C’è qualcosa di assai peggiore dello stipendio (oggettivamente) basso degli insegnanti, per cui pure lunedì hanno scioperato: la perdita di senso. La torsione aziendalistica impressa alla scuola negli ultimi quindici anni mira scientemente alla “diffusione di una cultura solipsistica e sempre più performativa, la de-territorializzazione e, in definitiva, la progressiva disumanizzazione degli operatori dell’istruzione e dei loro stessi utenti finali” (Pietro Li Causi).
Non sono vuote parole di polemica: la scuola è una
struttura sempre più dirigistica. I Collegi docenti, anziché discutere e
deliberare, si limitano a recepire gli editti del dirigente scolastico. Nella
versione della Zoomata online, con telecamere spente, il dibattito è vieppiù
compromesso (esistono eccezioni, beninteso). Parliamo di un dirigente talora
digiuno, o ormai dimentico, dei problemi reali dell’insegnamento; non di rado
responsabile di scuole assai diverse spalmate su più plessi o addirittura su
più comuni, dunque umanamente incapace di seguire tutto e le centinaia di
allievi e docenti. Terrorizzato dai ricorsi e pronto a intervenire ad alzare i
voti degli allievi per evitare bocciature, passa da un’emergenza a un’altra,
tampona le falle, ambisce – succubo egli stesso del moloch burocratico che solo
impera – alla perfezione formale di procedure per mostrare che “qui va tutto
bene”. Prendete i famosi Pcto (ex Alternanza Scuola-Lavoro), o i percorsi di
Educazione Civica Trasversale: i programmi sono spesso stabiliti centralmente e
rovesciati su docenti inconsapevoli e riottosi, costretti a lasciare che i
ragazzi (per giorni) si assentino per volantinare in un Centro commerciale o
per vendere gadget dinanzi all’Euroflora.
Oppure costretti a inventare unità didattiche
improponibili e forzate per far entrare l’articolo 9 in una lezione di scienze
motorie, o la parità di genere in una lezione di algebra (e il voto va in
pagella). Alcuni insegnanti si ingegnano e trovano talora soluzioni
accettabili, creative o addirittura geniali, ma la situazione resta assurda.
Sembra perda di senso l’essenziale e che la trasmissione, la condivisione e la
verifica del sapere non siano più il core business di tutta la baracca. Le
nozioni appaiono liofilizzate in uno spezzatino tanto più grondante di
ipocrisia quanto formalmente schematizzato in rapporti dettagliatissimi
(competenze, conoscenze, applicazioni, unità, punti di forza, e consimili
deformazioni della neolingua pedagogistica), non letti da nessuno ma redatti
dai docenti in interminabili pomeriggi – qualcuno ha visto un “documento del 15
maggio”?
“Ptof, Pdp, Clil, Rav…” : il proliferare di queste
incomprensibili sigle cela la spersonalizzazione e la standardizzazione della
funzione docente. E anche la sbandierata attenzione agli studenti fragili è
assai dubbia: si obbligano gli insegnanti a estenuanti corsi di “inclusione”,
forse con la mira malcelata di eliminare i docenti di sostegno, ma non è certo
con i piani didattici personalizzati (talora redatti sotto l’imperio di
protocolli medici di dubbia fondatezza) o con la burocratizzazione a oltranza
che si stabilisce il contatto umano con chi ha più bisogno d’attenzione. E la
capacità di relazionarsi con gli studenti certo non si favorisce (anzi, si
ostacola) con la compulsiva verbalizzazione di ogni minimo colloquio o con
asettici indicatori numerici, spesso schiaffati lì a priori e accompagnati da
righe scopiazzate da appositi anonimi repertori.
Per questo motivo, ben più che per le questioni
monetarie, l’annuncio della creazione di un’ulteriore e costosissima Spectre
dal nome altisonante (“Scuola di Alta Formazione dell’istruzione”) pronta a
irradiare le proprie occhiute vigilanze in tutte le scuole imponendo de facto
corsi di formazione che affrontano i contenitori e non i contenuti
(progettazione, mentoring, flipped classroom etc.) ha spinto alla protesta: il
tempo degli insegnanti viene ancora una volta colonizzato gratis, sottratto
all’aggiornamento vero, alla lettura, allo scambio con i colleghi e con
l’Università, ormai sempre più mondo distante e avulso. Sarà una ulteriore
produzione di carta inutile e di attestati validi quanto le onorificenze del
Basso Impero; un’ulteriore mortificazione di chi guarda alla sostanza,
all’alunno troppo silenzioso o al valore formativo di un’uscita a teatro, al
piacere di discutere degli asintoti o delle traduzioni di Virgilio, piuttosto
che a inutili percorsi di didattica innovativa o a corsi che ingrassano il
business dei formatori e non servono nemmeno a motivare o mettere in
discussione i docenti neghittosi o rinunciatari (che pure, ovviamente,
esistono). È un ulteriore avvitamento in un sistema di quantificazione e
ricerca dei “punti-mela” che contagia gli stessi studenti, come da anni il
sistema dei crediti universitari. Questa china burocratica e pedagogistica, già
imboccata da tempo, ingenera frustrazioni e abbandoni e, soprattutto,
peggiorare la preparazione e le capacità dei ragazzi. Ma non pare un’evidenza
sufficiente per invertire la rotta. Anzi.
Su questi altari si sacrificano risorse che sarebbe stato
meglio investire in una delle missioni più urgenti (la tanto vituperata
Azzolina aveva iniziato a pensarci operativamente), ovvero la riduzione del
numero di allievi per classe. I docenti più esperti ricordano quante cose si
potevano fare con 18-20 alunni: più verifiche, più scambi individuali ma anche
di gruppo, riflessione didattica non standardizzata, vera “cura” delle giovani
menti, condivisione genuina. Invece si prevedono tagli di posti (9.600 in 5
anni in omaggio alla denatalità) e il finanziamento della premialità per l’
“Alta formazione” con le risorse della carta del docente. Questo sistema, così
prono ai più sofisticati sistemi di valutazione, finisce per selezionare i
futuri docenti tramite test a crocette in cui si chiede l’autore del Vantone
(proviamo a farlo con gli ordinari di letteratura italiana?) o la data (non il
contenuto, si badi!) della circolare ministeriale sull’informatica a scuola: è
tragicomico. Se tutto ciò fosse stato disposto da un ministro diverso da
Bianchi – uomo permeato di cultura aziendalistica e pedagogia neoliberale, buon
seguace di Adam Smith, ma protetto dall’intangibilità dei “migliori” -, ci
sarebbe stata la rivoluzione. Chissà, magari alla fine ci sarà davvero
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