattutto credi che il welfare elargito dall’alto in una società verticale e gerarchica possa non avere un doppio fine (quello del dominio e del controllo)?

La tua domanda è molto strana. Certo che è esistito un welfare universale, altrimenti non avremmo un sistema sanitario nazionale. Il punto credo sia un altro, ovvero se principi universali costituzionali come l’uguaglianza sostanziale e formale siano attuati o meno. Quei principi sono validi ancora oggi ma è evidente, anche nel caso del SSN, che non sono pienamente attuati, e che il welfare, inteso come una protezione sociale non demandabile al mercato o agli individui, è stato eroso con l’ingresso del mercato e con la logica della sussidiarietà. In secondo luogo, il welfare non è stato “elargito dall’alto”: sono state le lotte a conquistare diritti e servizi nel corso del Novecento. Sono le lotte che danno contenuto ai principi, che li sostanziano. In terzo luogo è proprio il welfare che abolisce le istituzioni totali, come le workhouses per i poveri di cui scrivo nel libro, o come i manicomi in Italia. La chiusura dei manicomi era strettamente legata all’introduzione del sistema sanitario nazionale come sistema non di controllo ma di pianificazione sociale, come esito di una visione olistica dell’insieme sociale, della socializzazione del disagio che dev’essere gestito dalla società nella sua interezza e quindi non rinchiuso. Il senso dei servizi territoriali di cura, che non sono “verticali e gerarchici” è questo. Che la riforma sia incompleta è stato detto e ridetto, ma il principio è questo. 

C’è poi un’altra questione: l’Italia non ha mai avuto un welfare “calato dall’alto”, semmai è proprio la peculiarità italiana quella di aver avuto un welfare non universale ma particolaristico, lavoristico, differenziato a seconda del lavoratore, e familistico. In ogni caso il welfare state, sebbene difettoso (basta guardare Cathy come home di Ken Loach girato nel ’66, cosa che ho fatto l’altra sera con mia madre) nasce della lotte e nasce come meccanismo di protezione, non di controllo. Lo diventa con il neoliberismo, quando diventa punitivo. La riforma del welfare fatta da Clinton è emblematica fin dal titolo (Personal Responsibility and Work Opportunity Act); la riforma fa del matrimonio il fondamento della società e delle politiche di welfare, è una restaurazione dopo le lotte, anche femministe, degli anni Settanta. Sono semmai i programmi di lavoro obbligatorio introdotti che hanno un fine di dominio e di controllo – programmi che ricordano la gestione della povertà in un’epoca pre-welfare state. L’idea di un welfare universale “elargito dall’alto” come strumento di controllo è esattamente la narrativa che è stata impiegata per smantellarlo, secondo un concetto di “libertà” neoliberale, di libertà di iniziativa economica, in cui il welfare è raccontato come sinonimo di controllo, ma solo perché è un freno al libero mercato e alla competizione tra lavoratori salariati. Ne libro questo c’è, perché è quello che è successo prima dell’avvento del welfare state, quando nel 1834 in Inghilterra furono aboliti i sussidi per sancire la supremazia del sistema salariale. Una questione di nuovo attuale in Italia… Da un punto di vista politico, quando il welfare universale sparisce sostituito da logiche di sussidiarietà e privatizzazione, quello che resta sono richieste particolaristiche di inclusione in un sistema che produce esclusione, qualcosa di paradossale – come le istanze dell’identity politics negli Stati Uniti. È come se lo stato non ci fosse più: è stato esternalizzato, è uno strumento del mercato. Allora chiariamoci su che cosa vogliamo. Le lotte, anche quelle più recenti, hanno sempre chiesto più welfare universale (non riconoscimenti particolari), più servizi, più ospedali, più reddito di base, non meno servizi e più libertà. Diverso è provare a immaginare come questo può darsi, oltre il welfare state, e che ruolo possono giocare le lotte e le esperienze dal basso, il mutualismo; come possono non sostituire lo Stato (in un’ottica di sussidiarietà) ma imporre un’agenda di vera partecipazione e redistribuzione, ripoliticizzare il welfare. Perché, e torno alla questione della casa, il privilegio esiste solo in relazione all’assenza di politiche e meccanismi di pre e redistribuzione.

Hai ragione, ho posto male la domanda da un punto di vista temporale e geografico, dando per scontato che stessimo ragionando sul concetto di “universale” in termini antropologici, ovvero di qualcosa valido per tutti/e e per il mio modo di leggere la storia, il diritto universale alla casa, alla salute, alla scuola… non è mai esistito in Europa. Le democrazie europee non hanno mai garantito a tutte e tutti un welfare, ma solo a un numero ristretto di persone privilegiate e per lo più bianche che abitavano in Europa, basti pensare al trattamento riservato alle comunità rom e sinti, o alla difficoltà di tutte le comunità diasporiche che con il crollo del colonialismo dagli anni sessanta sono arrivate in quella che oggi chiamiamo fortezza Europa. Detto questo, condivido con te che oggi la situazione è peggiorata rispetto a 40 anni fa e sottoscrivo che il welfare è stato conquistato attraverso le lotte, ma lo considero una sorta di “contentino” utile per non  mettere in discussione la democrazia della maggioranza, ovvero la tirannia del numero.Torno all’incipit di questa conversazione, per concludere: ho conosciuto luoghi dove era presente una sorta di welfare universale ma non all’interno della società industriale e capitalista. Luoghi dove la casa non può essere pensata come merce, dove la proprietà privata e inconcepibile e, soprattuto, società native definite da una configurazione diffusa del potere, distribuito in maniera tendenzialmente egualitaria tra le persone, ognuna portatrice di parola pubblica, di istanze, di volontà, che vanno considerate e rispettare nelle decisioni collettive.

da qui

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