domenica 24 luglio 2022

Palestina e l’informazione che non c’è

 


testi di Bds Italia, Johan Galtung, Yuval Abraham, Gideon Levy, Alex Levac, Leila Farsakh, Ramzy Baroud, Soulayma Mardam Bey, Humane Rights Watch, Miko Peled, Hagar Shefaz, Amira Hass, Romana Rubeo, Noam Chomsky, Francesca Albanese, Alessandra Mecozzi, Berlin Migrant Strikers

 

Scrivi alla Roma e alla Juve: Non c’è gioco pulito nell’Israele dell’apartheid

Sempre più il mondo dello sport si sta schierando a favore dei diritti dei palestinesi.

Tuttavia, alcune squadre di calcio si stanno mettendo dalla parte sbagliata della storia, permettendo che i loro celebri nomi vengano usati per ripulire con lo sport i crimini israeliani contro i palestinesi.

Juventus e Roma hanno in programma amichevoli nell’Israele dell’apartheid nelle prossime settimane.

Squadre palestinesi, i cui giocatori hanno perso la vita o sono stati resi invalidi a causa dei soldati israeliani e di attacchi militari, hanno scritto alle squadre italiane esortandole fortemente a cancellare queste partite per non essere complici.

Aggiungete la vostra voce alla loro.

Scrivete subito alla Roma e alla Juve. Non c’è gioco pulito nell’apartheid israeliano.

I giocatori dell’Al Khader FC, Mohammad Ghneim (19 anni) e Zaid Ghneim (14 anni) e il calciatore prodigio della Palestine Football Academy, Thaer Yazouri (18 anni), sono stati uccisi dai soldati israeliani ad aprile e maggio di quest’anno.

Il giocatore del Balata FC Saeed Odeh (16 anni) è stato ucciso dai soldati israeliani l’anno scorso.

La Palestine Amputee Football Association è composta da giocatori che hanno perso l’uso degli arti a causa degli attacchi militari di Israele a Gaza.

È per questi e per altri giocatori, per tutti i palestinesi giovani e anziani che continuano a sognare, che le squadre palestinesi si sono impegnati a non rimanere in silenzio e di tracciare una linea di picchetto morale che non si deve attraversare.

Unitevi a loro.

Inviate un’e-mail alla Roma e alla Juve: Annullate le partite. Fatelo per Mohammad, Zaid, Thaer, Saeed, gli amputati e troppi altri.

Continuate a pronunciare i loro nomi. E contribuite a cacciare l’apartheid dal calcio.

Gentili dirigenti, membri del consiglio di amministrazione, giocatori e staff tecnico,

mi unisco alle squadre palestinesi che vi fanno un forte appello a non giocare nell’Israele dell’apartheid.

Israele, proprio come altri regimi oppressivi, invita squadre celebri come la vostra perché sa che questi eventi sportivi sono un’occasione d’oro per ripulirsi l’immagine del suo regime di apartheid con lo sport. Contribuiscono a fornire all’apartheid di Israele la copertura di cui ha bisogno per continuare impunemente la sua prolungata e brutale oppressione di tutti i palestinesi, compresi i calciatori.

Giocare una partita oggi nell’Israele dell’apartheid, mentre continua a uccidere, mutilare e arrestare giovani calciatori palestinesi, va contro i valori autentici alla base dello sport in generale e di questo bellissimo gioco in particolare. Sarebbe come giocare una partita nel Sudafrica dell’apartheid negli anni Ottanta.

Il mondo dello sport ha sanzionato la Russia per la sua invasione illegale dell’Ucraina, che dura da mesi. È ora di porre fine all’ipocrisia prendendo una posizione simile contro il regime pluridecennale di colonialismo e apartheid di Israele.

Giocare la partita nell’Israele dell’apartheid è una scelta. Si può scegliere di stare dalla parte giusta della storia, unendosi a un numero crescente di squadre e atleti che si battono per i diritti dei palestinesi. Oppure potete scegliere di giocare per la Squadra dell’Apartheid e far sì che questo rimanga per sempre nel libro della storia del vostro club.

Ascoltate le squadre palestinesi. Annullate la partita. Fatelo per:

§  Zaid Ghneim, 14 anni, Al Khader FC, ucciso dai soldati israeliani, maggio 2022.

§  Thaer Yazouri, 18 anni, Accademia di calcio palestinese, ucciso dai soldati israeliani, maggio 2022

§  Mohammad Ghneim, 19 anni, Al Khader FC, ucciso dai soldati israeliani, aprile 2022

§  Saeed Odeh, 16 anni, Balata FC, ucciso dai soldati israeliani, maggio 2021

§  I giocatori della Palestine Amputee Football Association che hanno perso gli arti a causa degli attacchi militari di Israele a Gaza.

§  Non c’è gioco pulito nell’apartheid israeliano.

da qui

 

Medio Oriente e giornalismo mancante su conflitto e pace – Johan Galtung

La cultura locale sembra richiedere una breve introduzione nella propria lingua prima di passare all’inglese globalizzato. Io seguo l’esempio:

[Jeg tror ikke man kan snakke om Midtösten, og spesielt ikke legge frem et fredsforslag slik jeg har tenkt å gjöre, uten dyp medfölelse med verdens jöder for shoa, og med palestinenserne for okkupasjon og generasjoner i leire.  Jeg har levd nær begge siden jeg begynte å sette meg inn i konflikten en natt i januar 1964 på jernbanestasjonen i Gaza og tror jeg forstår og opplever traumenes dybde.  Ordet “fred” blir problematisk, en dröm et sted mellom forræderi og oppgivelse.  En oppfordring uten like].

Traduzione dal norvegese (a cura di TMS editor):

Non credo sia possibile parlare del Medio Oriente, e specialmente presentare una proposta di pace, come intendo fare, senza una profonda simpatia con gli ebrei del mondo per la shoah, e con i palestinesi per l’occupazione e le generazioni vissute nei campi [profughi]. Sono vissuto accosto ad entrambi da quando una notte di gennaio 1964 alla stazione ferroviaria di Gaza cominciai a capire il conflitto, dacché credo di capire e provare la profondità dei traumi. La parola “pace” diventa problematica, un sogno da qualche parte fra tradimento e abbandono. Un invito senza uguali.

Stando così le cose, mi si lasci procedure con cautela. Comincio allora con due immagini di affari internazionali, affari umani a dire il vero, due discorsi: l’approccio securitario e l’approccio pacifista; che competono per la nostra attenzione trattando la stessa preoccupazione per la violenza ma in modo diametralmente opposto:

L’approccio securitario si basa su quattro componenti:

1.      Un contendente cattivo, con grosse capacità d’intervento e brutte intenzioni;

2.      Un pericolo chiaro e attuale di violenza, reale o potenziale;

3.      Forza, per sconfiggere o scoraggiare il cattivo, che a sua volta produce

4.      Sicurezza, che è anche il miglior approccio alla “pace”.

L’approccio funziona quando contendenti cattivi/forti sono indeboliti da sconfitta o deterrenza, e/o convertiti a diventare buoni.

L’approccio pacifista si basa pure su quattro componenti:

1.      Un conflitto, che non è stato risolto/trasformato;

2.      Un pericolo di violenza per “sistemare il conflitto”;

3.      Trasformazione del conflitto, empatica creativa nonviolenta, che produce

4.      Pace, che è il miglior approccio alla “sicurezza”.

L’approccio funziona mediante risultati accettabili/sostenibili.

L’approccio securitario presuppone una forza superiore (di qualunque genere, Sun Tzu o Clausewitz), che implica disuguaglianza.

L’approccio pacifista presuppone un esito conflittuale accettabile a tutti i contendenti e sostenibile, che implica uguaglianza.

Credo siano riconoscibili come copioni in filigrana a pensieri, discorsi e azioni su tutta quanta la tematica del Medio Oriente – o di qualunque altro conflitto, dopo. I discorsi si traducono in giornalismo come due stili:

GIORNALISMO DI VIOLENZA GUERRA/VITTORIA

 

I. ORIENTATO A VIOLENZA/GUERRA?

focus sull’arena conflittuale,

2 parti, 1 obiettivo (vincere), guerra

orientato in generale a somma zero

spazio chiuso, tempo chiuso;

cause ed effetti nell’arena,

chi ha scagliato la prima pietra;

povero di contesto

focus solo su effetto visibile della

violenza (uccisi, feriti e

danno materiale)

rende le guerre opache/segrete

giornalismo “noi?loro”,

propaganda, voce per “noi”

vedere “loro” come il problema,

focus su chi prevale in guerra

disumanizzazione di “loro”;

più così, peggiore l’arma

reattivo: aspetta che avvenga la violenza prima di riferire

 

II. ORIENTATO A PROPAGANDA

espone le “loro” non-verità

aiuta le “nostre” coperture/bugie

 

III. ORIENTATO ALL’ELITE

focus sulla “loro” violenza  e  la ”nostra”  sofferenza; subìta dai   maschi nel loro vigore

impreca contro i “loro” malfattori

focus sui pacificatori d’élite, da loro megafono

 

IV. ORIENTATO ALLA VITTORIA

pace = vittoria + cessate-fuoco

nasconde iniziative di pace prima che sia a portata la vittoria

focus su trattato, istituzione, la società controllata

lascia il campo per un’altra guerra,

ritorna se riavvampa la vecchia storia

 

GIORNALISMO DI CONFLITTO/PACE

 

 

I. ORIENTATO AL CONFLITTO

esplora la formazione del conflitto,

x parti, y obiettivi, z problematiche

orientato in generale a un “win-win”

spazio aperto, tempo aperto;

cause ed esiti ovunque,

anche in storia/cultura;

ricco di contesto

focus anche su effetti invisibili della

violenza (trauma e gloria,

danno alla struttura/cultura)

rende i conflitti trasparenti

dà voce a tutti i contendenti;

empatia, comprensione

vedere conflitto/guerra come problema,

focus su creatività nel conflitto

umanizzazione di tutti i versanti;

più così, peggio le armi

proattivo: rtferisce anche prima che avvenga la violenza/guerra

 

II. ORIENTATO ALLA VERITA’

espone le non-verità su tuttii i versanti

svela tutte le coperture

 

III. ORIENTATO ALLA GENTE

focus sulla violenza da tutti i versanti e la sofferenza su tutti i versanti; subìta anche da donne, anziani, bambini

impreca contro tutti i malfattori

focus sui pacificatori del popolo, dando voce ai senza-voce

 

IV. ORIENTATO ALLA SOLUZIONE

pace = nonviolenza + creatività

esalta le iniziative di pace, anche per evitare ulteriore guerra

focus su struttura, cultura, sulla società  pacifica(ta)

dopoguerra: risoluzione, ricostruzione, riconciliazione

 

La scelta dello stile giornalistico è una scelta implicita del discorso da svolgere, attingendo a quel copione soggiacente. E io sostengo, ovviamente, che la seconda colonna è in complesso mancante.

In linea di principio abbiamo dieci tipi di media: per leggere, ascoltare, osservare a livello locale, nazionale e globale, e l’internet, il solo che approccia il livello globale significativamente. Che i media nazionali rispecchino le élite nazionali in posizione corretta o meno non è sorprendente, il che ci lascia accessibili i media locali come i più promettenti per un discorso di pace. Però, essendo locali sono probabilmente al loro meglio sui conflitti di livello micro- e meso-, mentre a livello macro e mega sono oltre il proprio orizzonte. Dunque siamo piuttosto malmessi. Ma la cosa può migliorare.

Nella Tabella ci sono quattro dimensioni principali che definiscono la cesura fra i due stili giornalistici. In uno l’essenza del discorso è l’atto violento e l’attore violento e se su questi si possa prevalere con una vittoria. Nell’altro l’essenza del discorso è un conflitto, cioè un focus su almeno due attori. Un tantino più complesso intellettualmente, in altre parole, ma non poi molto.  Quegli attori sono di solito disponibili a interviste; anzi, ambirebbero spegare i propripunti di vista sul conflitto. Che è appunto ciò su cui si focalizzerebbe il giornalismo di conflitto.e-pace, il suo pane:

“Che cosa c’è, secondo lei, sotto questo atto di violenza?”

“Che cosa, secondo lei, potrebbe essere un modo eventuale di risolvere quel conflitto?”

Giornalisti, comprendete queste due domande nel vostro repertorio standard e allora siamo in un giornalismo di pace. Più avanti potremmo chiedere lo stesso livello d’expertise che per, diciamo, sanità e finanza. Come si è espresso una volta il caporedattore del Toronto Star: Tutto ciò che chiedete è: date una pagina alla pace!  il punto non è che i giornalisti debbano patrocinare qualunque cosa; non dovrebbero far altro che rendere la pace più visibile, come segni di vita in un paziente in coma. Mentre invece il primo stile giornalistico di cui sopra si focalizzerebbe su chi vince, considerando qualunque tendenza a capire l’altra parte come un tentativo di giustificarne la violenza.

La tabella è auto-esplicativa e ampi commenti saranno presto disponibili su Reporting Conflict: Un’introduzione al Giornalismo di Pace, di Jake Lynch, Annabel McGoldrick e il sottoscritto. Concretamente, ecco cinque modi di fare giornalismo di pace, cinque “angolature di pace”:

1.      Consideriamo la pace in generale. E se fosse dedicare più giornalismo a riferire sulla pace? E magari riferire sulla pace notevole fra tante nazioni a Toronto e Sydney? Fra gli stati nordici, europei, dell’ASEAN? E generare un po’ di ottimismo?  Troppo estremista?

2.      Consideriamo la pace nel bel mezzo della violenza. Perfino durante un’estrema violenza in Jugoslavia e in Medio Oriente si poteva trovare e creare un po’ di pace; zone, arcipelaghi. Esploriamoli.

3.      In retrospettiva: la pace in passato. “Ma la situazione era pacifica prima, nevvero? Che cosa andò storto, e che cosa si sarebbe potuto fare a quel tempo? O qualcosa era sbagliato tutto il tempo?” Queste sono domande standard da mediatori e producono valide comprensioni interiori. Si potrebbero aggiungere al repertorio giornalistico, per tutte le parti in causa.

4.      In prospettiva: la pace in futuro. Di nuovo un esempio di domanda standard da mediatore: “Come sarebbe la Corea/Jugoslavia/regione del Golfo (Persico/Arabico)/Iraq etc. in cui le/vi piacerebbe vivere?”  Suscitare proposte e, ovviamente, stare attenti a proposte che siano già state fatte, e farne un profondo sondaggio giornalistico.

5.      Sguardo laterale: la pace da qualche altra parte. Tutti i conflitti sono unici, e tutti condividono qualcosa con altri, come per pazienti e malattie. Si cita spesso la Svizzera. Varrebbe forse la pena controllare tali analogie? Qualcosa di esistente da qualche parte potrebbe diventare fattibile altrove?…

continua qui

 

 

Un documento secretato rivela che le “zone di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni – Yuval Abraham

In una riunione top secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.

Un documento inedito rivela che Israele ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro, istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine etnico” tra ebrei e palestinesi.

Secondo il verbale di una riunione “top secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.

“Essendo la persona che ha fatto nascere nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo: fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo: costituire delle riserve di terra per le colonie”.

40 anni dopo, le osservazioni di Sharon hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è stata dichiarata zona di tiro militare.

La Divisione delle Colonie si era riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi. Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.

Sharon sarebbe diventato ancora più esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre 1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito di addestrarsi nell’area.

All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento. La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.

Protezione delle periferie ebraiche

Due ulteriori documenti portati alla luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.

“Esiste un fenomeno, in corso da diversi anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.

I verbali di un incontro del 1980 rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario? Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline meridionali di Hebron?

Sharon avrebbe presto avuto una risposta alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari. Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un trasferimento di popolazione.

Durante queste discussioni Sharon stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron, come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.

Per Sharon, come per molti altri leader israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.]. Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una parte cruciale della strategia di controllo di Israele.

Un segreto di Pulcinella

Secondo un rapporto di Kerem Navot, un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20% circa di queste zone per l’addestramento.

Alcuni esempi recenti mostrano che Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro posto.

Nell’ultimo decennio, ad esempio, i coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti. Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.

Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo, che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma Etkes.

Questo meccanismo si sta ripetendo nelle colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente all’interno della zona di tiro.

Che le zone di tiro siano utilizzate per rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono coinvolti, tranne i palestinesi.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

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