Io e questo brano dell’immortale Lucio Battisti siamo quasi coetanei — la differenza è di un anno — ma entrambi ci sentiamo ancora ‘giovani’ e in gara: ciò accade perché, come nel caso de I giardini di marzo scritta insieme al grande Mogol, le tematiche che la animano sono attuali, inossidabili, riguardanti l’umano e quindi non sorpassabili. Ho sempre pensato che il testo di questa canzone fosse un chiaro manifesto poetico non nel senso prettamente musicale — sulle differenze strutturali tra poesia e canzone si è già discusso ampiamente, anche se la poesia o “lirica” deriva proprio dal canto che nell’antica Grecia era accompagnato dal suono della lira — bensì da un punto di vista intimistico, psicologico.
Il carretto passava e quell’uomo
gridava “gelati!”
Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti
Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti
Il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti
Il carretto è l’elemento iniziale che squarcia il velo
della memoria: un ricordo giovanile — quello di un uomo che grida “gelati!” —
irrompe nel presente a sottolineare una condizione passata, una precarietà
economica che non precludeva a una sorta di felicità semplice, essenziale; la
visione di un abito materno, tra i tanti affioranti dall’archivio-armadio, che
conserva ancora una freschezza intatta, legata a un’epoca di giovinezza non
ancora appassita. A volte è strano pensare che anche un genitore, oggi
invecchiato, stanco, fisicamente in declino, abbia vissuto un’età verde,
rigogliosa, splendente, proprio come quella vissuta da noi cosiddetti giovani. La
cosa ci fa indirettamente male perché è la prova che tale ciclo, terminante si
spera con un bel tramonto, toccherà a tutti, indistintamente: il genitore è
solo la testimonianza più evidente che abbiamo a portata di mano.
All’uscita di scuola i ragazzi vendevano
i libri
Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli
Poi, sconfitto, tornavo a giocar con la mente i suoi tarli
E la sera al telefono tu mi chiedevi “perché non parli?”
Anche il ricordo di una certa “precarietà esistenziale” torna nel presente
con tutta la forza di cui dispone: non bisogna mai dimenticare come si è stati,
cosa siamo stati, l’impreparazione all’esistenza, il timore di confrontarsi con
chi appariva più determinato, con i coetanei che sapevano vendere e vendersi
senza esitazione sul mercato delle opportunità; ci sono epoche della nostra
vita in cui possiamo solo osservare gli altri, registrare i loro movimenti
“vincenti”, studiarne le capacità per poi, forse, riprodurle in un possibile
futuro ricco di coraggio e di autodeterminazione. Quando si è giovani la
mancanza di slancio può essere interpretata, da se stessi e dagli altri, come
una sconfitta sul campo perché non si posseggono ancora gli
strumenti per accettare la propria diversità, la propria unicità, per
riciclarla verso campi applicativi più soggettivi e meno standardizzati: se in
un primo momento l’imitazione (e non l’emulazione che
rappresenterebbe già uno stadio evolutivo più auspicabile) sembra essere
l’unica strada percorribile per non farsi notare e giudicare, e soprattutto per
sopravvivere in un mondo che va veloce e non aspetta nessuno, in seguito — non
da un giorno all’altro ma coltivando pazientemente la propria personalità e non
quella di qualcun’altro visto in tv o sui social — viene a
maturare l’idea che l’imitazione è inutile e dannosa, e che l’unica cosa saggia
da fare è diventare se stessi.
Nel frattempo si torna a “giocare” — così come da giovani di gioca con
altri giochi — con la mente che propone fantasie autodistruttive, ipotesi
paranoiche, tarli prodotti dalla disistima che scavano nella
direzione sbagliata… Ma sono “giochi” da assecondare, che fanno parte
di un gioco ancor più grande, incomprensibile durante certe epoche della vita.
Bisogna solo giocare e basta! Ci sarà tempo per rivalutare gli “idoli” imitati,
per decostruire l’impatto emotivo di certi “tarli”. Nel frattempo,
dinanzi alla nostra presunta mancanza di determinazione e organizzazione,
quelli che ci amano e sono in apprensione per noi, non possono non domandarci
“perché non parli?” ovvero perché non vivi, non ti getti a capofitto nel mondo
e nella vita, perché non rischi, non ti racconti, non ti esprimi con i tuoi
mezzi linguistici, non importa se acerbi, spuntati, zoppicanti. Insomma “parla
cazzo!”, dici qualcosa… Sembra di assistere alla bellissima scena “maieutica” tratta dal
film di Sorrentino È stata la mano di Dio, quando Antonio Capuano
dice a Fabietto: “’A tiene ’na cos’ a raccuntà? Forza, curaggio. A tiene o
no ’na cos’ a raccuntà? Tien’ ’o curaggio ro ddicere. E te vuo’ movere o
no?”. Il silenzio è sì importante, soprattutto quando
prevale l’esigenza di dover raccogliere le idee e le forze prima di esordire
con la propria espressività: non è il silenzio dello sconfitto dalla vita (come
troppo facilmente pensano certi detrattori), ma è la pausa — per alcuni lunga,
per altri breve — che precede il canto (quello libero!),
l’espressione sentita e non casuale del proprio mondo interiore.
Che anno è, che giorno è?
Questo è il tempo di vivere con te
Le mie mani come vedi non tremano più
E ho nell’anima
In fondo all’anima cieli immensi
E immenso amore
E poi ancora, ancora amore, amor per te
Fiumi azzurri e colline e praterie
Dove corrono dolcissime le mie malinconie
L’universo trova spazio dentro me
Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è
Poi all’improvviso, come per incanto o solo perché il momento è quello
giusto, in base a misteriosi orologi che nessuno per fortuna finora ha saputo
studiare e descrivere, si diventa consapevoli del proprio tempo,
sia quello a disposizione dell’individuo (che non è infinito ma limitato e
quindi da valorizzare fino all’ultimo minuto), sia il tempo del mondo, degli
eventi che scorrono al nostro fianco. Non importa conoscere l’anno esatto o il
giorno (quelle della canzone sono domande retoriche, funzionali al risveglio
nel presente), non importa se siamo in ritardo o se siamo partiti
puntuali in base al giudizio di un senso comune che francamente ha
stancato con la sua ossessiva applicazione a ogni aspetto del vivere:
l’importante è divenire consapevoli di se stessi e del tempo
rimanente che vogliamo spendere al fianco di chi ci comprende e ci ama;
“questo”, e non un altro, è il tempo di vivere con chi è sintonizzato sulla
nostra stessa frequenza sentimentale, mentale, culturale. Il passato,
che all’inizio del brano sembra opprimere e condizionare i movimenti della voce
narrante, non esiste più in quanto appunto ‘passato’, andato, trascorso,
impossibilitato a tornare; il futuro che ancora non è, non può
condizionare l’attualità, l’hic et nunc dei latini. Non ci resta
che concentrarci sul tempo presente, che abbiamo a portata di mano
e che possiamo in un certo qual modo, con saggezza e tanto lavoro, tentare di
modificare e migliorare. Se prima c’era un tremore che
impediva qualsiasi azione, ora la mano non trema più e te la
mostro perché sono sicuro di me stesso e non temo più il confronto: c’è un
coraggio nuovo che muove i miei passi e insieme, se vuoi, possiamo fare le cose
che in passato ci apparivano precluse.
E da questo punto in poi comincia, secondo la mia personalissima lettura,
la parte del testo che rappresenta il “manifesto poetico” della voce
narrante dietro cui si muovono le esperienze esistenziali di
Battisti e Mogol: solo il vero poeta può condividere ciò che di immenso
conserva nell’anima, non nella parte superficiale, facilmente comunicabile
dell’anima, ma in quella profonda, inaccessibile, indicibile, perché la
poesia è più non detto che descrizione dettagliata o spiegazione
minuziosa. La poesia non deve spiegare nulla e di conseguenza non può
essere “spiegata” ma solo presentata nel migliore dei modi, dopodiché
diventa cosa del mondo, adottata da altri occhi e altre menti…
Scrive Pablo Neruda in La poesia: “…vidi all’improvviso / il cielo / sgranato
/ e aperto, / pianeti, / piantagioni palpitanti, / ombra ferita, / crivellata /
da frecce, fuoco e fiori, / la notte travolgente, l’universo…”. Allo stesso
modo la voce narrante del brano si accorge improvvisamente, grazie all’azione
esplorativa della poesia che tutto cattura, dei cieli immensi, dell’immenso
amore, sia quello per l’universo, sia quello per la persona amata. E ancora:
“…Fiumi azzurri e colline e praterie / Dove corrono dolcissime le mie
malinconie…”; il creato e le sue bellezze colorate (in contrapposizione al
vestito nero materno, seppur fiorito, dell’incipit) accolgono e rendono
accettabili persino quelle sottili malinconie ereditate dal
passato che se in un primo momento sembravano insuperabili, allignate
nell’animo, ora sono addirittura “dolcissime”, ovvero accettate perché umane,
facenti parte della vita e dell’evoluzione interiore dell’individuo. Malinconie
non più immobili, bloccate nel tempo, ma che “corrono”, vanno verso un futuro,
diventano parte mobile dell’essere.
Il poeta non può più fare a meno delle proprie malinconie, sono parte di lui,
della sua poetica; ma questo non può saperlo quando è giovane: imparerà nel
corso degli anni a “monetizzare” i propri sentimenti, a trasformare in energia
creativa le proprie emozioni, anche quelle più scomode e dolorose. In questa
matura accettazione della vita, l’universo non può non trovare spazio
nell’animo del poeta che, come un’antenna puntata verso l’infinito,
capta senza alcuna pregiudiziale tutti i segnali provenienti dall’esistenza, e
ne scrive, quando può, se vuole, se ritiene valida la sua personale
decodificazione dei segnali. L’universo che “trova spazio dentro me” del duo
Battisti/Mogol richiama il “… vidi all’improvviso […] l’universo.” della già
citata poesia di Neruda. Vedere è sinonimo di accoglienza.
Questa è la forza nascosta del poeta, l’inner space da cui trae
ispirazione e suggerimento di direzione: una forza saggia che tuttavia non
assicura il coraggio necessario in ogni occasione; non perché il poeta sia un
codardo, semplicemente perché non sempre il mondo accoglie l’esempio del poeta;
non sempre, anzi quasi mai, la poesia modifica la Storia. Se riesce a incidere
sugli eventi umani è grazie a un’influenza indiretta, sulle lunghe distanze,
senza sperare di assistere a effetti immediati. “Ma il coraggio di vivere
quello ancora non c’è”: non è una dichiarazione di resa; è la presa di
coscienza della condizione del poeta nel mondo. Si può contenere
poeticamente l’intero universo in sé ma senza sperare di cambiarlo: però non
chiamiamolo fatalismo; il poeta è colui che pur avendo un coraggio
immenso, decide di limitarsi a registrare l’essenza dell’esistere per
quella che è, senza pretese, senza attendersi nulla dalla società, dai propri
simili, dalla vita stessa. Essere semplicemente al mondo: una posizione che per
la vulgata corrisponde a una mancanza di coraggio nel vivere
la propria vita.
In quel “ma” dell’ultimo verso della strofa vi è tutta l’inconcludenza
volontaria del poeta, la sua consapevole impotenza nei confronti del mondo.
La forza dell’universo che trova spazio nel poeta non si esplicita in un
coraggio di vivere pragmaticamente inteso: al contrario si potrebbe dire che
maggiore è la consapevolezza universale del poeta, maggiore sarà il suo
distacco dalle cose terrene che richiedono un coraggio pratico, basato sulle
brevi distanze, sulla risoluzione fin troppo ovvia dei problemi, su un efficientismo richiesto
dalla società, dalla famiglia, dall’economia, dalle istituzioni. Negli ultimi
due versi della strofa, nella loro drammatica contrapposizione, è contenuto, o
dovrebbe essere contenuto, l’intero manifesto del Poeta, di
qualsiasi poeta degno di questo titolo.
I giardini di marzo si vestono
di nuovi colori
E le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori
Camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti “Tu muori”
“Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori”
Ma non una parola chiarì i miei pensieri
Continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri…
Questa è forse la parte più enigmatica del testo. La primavera, stagione
d’elezione per risvegli amorosi e nuove consapevolezze esistenziali, si
annuncia con nuovi colori, nuove foglie sulle piante, nuovi suoni dopo silenzi
invernali, nuova vita in natura; le giovani donne vivono nuovi amori: quasi
come se la bellezza dell’amore, la decisione di vivere nuove storie, fosse una
prerogativa femminile; come se l’osservatore — un uomo — identificasse nella
donna l’unica degna depositaria di un sentimento così bello, forte e naturale.
Ecco, però, manifestarsi una “voce” esterna — una donna amata?, la propria
coscienza…? — che cerca di risvegliare il protagonista del brano dal proprio
torpore interiore; in quel “Tu muori” è racchiusa tutta
l’urgente esigenza di ritrovare il coraggio mancante per amare, per vivere, per
dare un senso al proprio stare al mondo, condividendo, amando, lavorando con
gli altri e per gli altri. Il ragazzo dei “tarli” viene messo
dinanzi alla realtà dei fatti: se non compi una deviazione dalla tua chiusura
alla vita, se non ti dai una possibilità, morirai interiormente, come uomo,
come essere umano, come anima.
“Se mi aiuti, son certa che io ne verrò fuori”; chi è che è certa? L’anima
del ragazzo incapace a vendere libri? La donna che non si sente più amata
dall’uomo che al telefono la sera non riesce a parlare? C’è una richiesta
d’aiuto concreta rivolta al poeta che non può più permettersi di vivere in
maniera romanticamente individualistica. E subito dopo ritorna ancora una
volta, non potrebbe essere altrimenti, l’indicibilità della poesia: “Ma
non una parola chiarì i miei pensieri”; il vero poeta conosce i limiti
della parola che contiene verità e al tempo stesso ne lascia sfuggire
tantissime altre. Forse perché è giunto il momento di agire, non di capire: la
chiarezza a volte deriva dal semplice vivere, dal fare, dallo sperimentare
sentimenti ed emozioni, dal continuare a camminare anche se non siamo
pienamente soddisfatti. Lasciandoci dietro, se necessario, storie che non
riescono a svilupparsi come vorremmo; lasciando che la donna amata, o che non
siamo riusciti più ad amare, continui a essere attrice di un passato che può
sopravvivere solo nei nostri ricordi, a recitare in quella stagione della
nostra vita che l’ha vista protagonista.
A volte bisogna lasciar andare anche le persone preziose che ci hanno amato
e che noi forse non abbiamo saputo o potuto amare fino in fondo.
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