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Molti nemici molto onore – Gregorio Piccin
Il nuovo “concetto strategico” della Nato approvato dal vertice di Madrid della scorsa settimana è il punto d’arrivo di una traiettoria tesa come un proiettile che comincia col vertice di Roma del 1991. Allora, subito dopo la prima guerra del Golfo, venne prospettata l’espansione verso est e la professionalizzazione delle forze armate alleate come presupposto per la proiezione della forza oltre i confini dei Paesi membri.
In un trentennio di belligeranza e di allargamento l’Alleanza ha fatto a pezzi il diritto internazionale, rilanciato la sua piattaforma militare globale, avviato una nuova guerra fredda e trainato la corsa agli armamenti.
La Nato del 2022, come un mafioso che pretende di sedersi sullo scranno del giudice, si auto celebra entità morale globale senza dimostrare il minimo pudore rispetto a quell’ immenso cumulo di macerie e disperazione lasciato in eredità ai popoli su cui ha puntato il suo micidiale mirino “democratico”.
In perfetta aderenza con la narrazione mainstream e con recenti documenti europei come quello sulla così detta “Bussola Strategica”, risulterebbe infatti che il blocco euro-atlantico sia assediato da minacce formidabili. Minacce di ogni genere: simmetriche, asimmetriche, ibride, valoriali, statali, non statali, climatiche.
“La nostra visione è chiara: vogliamo vivere in un mondo in cui la sovranità, l’integrità territoriale, diritti umani e il diritto internazionale siano rispettati e in cui ogni Paese possa scegliere il proprio cammino, libero da aggressioni, coercizioni o sovversioni. Lavoriamo con tutti coloro che condividono questi obiettivi. Siamo uniti, come alleati, per difendere la nostra libertà e contribuire a un mondo più pacifico” – si legge tra le tante asserzioni di principio contenute nel documento.
Nel frattempo si accetta l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza in cambio della consegna dei curdi al dittatore Erdogan (così lo ha definito Draghi) mentre gli si consente di invadere Siria, Iraq ed occupare porzioni di Libia; si continuano a fornire le basi tecniche alle petromonarchie del Golfo per il genocidio degli yemeniti e si permette ad Israele di perpetrare il suo apartheid contro il popolo palestinese.
“…La sicurezza umana, compresa la protezione dei civili e la riduzione dei danni ai civili, è al centro del nostro approccio alla prevenzione delle crisi…” – si legge ancora nel documento. Eppure la stessa Nato ha recentemente rivendicato l’immunità presso l’Alta corte di Belgrado per l’epidemia da uranio impoverito scaturita dai “bombardamenti umanitari” del 1999 e ancora in pieno corso.
Ma il problema è che questo documento non è una pagliacciata, anche se potrebbe sembrarlo. La millanteria morale e umanitaria di cui è intriso fa il paio con la drammatica concretezza delle misure che verranno messe in campo.
In piena recessione e crisi sociale il segretario generale dell’Alleanza Stoltemberg ha dichiarato che il 2% del Pil per le spese militari non è un punto d’arrivo per gli alleati ma un punto di partenza e sarà proprio così visto che l’intenzione è quella di portare da 40.000 a 300.000 gli effettivi della Forza di reazione rapida della Nato. Questa decuplicazione epocale richiederà infatti anche un adeguato affiancamento di nuovi mezzi e assetti che i Paesi membri dovranno fornire. Contemporaneamente Biden ha dichiarato che “Gli Usa aumenteranno le difese in Europa e forze aeree aggiuntive in Italia”.
Ma l’Europa, dove la Russia viene considerata “…la minaccia più significativa alla sicurezza degli Alleati…”, non è certo l’unico ambito di interesse della Nato globale. Si passa dal quadrante indo-pacifico dove “…le politiche coercitive della Cina sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori…” al Medio oriente, all’Africa, agli oceani, allo spazio siderale.
In questa accelerazione della guerra fredda contro Russia e Cina l’Europa non sta a guardare, non è inerme, non è sottomessa agli interessi degli Stati Uniti come troppo spesso si sente dire. L’Europa, grazie all’irresponsabile ceto politico che la governa, è parte attiva di questo processo:
secondo il Sipri di Stoccolma l’80,4% nella produzione di armi e sistemi d’arma a livello globale, con annessa internazionalizzazione della filiera bellica, è controllato da multinazionali del blocco euro-atlantico e dai suoi impresentabili alleati (tra cui Turchia, Israele, Emirati Arabi).
I 35 miliardi per la “difesa” messi recentemente a disposizione dall’Italia si sommano ai 100 miliardi stanziati dalla Germania e ai 295 miliardi già messi in campo dal Francia con la Legge di programmazione militare di Macron. Queste cifre non faranno altro che confermare ed accrescere il dato del Sipri.
Senza considerare che già ora, al netto dei futuri aumenti di spesa, i soli budget della “difesa” francese e tedesco sono quasi il doppio di quello russo e che la spesa Nato è 18 volte superiore.
Lo scorso 29 giugno Draghi, da Madrid, lo ha ammesso senza infingimenti: “Si arriva a una corrispondenza tra Unione Europea e Nato, e così le divergenze d’opinione sulla costruzione di una difesa europea – che è quello che noi vogliamo – ma anche di una sua complementarietà con la difesa Nato, vengono superate”.
Con queste evidenze appare chiaro che la responsabilità per la corsa agli armamenti degli ultimi trent’anni e per quella a venire, con la sua scia di milioni di morti, profughi e devastazioni ricade quasi esclusivamente sull’occidente e sulle proprie élite di cui Draghi è senza dubbio uno dei più degni rappresentanti.
Queste élite, un tempo dominanti incontrastate della globalizzazione capitalista sembrano oggi spingere per una nuova divisione del mondo in blocchi (non più ideologici, anche se questa è la narrazione posticcia) e per una militarizzazione della così detta “competizione strategica”. Ma questo processo non lineare e contraddittorio, che comporterà la ridefinizione delle catene di approvvigionamento e della divisione internazionale del lavoro sarà evidentemente doloroso e incerto.
L’interdipendenza che il capitalismo ha creato e ampliato sin dalle sue origini, le recenti votazioni all’Onu sulla questione ucraina, l’affacciarsi di nuovi sistemi di scambio valutario/finanziario nell’area euroasiatica e Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) a cui hanno chiesto di aderire anche Argentina e Iran, dimostrano ancora una volta che il mondo e la così detta comunità internazionale non si risolvono nel blocco euro-atlantico e che il narcisismo suprematista dell’occidente è fuori tempo massimo.
Di certo a pagare il prezzo di questa ristrutturazione saranno le classi lavoratrici intese in senso lato ed anche pezzi importanti del tessuto delle Pmi che verranno spazzate via o assorbite e rimodulate dai processi di concentrazione capitalistica tipici di ogni crisi.
Il riarmo occidentale, apparentemente inutile vista la già straripante e documentabile supremazia euro-atlantica, sta accompagnando una ribalta dei nazionalismi, delle politiche di potenza e parallelamente una tragica chiusura degli spazi multilaterali dove affrontare i grandi problemi dell’umanità: disuguaglianze, fame, cambiamento climatico, disarmo.
Il riarmo europeo in particolare sembra rivolto non tanto alla “difesa” dalla Russia ma all’accompagnamento di una politica di potenza interna alla Nato per sostenere lo scomposto neocolonialismo europeo verso le tradizionali aree di conquista: Africa (messa chiaramente in evidenza anche nel documento sulla “Bussola Strategica” europea), Medio Oriente, America Latina e parte dell’Asia.
E’ una prospettiva che ricorda molto i prodromi della prima guerra mondiale. Ma oggi, con la variante nucleare.
L’opposizione sociale e politica a questo delirio bellicista diventa oggi un imperativo assoluto di r-esistenza.
Transito di armi a Genova. La ribellione dei portuali continua – Anna Polo
Il CALP (Collettivo autonomo lavoratori portuali) reagisce con sdegno alla risposta, definita “banale e sciocca” del Sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano all’interrogazione presentata dalla parlamentare Yana Ehm del gruppo ManifestA sul transito di armi nel porto di Genova.
Di Stefano ammette che la nave “Bahri Jeddah” battente bandiera dell’Arabia Saudita, attraccata nel porto lo scorso aprile, proveniente da Baltimora (USA) e diretta verso Alessandria (Egitto) con sbarco di destinazione a Jeddah (Arabia) e Jebel Ali (Emirati Arabi Uniti) trasportava “materiale militare, anche pericoloso ed esplosivo, ma non radioattivo”.
Con una giravolta tecnica di rara ipocrisia, Di Stefano afferma poi che questi transiti, contrastati anche in passato da scioperi e blocchi del porto di Genova, non violino la legge 185/90 sull’esportazione di armi, perché queste non vengono scaricate o maneggiate dai portuali, ma rimangono nelle stive o nei container. Dunque “non si ravvede la necessità di assumere specifiche iniziative in proposito.”
Ma possibile, chiedono i portuali, assistiti dallo studio dell’avvocato Andrea Danilo Conte che “la necessità di rispettare le normative internazionali sui trasporti prevalga su quella di rispettare le normative internazionali sui diritti umani?” Merci prima di esseri umani, insomma. Logica economica a discapito della vita umana. Risposta tecnica invece che politica.
Eppure il transito di armi destinate a Paesi in conflitto e per di più colpevoli di gravi violazioni di diritti umani viola l’articolo 9 del Trattato sul commercio delle armi e anche l’articolo 11 della Costituzione. Inoltre, ricorda il CALP, “il 20 dicembre 2020 la Commissione Esteri della Camera ha votato la risoluzione n. 7-00588 di embargo nei confronti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, così come hanno fatto molti Paesi dell’Unione Europea. Il 17 settembre 2020 il Parlamento Europeo ha stabilito che le armi esportate in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti vengono utilizzate nella guerra dello Yemen, dove 22 milioni di persone hanno bisogno di protezione e aiuti umanitari”.
“Contrastare il traffico delle armi per noi portuali è una cosa che sentiamo dal profondo del cuore. I nostri padri hanno combattuto il traffico delle armi nella guerra del Vietnam, nel colpo di stato in Cile e nel regime dei colonnelli greci. Noi continueremo sempre a combattere questo traffico della morte. Ci troveranno sempre qua, a prescindere dal governo che ci sarà” promettono.
Ugualmente dura la reazione della deputata Yana Ehm: “La risposta del Sottosegretario Di Stefano alla mia interrogazione è stata assurda. Pur riconoscendo il fatto che le navi “Bahri” sono utilizzate per trasferire armamenti dal Nord America verso l’Arabia, Di Stefano ha addotto delle motivazioni improbabili per giustificare l’ingiustificabile. Il nostro Paese non può far transitare armamenti destinati ai territori di guerra e invece questo accade e sarebbe già accaduto anche in passato.
“Tutti i principali porti italiani sono interessati al transito di armamenti destinati ad aree di conflitto” prosegue la nota della parlamentare di ManifestA. “Nel febbraio 2020, a Genova, fu ordinato il sequestro del cargo libanese «Bana», i cui ufficiali sono stati accusati di traffico d’armi dalla Turchia alla Libia.
Nel maggio e giugno 2021 sono transitati dai porti di Genova, Livorno, Napoli, Ravenna mezzi carichi di bombe destinati a Israele per il bombardamento di Gaza, mezzi contenenti armamenti ed esplosivi di fabbricazione francese sono stati trasportati in oltre 200 container dalle navi della compagnia Ignazio Messina da Marsiglia-Fos (passando per Genova) ai porti sauditi nel periodo 2017-2020. Al largo di Dakar in Senegal è stata sequestrata la nave «Eolika» – sotto bandiera guyanese -partita da La Spezia con un carico di munizioni Fiocchi destinato alla Repubblica Dominicana.
I transiti descritti, se provati, contrasterebbero palesemente il valore costituzionale sancito dall’art. 11, i principi sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”
Dal canto suo The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei denuncia “l’assoluta assenza di trasparenza e la negazione concreta dell’accesso alla documentazione di carico delle navi saudite” e ritiene “del tutto legittime e ragionevoli le proteste di lavoratori, abitanti e associazioni, vista una situazione di pericolo oggettivo che si ripete nel porto di Genova in media ogni tre settimane da ben otto anni.”
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