Ma a Bolza in realtà ignoravano che dentro a quel delirio sarebbe finito anche il nostro piccolo stagno periferico, perché noi che abitavamo vicino alla caserma non eravamo di Genova ma neanche di Bolzaneto: eravamo in una zona senza nome
(Questo racconto del giornalista e scrittore genovese Simone Pieranni è
parte del terzo numero di dinamoprint: Dov’è finita la globalizzazione? ORDINALO)
All’inizio a noi di Bolza dava un po’ fastidio che Genova (come chiamavamo
noi il “centro”) fosse blindata. Significava non poter partire verso mezzanotte
per andare andare in giro nella vicolanza a raccogliere quello
che rimaneva dell’alcool nei locali – che non erano mica tanti come adesso,
anzi – e cercare un po’ di scitto da fumarsi tornando indietro
o da lasciare a quelli che poi andavano a fare le scianche sui
rettilinei verso la Caserma o in Fillak che allora il Ponte stava su bello
fermo e a noi piaceva tutto sommato, anche perché altrimenti per andare di là,
a ponente, dovevi fare delle strade che puzzavano già di Savona al primo metro.
Dal fruttivendolo o nei bar marci, con vista campo rom e più indietro lo
scheletro della raffineria Sanac abbandonato, c’era tutto sto parlare, in
particolare delle mutande appese nei vicoli e del pesto senza aglio che voleva
fortemente Berlusconi, infastidito da questa città di mare che con quelli come
lui, come dire, aveva già ampiamente dato.
Anche se la scelta di Genova era stato di baffetto D’Alema, un’altra cosa
che non dimentichiamo, neanche oggi.
La vita da reclusi dei fighetti del centro storico sinceramente ci faceva
ridere, sai che menata, oddio, non poter comprare la spezia cool, non poter
sfoggiare il vestito etnico comprato in Uganda o non poter fare i milanesi di
merda con sti aperitivi ridicoli che noi a Bolzaneto i milanesi li avremmo
impallinati già all’uscita dell’autostrada; i più social già allora, che
significava leggere qualche giornale e farsi qualche domanda, il contrario di
quanto significhi oggi, si chiedevano che delirio sarebbe successo.
Ma diciamoci la verità: sapevamo tutti che sarebbe venuto giù il mondo.
Bastava passare per “le alte” per andare in centro, con la macchina di sera nei
giorni precedenti al 19 luglio 2021, per capire anche senza averli vissuto che
il clima era quello del 1960. Si sentiva che il momento sarebbe stato storico e
secondi alcuni – ma eravamo ancora in vena di risate – tutto era cominciato con
il concerto di Manu Chao e via a mettere gli Iron nello stereo della Ritmo
nera. Solo che stavolta non ci sarebbero stati i fascisti dall’altra parte, ma
tutto lo Stato, anzi gli 8 Stati.
E le avvisaglie erano già state abbastanza chiare, almeno che uno veramente
non volesse vedere per principio: alle guardie a marzo era già stata concessa
una giostra gratis a Napoli, per allenarsi.
Ma a Bolza in realtà ignoravano che dentro a quel delirio sarebbe finito anche
il nostro piccolo stagno periferico, perché noi che abitavamo vicino alla
caserma non eravamo di Genova ma neanche di Bolzaneto: eravamo in una zona
senza nome, che infatti sarebbe stata da lì a poco perfino cancellata; quelle
case non esistono più oggi, e non esistevano più prima che Genova tornasse
nelle cronache quotidiane con un altro disastro, il crollo del ponte Morandi.
Ora non è per questione di campanilismo ma quando dite Genova per parlare della
caserma di Bolzaneto o del ponte Morandi dovreste imparare anche a dire dove si
trovano: nella Valpolcevera.
Non so dire se ho mai visto in vita mia il Polcevera, questo torrente arido
come i nostri sentimenti di allora, con un po’ d’acqua; forse in occasione di
qualche alluvione, parola che dalle nostre parti impari presto, perché prima o
poi accade.
E non pensavamo che nella nostra faretra delle sfighe dovesse arrivare
anche quella di una caserma lì vicino, che quasi non sapevi neanche ci fosse,
che lo sapevi perché qualche caramba ogni tanto si fermava in qualche bar e
l’aria diventava pesante, che quelle erano zone vicino al Giro del vento, dove
un tempo la malavita aveva detto la sua e che a nessuno piaceva frequentare
granché.
E ovviamente poi sarebbero spuntati i grossi, quelli che fanno
i pazzeschi e che in piazza mai visti: belin belan dovevamo
menarli mentre si bevevano il bianchino, e giù leggende metropolitane di ho
sentito un canazzo dire che, di ho sentito sbirri che avrebbero detto che, di
giornalisti che avrebbero detto che. Ma poi il 20 e il 21 saranno stati a
Vesima: di sicuro non erano in piazza. Resta il fatto che le abbiamo prese e le
abbiamo date, sul campo. Ma in realtà abbiamo preso un cappotto storico, roba
da 8-0 e a casa.
Via Tolemaide, foto in alto di Gianluigi Gurgigno e Valentina
Fusco
Ancora oggi qualcuno mi chiede: ma dov’eri durante quei giorni? Ma davvero
me lo stai chiedendo: dove poteva essere un avanzo di famiglia impiegatizia, fomentato
dai racconti dei reduci a loro volta fomentati dai racconti dei reduci e chissà
da quante generazioni di reduci che la voglia di menare le mani era talmente
alta che quando si avvicinava i giorni clou sembravamo delle scimmie sotto
cocaina.
Ma poi: ha davvero importanza dove era una persona, quando in trecentomila
sono arrivati, si sono presi la città e per una volta i genovesi si sono
mischiati e diventando parte di quei 300mila l’hanno anche lasciata a loro:
fate quello che volete e anzi vi diremo di più, se salta qualche aiuola me
ne vado a battere il belino sugli scogli, “perché il 1960” e “La liberazione DA
SOLI senza aiuto di nessuno”, e ci mancava che qualcuno tirasse fuori quando
avevamo spaccato il culo ai pisani. Ha davvero importanza? No, non ne ha.
E quando poi torni a casa e dici, belin che delirio ma magari
è finita, arriva una voce tonante e non è quella di tua madre che fa un sospiro
quando sente le chiavi entrare nella stoppa e quando si apre la porta e vede
che sei tu, e non uno sbirro, un infermiere, un amico con la faccia di chi sta
per dire una cosa brutta, è una voce tonante interiore che dice, “ma magari”.
Perché un ragazzo è morto intanto e hai voglia a consultare cartine, mappe e
poi a distanza di anni rivedere video. E allora ti ritrovi lì, in via
Tolemaide, ti volti e vedi i carabinieri che cominciano a caricare un corteo
autorizzato e da lì parte quella gragnuola di sentimenti appesi ai caschi, agli
scudi, svolazzanti tra bidoni della spazzatura e vie, via caffa, via crimea,
via casaregis e indovina un po: piazza Alimonda.
Che fino ad allora ci andavo alle riunioni della Fossa, quando ancora si
proponeva di buttare merda da un elicottero sulla gradinata di quegli altri. Ma
non è finita lì, perché poi sto delirio arriva per forza e arriva sotto casa,
anzi arriva vicino a casa. Camionette che scaricano immondizia: così ho
immaginato, leggendo anni dopo gli atti del processo, le testimonianze, un due
tre pinochet, ti stupro come in Bosnia, zecche, viva il duce e compagnia cantante,
l’arrivo sul piazzale della caserma delle camionette piene di ragazzi e ragazze
e a vedere le loro facce ci vuole poco a capire cosa è successo a Genova.
É successo che quelle facce non le abbiamo viste mai più, che a Genova via
via si è passati dal dolore a una rabbia che è tornata a essere come quelle
care ai genovesi, contenuta, repressa, sfogata via via con un po’ di cinismo o
con l’oblio.
Se non fosse che quelle cazzo di giornate non finiscono mai, neanche
vent’anni dopo. Perché prima c’è stato tutto il turbine processuale e quegli
sguardi di quando dicevi che eri di Genova, se poi aggiungevi “di Bolzaneto”,
ci voleva poco a vedere sbiancare chi era di fronte, come se dire di Bolzanetto
volesse dire “della caserma”.
Ma che cazzo è, esiste forse un’osmosi carabinieresca che non conosciamo?
Cioè abitare vicino a dove hanno menato, insultato, torturato è doversi portare
anche sto fardello che hai quasi timore di dire che sei di Bolzaneto? Ma in
fondo oggi finalmente ecco che quelle giornate il loro risultato forse lo hanno
ottenuto ed eccomi a parlare come un reduce, che parla dei reduci, che racconta
dei reduci, che quando eravamo noi giovani, eh belin mica come oggi che siete
dei mollaccioni, noi abbiamo fatto cose.
Ma cosa? Abbiamo fatto cose che se oggi dici Genova, viene in mente il
ponte Morandi. O che qualcuno dica ah sì Carlo Giuliani, ucciso dall’Isis (che
è sempre più credibile che ucciso da un sasso).
O forse è che vivere vicino a quella caserma, più che a Genova o alla Diaz,
che non so forse fa più glamour perché almeno c’era la crema della polizia
italiana, che poi è la crema della polizia italiana di oggi, mentre a Bolzaneto
c’erano mezze tacche, non può che farti sentire così: un posto che sembra non
esistere più e infatti non esiste.
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