Periodi duri come
quello attuale richiedono misure straordinarie. Tra disoccupazione, inflazione
galoppante e insicurezza economica crescente, servirebbero ricette innovative e
di ampia portata a favore dei lavoratori. Di sicuro i partiti non stanno
lavorando sull’innovatività, ma sembrerebbero almeno dedicarsi ad un intervento
di dimensioni ragguardevoli. Stiamo parlando infatti della solita, immancabile,
immarcescibile proposta di “patto tra governo e parti sociali per un taglio shock al cuneo fiscale, ovvero al costo del
lavoro”. Secondo le attuali proposte, tale taglio dovrebbe far ottenere una
mensilità in più a 15 milioni di lavoratori dipendenti con retribuzioni fino ai
35mila euro lordi. Cerchiamo di capire se questa proposta può essere
soddisfacente, ma prima di tutto inseriamo un dato di realtà: non è affatto vero che – come si
lamentano i nostri imprenditori – il costo del lavoro (dato da salari più oneri
accessori, quali contributi previdenziali, etc.) in Italia è più alto che in
altri paesi.
Tenendo questo in
mente, un aumento di ciò che i lavoratori percepiscono effettivamente in busta
paga dovrebbe essere, di per sé, un segnale positivo, soprattutto in periodi di
forte erosione del potere d’acquisto. Un elemento che immediatamente emerge è però
legato in prima battuta proprio al tipo di elargizione che si vorrebbe
concedere. Sgravi di vario genere infatti si sono già succeduti negli anni, non
ultimo il famoso bonus da 80€ di renziana memoria. Se quindi può essere accolta
con favore l’entità crescente di questo tipo di mossa, non si può ignorare il
fatto che tale intervento si faccia strada in un contesto in cui misure come il
salario minimo faticano a imporsi e al contempo si spinge sempre più sulle
contrattazioni di secondo livello. Tradotto: sì, i lavoratori possono
beneficiare di qualche soldo in più, ma questo si può fare solo tramite bonus
che non intaccano la posizione del tutto sottomessa del lavoro dipendente.
Unito a ciò va
considerato il fatto che, quando si tratta di elargire finanziamenti di portata
ragguardevole, il secchio che va dallo Stato ai lavoratori è sempre pronto ad
essere bucato. Non è infatti un caso che, dati i circa 16 miliardi di euro
necessari ad implementare tale misura, Confindustria vorrebbe che tali risorse
fossero ripartite per 2/3 a favore dei lavoratori (10,7 miliardi), e il
rimanente 1/3 alle imprese (5,3 miliardi). In questo modo, sempre secondo Confindustria, si garantirebbe un
beneficio di 1.223€ per lavoratore. Evidentemente il Governo a guida Draghi,
per quanto prodigo di attenzioni verso il mondo delle imprese, secondo gli
appetiti confindustriali non sta ancora facendo abbastanza. E, si badi, anche
in questo caso ci troviamo di fronte a una minestra riscaldata; veniamo infatti
da anni in cui – nonostante le continue lamentele da parte del mondo
imprenditoriale – già abbiamo avuto diversi interventi di riduzione del
cuneo totalmente a favore delle imprese: un esempio lo
abbiamo avuto sempre col governo Renzi, che ha consentito la piena deducibilità
dall’IRAP del costo per lavoro dipendente. Qualcuno si è accorto che questa
diminuzione del cuneo fiscale ha portato aumenti in busta paga ai lavoratori? A
noi non pare…
Arriviamo poi al fatto
che il secchio d’acqua, dopo essere stato bucato, debba anche essere scambiato
con qualche contropartita prima di essere consegnato al destinatario. Il
contesto fiscale di riferimento non è infatti neutrale rispetto alla messa in
atto di qualsivoglia intervento pubblico. Non bisogna infatti mai dimenticare
che l’Italia ha due grossi macigni legati saldamente alle gambe. Da un lato
abbiamo un sistema fiscale fortemente regressivo, dove strutturalmente i
redditi da capitale sono sottratti di fatto alla fiscalità generale e al
contempo l’IRPEF è smaccatamente tagliata in favore dei redditi più alti
sottoposti a imposizione fiscale. Dall’altro lato l’adesione acritica alle
regole di bilancio europee (ormai inscritte anche in Costituzione) fa sì che
per ogni spesa debba essere prevista una copertura, o, quantomeno, bisogna che
nel corso del tempo si prevedano percorsi di rientro dai deficit (vedasi
il caso del PNRR).
Questo combinato
disposto produce un effetto collaterale esiziale. Dentro tale schema non è
infatti possibile trovare altra strada per far posto a questi 16 miliardi per
il cuneo se non in due modi. Volendo agire sul fronte dell’imposizione fiscale,
dato l’evidente orecchio da mercante che i partiti di governo fanno sulle
riforme del fisco, non resterebbe che accontentare la Commissione Europea, la
quale ci chiede da tempo immemore di alzare le tasse sui consumi. È
immediatamente evidente il portato profondamente regressivo che un aumento dell’IVA avrebbe proprio
sui soggetti beneficiari dell’intervento di abbattimento del cuneo. In
alternativa, non resterebbe che dare come contropartita un ulteriore
deterioramento nell’offerta di servizi pubblici, cosa che farebbe ben
felici i grandi e piccoli avvoltoi pronti a fiondarsi su ulteriori carcasse di
rete pubblica di sostegno alle famiglie.
Insomma, nel quadro attuale
non resterebbe altra scelta ai lavoratori se non quella di autofinanziarsi di
fatto il taglio al cuneo fiscale. Una beffa che si aggiunge ai danni già in
corso d’opera.
Ricapitoliamo, per
cogliere fino in fondo il paradosso: i lavoratori di fatto si caricano del
costo della riduzione del cuneo (attraverso l’aumento di qualche altra forma di
tassazione e/o la riduzione di servizi pubblici) e una quota di questa
operazione finisce a diminuire il costo del lavoro per le imprese, determinando
di fatto un trasferimento a loro favore; un vero capolavoro per un’operazione
che doveva servire a mettere qualche spicciolo in più nelle tasche dei
lavoratori!
Infine, arriviamo alla
fregatura vera e propria: un portato velenoso che non tocca le tasche dei
lavoratori o la capacità di spesa dello Stato ma che agisce in maniera più
subdola sulla coscienza di classe. Il discorso generale rimane infatti sempre e
comunque inchiodato sulla necessità che il lavoro costi meno per poter essere
impiegato. Si perde così di vista il punto chiave di cosa determini
l’occupazione: non il costo del lavoro e flessibilità
contrattuale degli occupati, bensì la crescita stabile e continua della domanda di
beni e servizi. La storiella del cuneo fiscale insomma è un modo come un altro
per riproporre – e come abbiamo detto in maniera neanche originale – le solite
politiche del lavoro dal lato (di destra) dell’offerta, con l’altrettanto
solito e odioso refrain secondo cui, se sei disoccupato, è colpa tua perché
costi troppo. La verità è l’esatto contrario e, come abbiamo detto più
volte, l’unico modo di alzare i salari è alzare i
salari.
Nessun commento:
Posta un commento