testi di Bds Italia, Johan Galtung,
Yuval Abraham, Gideon Levy, Alex Levac, Leila Farsakh, Ramzy Baroud, Soulayma
Mardam Bey, Humane Rights Watch, Miko Peled, Hagar Shefaz, Amira Hass, Romana
Rubeo, Noam Chomsky, Francesca Albanese, Alessandra Mecozzi, Berlin Migrant
Strikers
Scrivi alla Roma e alla Juve: Non c’è
gioco pulito nell’Israele dell’apartheid
Sempre più il mondo dello sport si sta
schierando a favore dei diritti dei palestinesi.
Tuttavia, alcune squadre di calcio si
stanno mettendo dalla parte sbagliata della storia, permettendo che i loro
celebri nomi vengano usati per ripulire con lo sport i
crimini israeliani contro i palestinesi.
Juventus e Roma hanno in
programma amichevoli nell’Israele dell’apartheid nelle prossime settimane.
Squadre palestinesi, i cui giocatori
hanno perso la vita o sono stati resi invalidi a causa dei soldati israeliani e
di attacchi militari, hanno scritto alle squadre italiane esortandole
fortemente a cancellare queste partite per non essere complici.
Aggiungete la vostra voce alla loro.
Scrivete subito alla Roma
e alla Juve. Non c’è gioco pulito nell’apartheid israeliano.
I giocatori dell’Al Khader FC, Mohammad Ghneim (19 anni) e Zaid Ghneim (14 anni) e
il calciatore prodigio della Palestine Football Academy, Thaer Yazouri (18 anni), sono stati uccisi dai
soldati israeliani ad aprile e maggio di quest’anno.
Il giocatore del Balata FC Saeed Odeh (16 anni) è stato ucciso dai soldati
israeliani l’anno scorso.
La Palestine Amputee Football
Association è composta da giocatori che hanno perso l’uso degli
arti a causa degli attacchi militari di Israele a Gaza.
È per questi e per altri giocatori, per
tutti i palestinesi giovani e anziani che continuano a sognare, che le squadre
palestinesi si sono impegnati a non rimanere in silenzio e
di tracciare una linea di picchetto morale che non si deve attraversare.
Unitevi a loro.
Continuate a pronunciare i loro nomi. E
contribuite a cacciare l’apartheid dal calcio.
Gentili dirigenti, membri del consiglio
di amministrazione, giocatori e staff tecnico,
mi unisco alle squadre palestinesi che
vi fanno un forte appello a non giocare nell’Israele
dell’apartheid.
Israele, proprio come altri regimi
oppressivi, invita squadre celebri come la vostra perché sa che questi eventi
sportivi sono un’occasione d’oro per ripulirsi l’immagine del suo regime di
apartheid con lo sport. Contribuiscono a fornire all’apartheid di Israele la
copertura di cui ha bisogno per continuare impunemente la sua prolungata e
brutale oppressione di tutti i palestinesi, compresi i calciatori.
Giocare una partita oggi nell’Israele
dell’apartheid, mentre continua a uccidere, mutilare e arrestare
giovani calciatori palestinesi, va contro i valori autentici alla
base dello sport in generale e di questo bellissimo gioco in particolare.
Sarebbe come giocare una partita nel Sudafrica dell’apartheid negli anni
Ottanta.
Il mondo dello sport ha sanzionato la
Russia per la sua invasione illegale dell’Ucraina, che dura da mesi. È ora di
porre fine all’ipocrisia prendendo una posizione simile contro il regime
pluridecennale di colonialismo e apartheid di Israele.
Giocare la partita nell’Israele
dell’apartheid è una scelta. Si può scegliere
di stare dalla parte giusta della storia, unendosi a un
numero crescente di squadre e atleti che si battono per i diritti dei
palestinesi. Oppure potete scegliere di giocare per la Squadra
dell’Apartheid e far sì che questo rimanga per sempre nel libro
della storia del vostro club.
Ascoltate le squadre palestinesi. Annullate la partita. Fatelo per:
§ Zaid Ghneim, 14 anni, Al Khader
FC, ucciso dai soldati israeliani, maggio 2022.
§ Thaer Yazouri, 18 anni, Accademia
di calcio palestinese, ucciso dai soldati israeliani, maggio 2022
§ Mohammad Ghneim, 19 anni, Al Khader
FC, ucciso dai soldati israeliani, aprile 2022
§ Saeed Odeh, 16 anni, Balata FC,
ucciso dai soldati israeliani, maggio 2021
§ I giocatori
della Palestine Amputee Football Association che hanno
perso gli arti a causa degli attacchi militari di Israele a Gaza.
§ Non c’è gioco pulito
nell’apartheid israeliano.
Medio Oriente e giornalismo mancante su
conflitto e pace – Johan Galtung
La cultura locale sembra richiedere una
breve introduzione nella propria lingua prima di passare all’inglese
globalizzato. Io seguo l’esempio:
[Jeg tror ikke man kan
snakke om Midtösten, og spesielt ikke legge frem et fredsforslag slik jeg har
tenkt å gjöre, uten dyp medfölelse med verdens jöder for shoa, og med
palestinenserne for okkupasjon og generasjoner i leire. Jeg har levd nær
begge siden jeg begynte å sette meg inn i konflikten en natt i januar 1964 på
jernbanestasjonen i Gaza og tror jeg forstår og opplever traumenes dybde.
Ordet “fred” blir problematisk, en dröm et sted mellom forræderi og
oppgivelse. En oppfordring uten like].
Traduzione dal
norvegese (a cura di TMS editor):
Non credo sia possibile parlare del Medio
Oriente, e specialmente presentare una proposta di pace, come intendo fare,
senza una profonda simpatia con gli ebrei del mondo per la shoah, e con i
palestinesi per l’occupazione e le generazioni vissute nei campi [profughi].
Sono vissuto accosto ad entrambi da quando una notte di gennaio 1964 alla
stazione ferroviaria di Gaza cominciai a capire il conflitto, dacché credo di
capire e provare la profondità dei traumi. La parola “pace” diventa problematica, un sogno da qualche parte fra
tradimento e abbandono. Un invito senza uguali.
Stando così le cose, mi si lasci
procedure con cautela. Comincio allora con due immagini di affari
internazionali, affari umani a dire il vero, due discorsi: l’approccio
securitario e l’approccio pacifista; che competono per la nostra attenzione
trattando la stessa preoccupazione per la violenza ma in modo diametralmente
opposto:
L’approccio securitario si
basa su quattro componenti:
1.
Un contendente cattivo, con grosse capacità d’intervento e brutte
intenzioni;
2.
Un pericolo chiaro e attuale di violenza, reale o potenziale;
3.
Forza, per sconfiggere o scoraggiare il cattivo, che a sua volta produce
4.
Sicurezza, che è anche il miglior approccio alla “pace”.
L’approccio funziona quando contendenti
cattivi/forti sono indeboliti da sconfitta o deterrenza, e/o convertiti a
diventare buoni.
L’approccio pacifista si basa pure su quattro componenti:
1.
Un conflitto, che non è stato risolto/trasformato;
2.
Un pericolo di violenza per “sistemare il conflitto”;
3.
Trasformazione del conflitto, empatica creativa nonviolenta, che produce
4.
Pace, che è il miglior approccio alla “sicurezza”.
L’approccio funziona mediante risultati
accettabili/sostenibili.
L’approccio securitario presuppone una
forza superiore (di qualunque genere, Sun Tzu o Clausewitz), che implica
disuguaglianza.
L’approccio pacifista presuppone un
esito conflittuale accettabile a tutti i contendenti e sostenibile, che implica
uguaglianza.
Credo siano riconoscibili come copioni
in filigrana a pensieri, discorsi e azioni su tutta quanta la tematica del
Medio Oriente – o di qualunque altro conflitto, dopo. I discorsi si traducono
in giornalismo come due stili:
GIORNALISMO
DI VIOLENZA GUERRA/VITTORIA I. ORIENTATO A VIOLENZA/GUERRA? focus sull’arena conflittuale, 2 parti, 1 obiettivo (vincere), guerra orientato in generale a somma zero spazio chiuso, tempo chiuso; cause ed effetti nell’arena, chi ha scagliato la prima pietra; povero di contesto focus solo su effetto visibile della violenza (uccisi, feriti e danno materiale) rende le guerre opache/segrete giornalismo “noi?loro”, propaganda, voce per “noi” vedere “loro” come il problema, focus su chi prevale in guerra disumanizzazione di “loro”; più così, peggiore l’arma reattivo: aspetta che avvenga la
violenza prima di riferire II. ORIENTATO A PROPAGANDA espone le “loro” non-verità aiuta le “nostre” coperture/bugie III. ORIENTATO ALL’ELITE focus sulla “loro” violenza
e la ”nostra” sofferenza; subìta dai maschi nel loro
vigore impreca contro i “loro” malfattori focus sui pacificatori d’élite, da
loro megafono IV. ORIENTATO ALLA VITTORIA pace = vittoria + cessate-fuoco nasconde iniziative di pace prima che
sia a portata la vittoria focus su trattato, istituzione, la
società controllata lascia il campo per un’altra guerra, ritorna se riavvampa la vecchia storia |
GIORNALISMO
DI CONFLITTO/PACE I. ORIENTATO AL CONFLITTO esplora la formazione del conflitto, x parti, y obiettivi, z problematiche orientato in generale a un “win-win” spazio aperto, tempo aperto; cause ed esiti ovunque, anche in storia/cultura; ricco di contesto focus anche su effetti invisibili
della violenza (trauma e gloria, danno alla struttura/cultura) rende i conflitti trasparenti dà voce a tutti i contendenti; empatia, comprensione vedere conflitto/guerra come problema, focus su creatività nel conflitto umanizzazione di tutti i versanti; più così, peggio le armi proattivo: rtferisce anche prima che
avvenga la violenza/guerra II. ORIENTATO ALLA VERITA’ espone le non-verità su tuttii i
versanti svela tutte le coperture III. ORIENTATO ALLA GENTE focus sulla violenza da tutti i
versanti e la sofferenza su tutti i versanti; subìta anche da donne, anziani,
bambini impreca contro tutti i malfattori focus sui pacificatori del popolo,
dando voce ai senza-voce IV. ORIENTATO ALLA SOLUZIONE pace = nonviolenza + creatività esalta le iniziative di pace, anche
per evitare ulteriore guerra focus su struttura, cultura, sulla
società pacifica(ta) dopoguerra: risoluzione,
ricostruzione, riconciliazione |
La scelta dello stile giornalistico è
una scelta implicita del discorso da svolgere, attingendo a quel copione
soggiacente. E io sostengo, ovviamente, che la seconda colonna è in complesso
mancante.
In linea di principio abbiamo dieci tipi
di media: per leggere, ascoltare, osservare a livello locale, nazionale e
globale, e l’internet, il solo che approccia il livello globale
significativamente. Che i media nazionali rispecchino le élite nazionali in
posizione corretta o meno non è sorprendente, il che ci lascia accessibili i
media locali come i più promettenti per un discorso di pace. Però, essendo
locali sono probabilmente al loro meglio sui conflitti di livello micro- e
meso-, mentre a livello macro e mega sono oltre il proprio orizzonte. Dunque
siamo piuttosto malmessi. Ma la cosa può migliorare.
Nella Tabella ci sono quattro dimensioni
principali che definiscono la cesura fra i due stili giornalistici. In uno
l’essenza del discorso è l’atto violento e l’attore violento e se su questi si
possa prevalere con una vittoria. Nell’altro l’essenza del discorso è un
conflitto, cioè un focus su almeno due attori. Un tantino più complesso
intellettualmente, in altre parole, ma non poi molto. Quegli attori sono
di solito disponibili a interviste; anzi, ambirebbero spegare i propripunti di
vista sul conflitto. Che è appunto ciò su cui si focalizzerebbe il giornalismo
di conflitto.e-pace, il suo pane:
“Che cosa c’è, secondo lei, sotto questo
atto di violenza?”
“Che cosa, secondo lei, potrebbe essere un
modo eventuale di risolvere quel conflitto?”
Giornalisti, comprendete queste due
domande nel vostro repertorio standard e allora siamo in un giornalismo di
pace. Più avanti potremmo chiedere lo stesso livello d’expertise che per, diciamo, sanità e finanza. Come
si è espresso una volta il caporedattore del Toronto Star: Tutto ciò che
chiedete è: date una pagina alla pace! il punto non è che i giornalisti
debbano patrocinare qualunque cosa; non dovrebbero far altro che rendere la
pace più visibile, come segni di vita in un paziente in coma. Mentre invece il
primo stile giornalistico di cui sopra si focalizzerebbe su chi vince,
considerando qualunque tendenza a capire l’altra parte come un tentativo di
giustificarne la violenza.
La tabella è auto-esplicativa e ampi
commenti saranno presto disponibili su Reporting Conflict:
Un’introduzione al Giornalismo di Pace, di Jake Lynch, Annabel McGoldrick e il
sottoscritto. Concretamente, ecco cinque modi di fare giornalismo di pace,
cinque “angolature di pace”:
1.
Consideriamo la pace in generale. E se fosse dedicare più giornalismo a
riferire sulla pace? E magari riferire sulla pace notevole fra tante nazioni a
Toronto e Sydney? Fra gli stati nordici, europei, dell’ASEAN? E generare un po’
di ottimismo? Troppo estremista?
2.
Consideriamo la pace nel bel mezzo della violenza. Perfino durante
un’estrema violenza in Jugoslavia e in Medio Oriente si poteva trovare e creare
un po’ di pace; zone, arcipelaghi. Esploriamoli.
3.
In retrospettiva: la pace in passato. “Ma la situazione era pacifica prima,
nevvero? Che cosa andò storto, e che cosa si sarebbe potuto fare a quel tempo?
O qualcosa era sbagliato tutto il tempo?” Queste sono domande standard da
mediatori e producono valide comprensioni interiori. Si potrebbero aggiungere
al repertorio giornalistico, per tutte le parti in causa.
4.
In prospettiva: la pace in futuro. Di nuovo un esempio di domanda standard
da mediatore: “Come sarebbe la Corea/Jugoslavia/regione del Golfo (Persico/Arabico)/Iraq
etc. in cui le/vi piacerebbe vivere?” Suscitare proposte e, ovviamente,
stare attenti a proposte che siano già state fatte, e farne un profondo
sondaggio giornalistico.
5.
Sguardo laterale: la pace da qualche altra parte. Tutti i conflitti sono
unici, e tutti condividono qualcosa con altri, come per pazienti e malattie. Si
cita spesso la Svizzera. Varrebbe forse la pena controllare tali analogie?
Qualcosa di esistente da qualche parte potrebbe diventare fattibile altrove?…
Un documento secretato rivela che le “zone
di tiro” dell’IDF sono costruite per dare terra ai coloni – Yuval Abraham
In una riunione top
secret tenutasi nel 1979, qui per la prima volta svelata, l’allora Ministro
dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò che le zone di tiro avevano lo scopo di
creare “riserve di terra” per gli insediamenti coloniali, nel contesto del suo
più ampio piano di stabilire “confini etnici” tra ebrei e palestinesi.
Un documento inedito rivela che Israele
ha creato “zone di tiro militari” nella Cisgiordania occupata come meccanismo
per trasferire terreni agli insediamenti coloniali. Quelle zone di tiro,
istituite apparentemente ai fini di addestramento militare, sono state
realizzate nell’ambito di una strategia più ampia rivolta a creare un “confine
etnico” tra ebrei e palestinesi.
Secondo il verbale di una riunione “top
secret” del 1979 della Settlement Division della World Zionist Organization [la
Divisione per le colonie, è un ente privato che agisce nell’ambito
dell’Organizzazione Sionista Mondiale ma è interamente finanziato da fondi
pubblici israeliani. Agisce come agente governativo nell’assegnazione di terre
ai coloni ebrei in Cisgiordania, ndt.] che lavora in tandem con il governo
israeliano, l’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon spiegò come la
realizzazione di zone di tiro in tutta la Cisgiordania avesse come unico
obiettivo finale quello di fornire la terra ai coloni israeliani.
“Essendo la persona che ha fatto nascere
nel 1967 le zone di tiro militari, ho voluto destinarle tutte a uno scopo:
fornire un’opportunità per l’insediamento coloniale ebraico nell’area”, disse
Sharon durante la riunione. “Non appena la Guerra dei Sei Giorni finì, ero
ancora di stanza nel Sinai con la mia divisione. Quando ho disegnato queste
zone mi trovavo nel Sinai. Le zone di tiro sono state create per uno scopo:
costituire delle riserve di terra per le colonie”.
40 anni dopo, le osservazioni di Sharon
hanno avuto conseguenze di vasta portata, poiché migliaia di palestinesi a
Masafer Yatta, nelle grandi colline a sud di Hebron e nella Valle del Giordano
sono attualmente sotto diretta minaccia di espulsione dopo che la loro terra è
stata dichiarata zona di tiro militare.
La Divisione delle Colonie si era
riunita per discutere la creazione di insediamenti coloniali nelle aree della
valle del Giordano dichiarate zone di tiro, e quindi chiuse ai palestinesi.
Sharon rese noto di aver delineato i confini delle zone di tiro sin dall’inizio
e ordinato il trasferimento delle basi militari in Cisgiordania in modo che la
terra fosse sequestrata a fini di insediamento coloniale.
Sharon sarebbe diventato ancora più
esplicito riguardo ai suoi piani per le zone di tiro. Solo due anni dopo, durante
un altro incontro della Divisione per le Colonie, il ministro affermò che era
stata decisa [la realizzazione, ndt.] della zona di tiro 918 al di sopra di
Masafer Yatta [insieme di 19 frazioni palestinesi nelle colline meridionali di
Hebron nella Cisgiordania meridionale, ndt.] per fermare la “diffusione degli
abitanti dei villaggi arabi sul fianco della montagna verso il deserto”. A
maggio l’Alta Corte israeliana ha dato il via libera all’espulsione di oltre
1.000 palestinesi da otto villaggi di Masafer Yatta per consentire all’esercito
di addestrarsi nell’area.
All’udienza dell’Alta Corte lo Stato ha
affermato che la distruzione di queste comunità – che gli abitanti affermano
essere lì almeno dalla fine del 19° secolo – è necessaria per l’addestramento.
La scorsa settimana l’esercito ha iniziato a inviare carri armati, impiegare
armi da fuoco e posizionare mine vicino alle case del villaggio.
Protezione delle periferie ebraiche
Due ulteriori documenti portati alla
luce da +972 fanno chiarezza sulla motivazione politica alla base della
creazione di colonie e zone di tiro nelle colline meridionali di Hebron. In
base a quanto dichiarato da Sharon, egli ha cercato di creare una “zona
cuscinetto” tra i cittadini beduini di Israele nel Negev/Naqab e gli abitanti
palestinesi della Cisgiordania meridionale, dove si trova Masafer Yatta.
“Esiste un fenomeno, in corso da diversi
anni, di contiguità fisica tra la popolazione araba del Negev e gli arabi delle
colline di Hebron. Si è creata una situazione in cui il confine [della terra di
proprietà araba] si è spinto più profondamente nel nostro territorio”, disse
Sharon al comitato nel gennaio 1981. “Dobbiamo creare rapidamente una zona
cuscinetto di insediamenti coloniali che si insinui tra le colline di Hebron e
la comunità ebraica del Negev. Sharon è arrivato persino a etichettare questa
zona cuscinetto come un “confine etnico” che avrebbe impedito ai palestinesi
della Cisgiordania di raggiungere la “periferia di Be’er Sheva [città del sud
di Israele, la più grande del deserto del Negev, ndt.]”.
I verbali di un incontro del 1980
rivelano come Sharon ritorni sulla stessa questione: “A Hura [una cittadina
beduina nel Negev/Naqab] c’è una comunità araba in crescita di migliaia di
persone. Questa comunità ha contatti con la popolazione araba delle colline
meridionali di Hebron. Pertanto il confine passerà praticamente nelle vicinanze
di Be’er Sheva, vicino a Omer [una ricca città del Negev-Naqab]. Supponiamo che
io aggiunga altre decine di migliaia di ebrei a Dimona o Arad [due città
operaie nel sud di Israele], e che li voglia lì. Come colmerò questo divario?
Come farò a creare un cuneo tra i beduini del Negev e gli arabi delle colline
meridionali di Hebron?
Sharon avrebbe presto avuto una risposta
alla sua domanda. Quell’anno Israele dichiarò 30.000 dunam [3.000ettari] di
terra nella punta meridionale della Cisgiordania delle zone di tiro militari.
Come Sharon aveva ben chiaro, queste zone furono realizzate come confini
etnici: a sud delle zone militari c’erano dozzine di villaggi beduini non
riconosciuti all’interno di Israele, mentre a nord e ad ovest c’erano le città
palestinesi e le cittadine delle colline a sud di Hebron. All’interno della
zona militare rimasero le migliaia di palestinesi che ora devono affrontare un
trasferimento di popolazione.
Durante queste discussioni Sharon
stabilì persino la creazione di nuovi insediamenti coloniali ebraici nel
Negev-Naqab, come Meitar, così come nelle colline occupate a sud di Hebron,
come Maon e Susiya, che avrebbero fatto parte della stessa zona cuscinetto.
Per Sharon, come per molti altri leader
israeliani, la nozione stessa di territorio arabo contiguo era una minaccia
diretta alle ambizioni dello Stato di controllare quanta più terra possibile su
entrambi i lati della Linea Verde [la linea di demarcazione stabilita negli
accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e alcuni fra i Paesi
arabi confinanti alla fine della guerra arabo-israeliana del 1948-1949, ndt.].
Ancora oggi, le colonie ebraiche in Cisgiordania e nel Negev/Naqab rimangono una
parte cruciale della strategia di controllo di Israele.
Un segreto di Pulcinella
Secondo un rapporto di Kerem Navot,
un’organizzazione [israeliana, ndr.] che tiene traccia degli insediamenti
coloniali nella Cisgiordania occupata, nel 2015 circa il 17% della Cisgiordania
è stata designata come sede di varie zone di tiro militari, in particolare
nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e lungo il confine
orientale con la Giordania. La maggior parte di queste assegnazioni furono
fatte immediatamente dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 e
all’inizio degli anni ’70. Secondo il rapporto l’esercito utilizza solo il 20%
circa di queste zone per l’addestramento.
Alcuni esempi recenti mostrano che
Israele si sta spingendo ancora più in là dei cuscinetti etnici di Sharon tra
ebrei e palestinesi. Oggi i palestinesi in tutta la Cisgiordania vengono
espulsi dalle zone di tiro, mentre i coloni stanno lentamente prendendo il loro
posto.
Nell’ultimo decennio, ad esempio, i
coloni hanno stabilito 66 cosiddetti avamposti agricoli, che occupano enormi
appezzamenti di terra in Cisgiordania, nonostante abbiano pochi residenti.
Circa un terzo di quel territorio, 83.000 dunam [8.300 ettari], che i coloni
hanno conquistato attraverso il pascolo, si trovano all’interno di zone di tiro
militari. Queste aree – almeno sulla carta – dovrebbero essere chiuse sia agli
ebrei che ai palestinesi. I soldati israeliani nella Valle del Giordano hanno
persino ammesso apertamente che consentono ai coloni di utilizzare le zone di
tiro, mentre vietano ai palestinesi di fare lo stesso.
Dror Etkes, a capo di Kerem Navot, ha
detto a +972 che negli ultimi anni c’è stato un aumento significativo del
subentro di coloni nelle zone di tiro. “Questa è la logica conseguenza di
quanto fece Ariel Sharon 55 anni fa. Le fattorie avamposto coloniale sono state
progettate in modo tale da consentire l’occupazione di vaste aree di pascolo,
che nell’agosto del 1967 erano state dichiarate zone di tiro militari”, afferma
Etkes.
Questo meccanismo si sta ripetendo nelle
colline meridionali di Hebron. L’anno scorso la Divisione per le Colonie ha
assegnato un terreno nella zona di tiro 918 a uno dei coloni che vivono nelle
vicinanze. Le foto aeree mostrano che nella zona di tiro sono state costruite nuove
strutture appartenenti a tre avamposti coloniali – Mitzpe Yair, Avigayil e
Havat Ma’on – stabiliti nell’area nel 2000. L’anno scorso, i coloni hanno
persino cercato di realizzare un nuovissimo avamposto coloniale direttamente
all’interno della zona di tiro.
Che le zone di tiro siano utilizzate per
rafforzare il progetto di colonizzazione e l’espropriazione della popolazione
nativa dei territori occupati è ormai un segreto di Pulcinella e tutti vi sono
coinvolti, tranne i palestinesi.
Yuval Abraham è un giornalista e
attivista che risiede a Gerusalemme.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)
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