Il rigore e l’impegno del professore - VALERIA DELLA VALLE
Ricordare in breve Luca Serianni, il suo magistero, le sue pubblicazioni,
la sua attività di docente, è impresa difficile. Difficile anche immaginare
come una sola persona abbia potuto, nel corso di una vita dedicata interamente
alla ricerca e all’insegnamento, studiare a fondo tanti e diversi aspetti della
lingua italiana. Difficile anche per me che l’ho conosciuto nel primo anno di
università, seduti vicini ad ascoltare le lezioni di quello che sarebbe
diventato il nostro maestro, Arrigo Castellani.
Vorrei ricordare almeno, scegliendo dalla sua sconfinata bibliografia, i saggi
dedicati agli antichi testi toscani, ai puristi, al primo e al secondo
Ottocento, a Dante, a Manzoni. E poi la fondamentale Grammatica italiana (Utet
1988) i tre volumi della Storia della lingua italiana Einaudi, diretta con
Pietro Trifone nel 1993, il Devoto–Oli Vocabolario della lingua italiana curato
in numerose edizioni con Maurizio Trifone a partire dal 2004. Quello che
colpisce, nella produzione di Serianni, è la vastità dei suoi interessi, che lo
hanno portato a occuparsi della lessicografia antica e moderna, della lingua
della medicina, di quella dei viaggiatori, dei musicisti, dei poeti, del
melodramma, della lingua del diritto, ma anche del romanesco, della prosa degli
scrittori, della lingua dei cantautori. Proprio qui sta la sua singolarità: uno
studioso privo di pregiudizi e paraocchi accademici, disposto ad analizzare con
lo stesso rigore e con la stessa curiosità testi diversissimi, letterari e non
letterari, ma tutti indagati come testimonianze del modificarsi e
dell’evolversi della nostra lingua.
PER DARE UN’IDEA della vastità delle sue ricerche, basterà citare il volume Per
l’italiano di ieri e di oggi (il Mulino, 2017), in cui gli allievi hanno
raccolto ventotto suoi saggi. Scorrendo l’indice abbiamo un quadro eloquente
degli interessi di Serianni: non solo Dante, ma Canova, Cavour, Tomasi di
Lampedusa, Fedele D’Amico, fino a Toti Scialoia e a un’indagine sulle parole
più ricorrenti nel linguaggio infantile. Aveva contato molto, nella formazione
di Luca Serianni, essere stato allievo (il migliore allievo) di Arrigo
Castellani, il grande storico della lingua italiana che ho citato all’inizio.
Da lui aveva ereditato il tratto signorile e un po’ «d’altri tempi» e la
capacità di spiegare i meccanismi linguistici in modo chiarissimo, nitido,
quasi matematico. In più, rispetto al suo maestro, Serianni sapeva aggiungere
nella leggendarie lezioni di storia della lingua italiana il particolare
suggestivo, l’aneddoto, la battuta capace di conquistare gli studenti. Più che
ripercorrere l’elenco dei suoi studi, vorrei qui ricordare l’impegno di
Serianni nei confronti della scuola e dell’educazione linguistica dei futuri cittadini:
al primo posto, nella gerarchia dei suoi valori, c’erano il ruolo di docente e
il compito sociale e civile dell’insegnamento. Non a caso, nella conversazione
con Giuseppe Antonelli intitolata Il sentimento della lingua (il Mulino, 2019),
aveva dichiarato che «Nel caso della lingua italiana, avverto anche l’esigenza
di un certo impegno civile: diffondere la padronanza della lingua e della sua
storia è un modo per rafforzare il senso di appartenenza a una comunità».
E INFATTI tante sue opere sono diventate testi di culto per chi insegna: da
Prima lezione di grammatica (Laterza 2006) a Scritti sui banchi (Carocci 2009),
da L’ora di italiano (Laterza 2010) a Leggere, scrivere, argomentare (Laterza
2013), da Prima lezione di storia della lingua italiana (Laterza 2015) fino al
recente Parola di Dante (il Mulino 2021), per non nominare le grammatiche
scolastiche pubblicate in numerosissime edizioni che vanno dal 1992 a oggi,
sulle quali hanno studiato generazioni di studenti. Questo suo impegno costante
nei confronti del mondo della scuola lo ha visto protagonista di incontri con
studenti e insegnanti: non solo nei licei storici (l’ultima sua lezione
sull’importanza dello studio delle lingue classiche si è svolta al Liceo
Virgilio nella «Notte del liceo classico» il 6 maggio 2022), ma nelle scuole di
periferia e della provincia italiana, nelle chiese (le tre lezioni magistrali
su Dante nella chiesa Regina Pacis di Ostia, nel novembre del 2021), nelle
lezioni sulla «Lingua italiana come cittadinanza» al quartiere Tufello per un
progetto del III Municipio di Roma. Ecco, ora che purtroppo devo ricordare
quello che Luca Serianni ci ha lasciato, sono costretta a fare delle scelte e a
privilegiare un aspetto, trascurandone altri di grande prestigio (la sua
attività come accademico dei Lincei, della Crusca e dell’Arcadia, come
vicepresidente della Società Dante Alighieri, come presidente della fondazione
Lincei per la scuola).
SCELGO ALLORA di rievocare l’ultima lezione di Luca Serianni, quella fatta il
14 giugno del 2017 nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere della Sapienza. In
quell’aula gremita come per un concerto rock, in un silenzio interrotto solo
dagli applausi scroscianti di studenti, ex studenti e colleghi, Serianni,
rivolgendosi agli studenti, disse: «Ho avuto, nel mio lavoro, come riferimento
il secondo comma dell’articolo 54 della Costituzione, che dice "I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle
con disciplina e onore". Per questo ho chiesto ai miei allievi: “Sapete
che cosa rappresentate per me? Voi rappresentate lo Stato».
E aveva aggiunto: «Spero che questa affermazione possa lasciare traccia di sé
in quanti, un giorno, dovessero ricoprire cariche pubbliche. Non sta a me
stabilire se io abbia adempiuto al precetto costituzionale». Che Luca Serianni
abbia adempiuto fino in fondo al precetto costituzionale è dimostrato dal modo
in cui ha svolto fino agli ultimi giorni la sua missione di educatore. Per
migliaia di studenti Luca Serianni è stato non «un» professore ma «il» professore:
chi frequenta i social sa che in questi giorni, dopo l’assurdo incidente che ne
ha provocato la morte, un’ondata di affetto e di ricordi si è riversata nel
sito a lui intitolato.
NON POTREBBE ESSERE diversamente per chi come lui ha messo al centro del suo
impegno gli studenti (cosa non ovvia nel mondo universitario). Per ricordarlo
ricorrerò proprio alle parole scelte dai suoi ex allievi (ormai diventati a
loro volta insegnanti, ricercatori, professori, giornalisti, bibliotecari,
autori radiofonici, scrittori, sceneggiatori) nel libro prima citato: «Per noi
il nostro Maestro è semplicemente, Luca, e così è archiviato nelle memorie
digitali e sentimentali che ci appartengono. È uno di famiglia, a cui vogliamo
bene perché ci ha fatto mostra e dono di molte cose: il tempo, la
disponibilità, la correttezza, il senso del dovere e, buona ultima, la
conoscenza». Le molte conoscenze che Luca ci ha trasmesso continueranno a
vivere nelle sue opere, per noi e per le generazioni future, ma l’amico ci
mancherà per sempre.
Luca Serianni, lezioni di italiano - Francesco Erbani
Luca Serianni, storico della lingua
italiana, accademico dei Lincei e della Crusca, è morto dopo essere stato
investito da un’auto lunedì 18 luglio, mentre attraversava la strada sul
litorale romano di Ostia. Serianni, che aveva 74 anni, ha insegnato in diverse
università e ha chiuso la sua carriera accademica alla Sapienza di Roma nel
2017. Lo ha fatto con una lezione di congedo tenuta davanti a centinaia di
persone, colleghi, ex allievi, amici, ma soprattutto davanti ai suoi studenti
che affollavano l’aula I della facoltà di lettere. E ha chiuso la prolusione
rivolgendosi a questi ultimi: “Sapete che cosa rappresentate per me? Immagino
che non lo sappiate. Voi rappresentate lo stato”.
Si è espresso così senza accenti enfatici,
anzi abbassando la voce e tenendo gli occhi fissi sul foglio dove aveva
appuntato il suo discorso. È rimasto fedele al suo stile compassato anche in
una circostanza emotivamente coinvolgente per chi all’essere insegnante ha
dedicato tanto impegno quanto all’essere studioso di assoluta e riconosciuta
qualità. L’unica breccia nel suo profilo austero Serianni l’apriva per farvi
passare una controllata ironia giocata sul registro del professore
apparentemente serioso e invece amabile, disponibile alla parodia pur di
rendere accessibile il suo sapere.
Voi rappresentate lo stato, detto ai suoi
studenti, fornisce anche l’idea che Serianni coltivava di una comunità e in
particolare di una comunità linguistica, di una comunità dei parlanti. È una
comunità che riconosce le regole e che fa riferimento a un codice. Ma è una
comunità aperta e lo scopo fondamentale dei suoi membri è capirsi
reciprocamente. Le norme e il loro rispetto consentono questa relazione, ma poi
è importante anche il modo in cui si usano le norme, compreso
il fatto che possono cambiare con il tempo, perché è sempre la comunità dei
parlanti a decidere come dev’essere una lingua.
Serianni si sottraeva elegantemente quando
qualcuno voleva ergerlo a giudice severo di una lingua italiana considerata
ormai disfatta. E se come parametro si usava la presunta scarsa frequenza del
congiuntivo, lui, dati alla mano, mostrava che non era affatto scarsae che,
anche limitatamente alla lingua parlata, dopo “io spero” era difficile che
anche in una chiacchierata non comparisse un verbo al congiuntivo.
Orientarsi nel mondo
Allievo prima di Arrigo Castellani, poi di
Ignazio Baldelli, che lo vuole come assistente nella cattedra di storia della
lingua italiana, Serianni diventa ordinario nel 1980. La sua produzione
scientifica è vasta. Fin dalla metà degli anni settanta si cimenta con la
lingua letteraria del duecento e del trecento, poi lavora sulla grammatica
storica. Le sue lezioni sono basate su affondi nell’evolversi dell’italiano
sempre sostenuti dall’analisi di testi ed esaminando sia le trasformazioni della
lingua sia le trasformazioni della società italiana verificabili attraverso la
lingua.
Contemporaneamente l’attenzione degli
allievi è però richiamata sul ruolo che la lingua svolge nel promuovere
consapevolezza, senso di orientamento nel mondo, cultura diffusa. Come può
avvenire questo? Con l’ampliamento graduale del proprio vocabolario, con
l’arricchirsi della sintassi, con il confronto di una lingua con un’altra,
compreso il proprio dialetto, con l’adattarsi della lingua a un contesto
specifico, con il ragionare sulle differenze tra lingua scritta e lingua
parlata.
Serianni guarda con scrupolo alla
formazione linguistica e dunque ai compiti della scuola. Nelle sue lezioni e
poi in un libro del 2010, L’ora d’italiano (Laterza)
contesta che sia il tema lo strumento migliore per abituare i ragazzi alla
scrittura. Consente di migliorare la padronanza della lingua, ma non limita la
tentazione di andare a ruota libera. Lui aggiunge di “sbrodolare”.
È il riassunto, invece, la regina delle
prove, perché impone di capire un testo, di mettere in ordine gerarchico le sue
parti, dalla più importante alle meno importanti, e di dire con altre parole
quello che c’è nel testo. Va bandito, insiste Serianni, l’eccesso di
grammaticalismo, tipico della classica versione di latino, del tutto priva di
riferimenti a un contesto. E invece il latino serve nella sua storicità, dando
importanza al suo lessico, al significato delle parole, in raffronto costante
con l’italiano.
La chiarezza dell’argomentare spinge
Serianni fuori dai recinti accademici. È consulente del ministero
dell’istruzione per i programmi scolastici e susciterà qualche polemica il suo
suggerimento di eliminare dalle prove scritte per la maturità il tema di
carattere storico (scelto, per altro, da una minoranza assoluta di studenti).
Si moltiplica la sua produzione scientifica.
Tra il 1993 e il 1994 cura insieme a
Pietro Trifone una Storia della lingua italiana in
tre volumi, che si affianca all’einaudiana Letteratura italiana diretta
da Alberto Asor Rosa. Verranno poi, tra gli altri, Prima lezione di grammatica (Laterza 2006), Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura (Laterza
2013), Il sentimento della lingua (conversazione con
Giuseppe Antonelli, il Mulino 2019), Il verso giusto. 100 poesie
italiane (Laterza 2020) e infine Parola di Dante (il Mulino 2021), in cui ragiona,
smontandola, sulla presunta alterità della lingua della Commedia rispetto all’italiano di oggi.
Serianni dentro e fuori dalle aule
universitarie, con i suoi libri, gli incontri pubblici e le interviste, si
mostra custode ragionevole di una qualità della lingua e bandisce tanto le
sciatterie quanto le visioni apocalittiche. Sono troppi gli anglicismi? Sono
l’uso dei parlanti e dunque il tempo lungo di una lingua ad accettare quelli
ammissibili e a scartare quelli inammissibili.
Lo stesso vale per i neologismi. Piuttosto
è lesivo del diritto di chiunque a capire cosa esige una pubblica
amministrazione il fatto che questa infarcisca la comunicazione con parole
inglesi o, peggio, con malaccorte traduzioni. Ma non è un dramma per chi, come
Serianni, sostiene che non è la norma a fare l’uso, ma l’uso a fare la norma.
Parlando ai suoi studenti il giorno in cui
ha lasciato l’università - era un’afosa mattina del giugno 2017 - Serianni ha
ricordato i suoi maestri e quella regola alla quale si è sempre attenuto con
gli allievi, vale a dire di riconoscerne le qualità senza forzarne le
inclinazioni di studio e di ricerca. A patto però, ha aggiunto indirizzando lo
sguardo complice verso i ragazzi, che, sia che privilegiassero la linguistica storica,
sia che si orientassero verso quella testuale, quella letteraria o verso la
sociolinguistica, si attenessero a un obbligo inderogabile: quello di usare
l’accento acuto sul sé di sé stesso. Una sua radicata e proverbiale concessione
al grammaticalmente corretto.
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