Per comprendere l’ipocrisia del Governo Draghi e dell’Alleanza Atlantica in merito a democrazia, libertà politiche e diritti umani occorre contestualizzare la presa di posizione del 28 giugno di Svezia e Finlandia contro i dissidenti curdi e turchi in Europa e Medio oriente e la visita del primo ministro italiano in Turchia il 5 luglio.
Il 7 luglio,
a seguito di questi due passaggi diplomatici, è stato proclamato lo stato di
agitazione generale nell’Amministrazione autonoma della Siria nord-orientale, l’unica istituzione del paese ad
essere riuscita a ritagliarsi uno spazio autonomo di sperimentazione
democratica nonostante le pressioni di Assad e le ripetute invasioni. Le Unità
di protezione delle donne e del popolo (Ypj-Ypg) e le Forze siriane
democratiche curdo-arabe (Sdf) che difendono questa Amministrazione hanno
patito undicimila cadute e caduti per sconfiggere Daesh tra il 2014 e il 2019,
e vedono spezzate ogni giorno nuove vite per reprimerne la persistente
insorgenza. Sono le forze che la Turchia si appresta a schiacciare con il
benestare delle democrazie scandinave e le armi delle aziende italiane. La
recrudescenza di attacchi di Daesh in Siria è propiziata dalla politica turca
di supporto ai gruppi islamisti del paese, accompagnata da un’ingegneria
demografica che, dal 2018, punta a sfollare con la violenza i siriani
favorevoli a istituzioni democratiche e secolari per sostituirli con famiglie
di profughi, trasformati per l’occasione in coloni d’insediamento, vicine ai
gruppi islamisti. L’Amministrazione del
nord-est, che Erdogan ha promesso di
distruggere nel corso dell’estate, è composta da sette
Regioni autoproclamate, quattro a maggioranza araba e tre a maggioranza
curda (questa ultime costituiscono il Rojava). Fa proprio un modello secolare e
pluralista ispirato all’elaborazione di un paradigma socialista nuovo e
democratico, ecologico e femminile. Per queste ragioni è considerata
entità terroristica dal governo di Ankara. Nessun altro paese
condivide questa posizione, ma la Turchia è riuscita da tempo a far etichettare
come terrorista da Nato, Usa e UE (benché non dalle Nazioni Unite) il
Partito dei lavoratori del Kurdistan o Pkk, dalle cui idee è nata l’ideologia
propugnata dall’Amministrazione autonoma.
La nozione
di terrorismo è un problema per il mondo in cui viviamo. Più volte evocata dal
segretario generale della Nato Stoltenberg a Madrid e presente nel documento sottoscritto da Svezia e
Finlandia (che
vi si impegnano a combatterlo assieme a Erdogan avversando il Pkk e «non
fornendo supporto» alle Ypj-Ypg), è una mera, stantia allusione retorica dalle
dubbie pretese giuridiche. Essa viene usata – a partire
dalle due amministrazioni Bush Jr. a Washington, dalle democrazie liberali e
dai despoti di tutto il mondo – come strumento spesso arbitrario per
fare del nostro secolo lo scenario di una “lotta” condotta tramite linguaggi
fuorvianti e la spettacolarizzazione comunicativa di ipocriti doppi
standard. Il riemergente imperialismo turco occupa lo spazio semantico
prodotto dai think tank neocon degli anni Duemila,
capovolgendone le coloriture anti-islamiste e xenofobe in jihad “buono” e
antiterroristico in nome di valori tradizionali, anti-democratici e
anti-secolari (dove i gruppi egualitari sono mostri
assetati di sangue e i miliziani, che fanno a pezzi le prigioniere, forza di
liberazione dall’ingiustizia dei “senza Dio”).
Il concetto
di terrorismo è di per sé privo di un chiaro riferimento semantico, oggetto di
una babele di definizioni legislative vaghe e cangianti, dalle maglie sufficientemente
larghe perché ciascuno possa interpretarlo in modi diversi a seconda dei
contesti domestici o internazionali. Benché sia evidente che provocare
distruzione e terrore indiscriminato tra i civili possa essere una tattica
militare, effettivamente qualificabile come terrorismo e ampiamente utilizzata
tanto dagli Stati quanto da organizzazioni illegali e clandestine (si
pensi a teatri di combattimento, in questi decenni, come Grozny o
Falluja) l’uso giuridico della nozione sta semplicemente a indicare,
nelle consuetudini e nelle leggi degli Stati, il nemico politico cui non
si intende riconoscere dignità di interlocutore. Questo può avvenire perché
tale nemico ha già scelto la lotta armata (eventualmente, ma non
necessariamente, con modalità terroristiche) oppure perché si vuole respingerne
il pericolo in senso puramente politico. Ad essere definiti terroristici sono,
nel mondo, anche gruppi e individui del tutto pacifici, come l’uso di questa
nozione negli ordinamenti turco e siriano, per fare due esempi, sta a
dimostrare.
Gli stessi o
analoghi gruppi armati, nel tempo, sono stati assimilati a fenomeni di
terrorismo o definiti movimenti di liberazione a seconda degli interessi
cangianti dalle potenze. Si pensi al trattamento naturalmente ostile assicurato dalla Casa Bianca
ai jihadisti attivi in Iraq contro la loro occupazione negli anni
Duemila trasformatosi, negli anni Dieci, in benevolo e di supporto alle
stesse persone, se sopravvissute, in territorio siriano contro regime baathista;
o alla differente qualifica, da parte del Pentagono, dell’autonomismo armato
dell’Uck in Kosovo e del Pkk in Turchia. E si consideri la politica estera
della Federazione Russa: ostile, dopo i fatti libici del 2011, ai movimenti
separatisti, autonomisti o sovversivi in molti contesti, accusati di minare la
sovranità degli Stati e le basi del diritto internazionale su spinta
statunitense; pronta però a offrire riconoscimento solitario a repubbliche
principalmente o esclusivamente effetto delle sue operazioni militari
all’estero, sistematicamente unilaterali e illegali (Donesk,
Luhansk, Crimea, Ossetia del sud, Abkhazia, Transnistria; operazioni
compiute in supporto a gruppi qualificati come terroristici dai
rispettivi Stati).
La Turchia
opera militarmente, in spregio al Consiglio di sicurezza e al diritto
umanitario, tanto all’interno quanto all’esterno dei suoi confini (in Siria e
in Iraq) dopo aver denunciato come terroristi i suoi dissidenti, curdi e di sinistra in primo
luogo, ma anche islamisti di diverso orientamento come i gullenisti. Ogni
politica contro il terrorismo è, a suo modo, parziale e unilaterale. Non
è un caso che le liste delle organizzazioni terroristiche dei
diversi Stati del pianeta non coincidano tra loro, né con quella delle
Nazioni Unite: le quali, peraltro, non hanno mai raggiunto un accordo per
una definizione internazionale condivisa di questo termine. Tale vaghezza apre
ogni volta una prateria giuridica e militare alla propaganda che intende
giustificare la repressione del semplice dissenso (si pensi al goffo tentativo
di Gian Carlo Caselli, in Italia nove anni fa, di perseguire come terroristi
militanti No Tav in Val Susa). Questo non significa che pratiche
terroristiche non esistano nel mondo o che debbano essere tollerate, né che
ogni persona accusata di terrorismo debba essere automaticamente compatita come
semplice dissidente. Vuol dire che occorre analizzare e distinguere i
movimenti politici, i conflitti e i loro contesti secondo criteri autonomi da
quelli degli Stati, prendendo posizione secondo fini e una logica
indipendente.
All’insensatezza
del linguaggio della Nato, che giustifica con la lotta al terrorismo la
consegna alla Turchia dei partigiani e delle partigiane che hanno difeso donne,
uomini e bambini dai massacri perpetrati da Daesh, dobbiamo contrapporre
attribuzioni autonome di senso, frutto di analisi mosse da interessi e metodi
meno parziali sul piano scientifico, ma anche da valori qualificanti e quindi
di parte, da applicare coerentemente in tutti i contesti. Esistono
gruppi che utilizzano tattiche terroristiche crudeli e inumane per imporre
sistemi politici ideologicamente contrari a ogni forma di democrazia e diritti
umani (come i jihadisti di Al-Qaeda e Daesh, Boko Haram o Al-Shabab, o
ancora gruppi come Ahrar Al-Sharqiya e Failaq Al-Majd, utilizzati dall’esercito
turco in Siria). Esistono invece movimenti, inseriti in diverse fasi
nelle liste anti-terrorismo di Stati e organizzazioni internazionali, che
usano la violenza come forma di autodifesa o con notevoli giustificazioni
sociali, politiche e storiche: è il caso delle Ypj-Ypg in Siria, del Pkk in
Iraq e Turchia, del Pjak in Iran, dell’Ezln in Messico, del Fronte Polisario
nel Sahara Occidentale e di altri ancora.
La
differenza tra questi differenti insiemi di gruppi armati è politica prima
ancora che militare. Il secondo
aspetto discende anzi dal primo. Le formazioni di estrema destra (islamiche e
non) intendono togliere agli esseri umani la possibilità di decidere sulle loro
vite avocando a sé il possesso di una verità intangibile che fonderebbe la
legittimità delle gerarchie esistenti o permetterebbe di radicalizzarle. I modi
di agire di gruppi come Daesh vengono non a caso riprodotti dai suprematisti
bianchi cristiani che compiono stragi indiscriminate di ebrei, giovani di
sinistra, migranti o musulmani nelle metropoli neozelandesi, statunitensi o
europee; o ha avuto anticipazioni negli atti tristemente famosi di alcuni
suprematisti ebrei di ideologia sionista in Palestina. Il secondo elenco
comprende invece organizzazioni armate di sinistra, la cui contraddizione con
gli ordinamenti giuridici non sfocia di norma in un disprezzo razzista o
confessionale per le popolazioni, che anzi tali gruppi non di rado proteggono
dal terrore concreto provocato da taluni governi o gruppi di destra.
Queste
differenze politiche sono elise e obliterate in modo non casuale dal magma
confusionario delle leggi e delle dichiarazioni globali contro il terrorismo, e devono invece orientare il
nostro giudizio autonomo sugli eventi, permettendoci di prendere posizione in
un globo fatto di movimenti oltre che di governi, e di movimenti che spesso
governano di fatto territori strappati ai governi. Il nostro giudizio
dovrebbe essere guidato esclusivamente dal criterio del benessere complessivo assicurato
dai movimenti o dai governi alle persone, e quindi ai principi-guida che li
muovono e all’attualità, concretezza o probabilità della loro realizzazione.
Obiettivo dell’analisi delle relazioni internazionali non dovrebbe essere
allora identificare, anacronisticamente, astratti “interessi nazionali”
frammentati e indifferenti alle linee di genere, postcoloniali o di classe che
dividono le nazioni, né identificare sistematicamente tali presunti interessi
indistinti con i governi in carica o gli ordinamenti esistenti; bensì
considerare tutti gli attori in gioco nella nazione che, senza per questo
negare esistenza delle altre, è davvero all’altezza dei nostri tempi: la
biosfera.
In questa
nazione ecologica globale dovremmo cercare di immaginare soluzioni per
conciliare gli interessi dei subordinati dei diversi continenti e attraverso i
continenti, a partire dal nostro e dai mari che lo lambiscono. Questo sforzo
dovrebbe essere praticato anche quando porti la teoria e la prassi in
collisione con l’ideologia autoreferenziale prodotta in questo secolo
dagli Stati-nazione. In tutte le società – dall’Italia all’Ucraina,
passando per la Russia, la Siria e la Turchia – i conflitti contrappongono
progetti e visioni del mondo più che bandiere e apparati organizzativi in
quanto tali, che al limite possono esserne il veicolo o l’involucro. Questi
progetti sono spesso inconciliabili tra loro, e possono essere tanto
espressione di un governo quanto di un’opposizione, sia essa o meno (a ragione
o a torto) qualificata come terroristica. Il terrore è un’emozione umana. C’è
chi intenzionalmente la riproduce per i propri fini. La nozione corrente di
terrorismo, precipitata nelle disposizioni legislative, nel linguaggio
mediatico e in quello diplomatico, mostra da molto tempo di non servire a
contrastare la diffusione di questa emozione sul pianeta. Occorre liberarcene.
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