Alcuni incrollabili ottimisti si sono persuasi che non occorra dare forma ad un blocco sociale che converta il legittimo malessere in fermento rivoluzionario: basterebbe aspettare che, come sarebbe ormai prevedibile, il capitalismo si suicidi per via delle sue patologie inarrestabili, combinate con disuguaglianze talmente profonde da non essere più sopportabili e dal consumarsi frenetico e autodistruttivo della smania di accumulazione e dell’avidità.
Per farli contenti si potrebbe anche aggiungere, a conforto della loro
tesi, che l’establishment è ormai costituito da fantocci e manigoldi che,
secondo imprecisati criteri riferibili alle leggi dell’obbedienza, fondano le
loro carriere su errori, incapacità di giudizio, distanza remota della realtà
alimentati da tracotanza e hybris, concesse loro da genti ormai possedute da un
istinto ancora più autodistruttivo di quello che anima il sistema.
Ci sarebbe da dar loro ragione, l’oligarchia le sbaglia tutte, per
sopravvivere è costretta a creare di continuo emergenze su emergenze che non
sanno governare, miti fasulli che non sanno mettere a frutto, strumenti di
morte e sopraffazione che gli si potrebbero ritorcere contro se solo noi lo
volessimo.
Per un mese – faccio degli esempi banali – il golpista a capo del governo
ha preteso il sacrificio simbolico di brasarsi nell’afa canicolare a
dimostrazione di un impegno morale volto alla rinuncia di beni primari in forma
di punizione del nemico comune. Così oggi il ricorso al condizionatore si è
arricchito del carattere antagonista di un plebiscito contro Draghi.
Potremmo anche pensare al preciso intento selettivo e penitenziale degli
Invalsi, a conferma di una idea di scuola basata su “test e
misurazioni standardizzate” e che aspira al successo formativo.
Oggi abbiamo appreso che l’unica qualità degli Invalsi è quella di aiutare
una diagnosi del fallimento delle sue perverse intenzioni: da almeno due anni,
grazie alla verifica dell’efficacia, gli Invalsi dimostrano l’entità del
rischio imprenditoriale di fondare il sistema dell’istruzione sui criteri del
marketing, a suffragarne l’insuccesso.
E difatti vi ricordate quando il Covid doveva essere una sfida difficile ma
anche un’opportunità per mettere alla prova le opportunità della
digitalizzazione, per abituare le future generazioni a impiegare strumenti e
occasioni informatiche e tecnologiche per arricchirsi in qualità di capitale
umano vantaggioso per l’intera società?
Adesso sappiamo che i test condotti indicano che non ci sono nette
differenze rispetto all’epoca pre-pandemica. Se si è riusciti a fermare i cali
di apprendimento in alcune materie, gli studenti sotto il livello di base in
matematica arrivano al 70 per cento in Campania, Calabria, Sicilia e
Sardegna e quelli provenienti da situazioni familiari svantaggiate. E se la scuola primaria sembra tornata in
carreggiata, medie e superiori confermano il gap negli apprendimenti a causa
del solco provocato dal Covid e dalla scarsa qualità della didattica a distanza
degli anni scorsi: in quinta superiore il 52% degli studenti ha raggiunto
almeno il livello adeguato in italiano.
Questo significa che il restante 48% dei ragazzi non l’ha raggiunto. Siamo
allo stesso livello del 2021 (52% con livello adeguato), ma rispetto al 2019
(nel 2020 le prove Invalsi non sono state svolte per via dell’emergenza
sanitaria) eravamo al 64 per cento. Sempre nelle stesse regioni del
Mezzogiorno non raggiungono il B2 il 60% dei ragazzi nella prova di reading (livello B2 in inglese) e l’80% in
quella di listening (tecniche di
ascolto), a conferma delle forti disuguaglianza educative nelle
regioni del Mezzogiorno sia in termini di diversa capacità della scuola di
attenuare l’effetto delle differenze socio-economico-culturali sia in termini
di differenze tra scuole e, soprattutto, tra classi.
Ora chissà da che contesto territoriale e familiare arriva il funzionario
probabilmente in cima alle graduatorie di reading e listening del Dipartimento per il sistema
educativo di istruzione e formazione che in una nota di servizio colloca
Piacenza in Lombardia, o da che zona del Sud trascurata anche da Cristo, sotto
Eboli, provengono i contabili delle filiali delle nostre banche che quando non
cercano di affibbiarci titoli tossici, sono ridotti all’ozio se c’è una
sospensione di rete o di corrente, perché, in vista di altri destini, hanno
trascurato le tabelline in favore di tecniche di marketing.
Possiamo far risalire al 2008, dopo l’avvio del grande ciclo delle
privatizzazioni che tra il 1993 e il 1999 ha smantellato l’economia pubblica
italiana, grazie alle pressioni estere esercitate dalle regole iperliberiste
dell’Unione economica e monetaria europea nata da Maastricht nel 1992, e dalla
grande finanza ansiosa di accaparrarsi a buon mercato i pezzi
più produttivi e profittevoli della nostra industria nazionale, con il taglio
di oltre 8 miliardi dal bilancio dell’istruzione, la demolizione definitiva del
sistema di insegnamento e apprendimento tradizionale.
La privatizzazione del patrimonio pubblico ha prodotto inevitabilmente
quello della scuola – formalmente pubblica, ma gestita secondo criteri
aziendalistici che perseguono la sola logica del profitto, eliminando ogni
residuo di spirito comunitario e solidaristico e per questo il luogo dove si
dovrebbero formare cittadini dotati di conoscenze grazie sviluppare spirito
critico, è quello più colpito dalla controriforme, che non a caso recano
al firma del fronte progressista riconducibile ai partiti della ex sinistra.
Dobbiamo a essi, consegnatosi disarmati al neoliberismo, la scelta di
un impegno “morale” finalizzato a cancellare “la scuola «disinteressata»
e «formativa»” secondo Gramsci, o lasciandone
solo un esemplare ridotto per una piccola élite di privilegiati, che si è tradotto
in indirizzi pedagogici e culturali, in dispositivi, norme e regolamentazione
volte rompere con una tradizione storica ormai giudicata vetusta, arcaica e non
rispondente agli archetipi di un capitalismo irrefrenabile, che trasforma in
merce valori, principi, aspirazioni e persone e che per questo deve cominciare
dalla culla e dai banchi facendo retrocedere il sapere e la cultura in un
apprendistato al lavoro servile, ripetitivo, alienante.
A questo dovevano servire le indicazioni di Bruxelles subito adottate dal
nostro Ministero, per introdurre nell’insegnamento fin dai primi anni di
percorso didattico, forme di “educazione allo spirito di
impresa” (sic) e al “rischio imprenditoriale”,
in modo da indottrinare piccoli balilla e prepararli alle sfide della guerra
per la competitività.
Il paradosso consiste nella consapevolezza che siamo nelle mani di bande di
incapaci e di personalità distruttive che non sanno portare a compimento
neppure i loro propositi velenosi: hanno distrutto un patrimonio, uno tra gli
altri, per farne un’azienda tra le altre, che non è in grado di sfornare i
prodotti desiderati, eserciti di manovalanza equipaggiata di miserabili nozioni
di base utili a tirar su le loro piramidi, ma che sbagliano i calcoli, le
misure, le distanze. Unica speranza è che i faraoni vengano travolti dai
detriti rovinosi che hanno determinato.
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