Insegno da 31 anni nelle scuole
superiori di Verona, e mai come oggi mi sembra che la scuola sia il luogo
dell’incontro, del dialogo, del confronto impegnativo e costruttivo tra
culture, religioni, impostazioni, stili di vita e orientamenti diversi: un
luogo in cui ciascuno può essere quello che è e vedersi riconosciuto come tale,
senza temere che la sua identità sia percepita dagli altri come una minaccia o
un pericolo; un luogo dove si è ciascuno per gli altri e con gli altri, e la
reciprocità è assoluta. La pandemia ci ha mostrato come la scuola sia un centro
vivo della società civile: ci siamo fatti in quattro per accompagnare i nostri studenti
e le nostre studentesse, e loro hanno accompagnato noi; ci siamo sentiti
immersi nello stesso mare pericoloso, abbiamo condiviso ansie e lutti, speranze
e difficoltà; nella scuola, cioè negli e nelle insegnanti, le famiglie e i
giovani hanno trovato interlocutori sensibili, attenti, presenti e coinvolti.
Il vincolo di solidarietà e
responsabilità reciproca si è mostrato con chiarezza durante il
primo lockdown e le successive ondate pandemiche: la scuola,
imperfetta e bistrattata com’è, ha mostrato non solo la sua vitalità ma anche
la sua capacità di evolvere, di crescere, di offrire un contributo prezioso
alla società italiana proprio perché è la casa di tutti, il luogo in cui tutti
sono inseriti in un flusso di relazioni progettuali, in una scoperta del mondo,
degli altri e di se stessi (questo è, in ultima analisi, l’attività didattica).
La studentessa ortodossa, il collega buddhista, la collega cattolica e lo
studente musulmano sono benvenuti quanto me: circa un mese fa, al termine di un
concerto dei miei studenti (insegno in un liceo musicale), eravamo seduti
attorno a un tavolo a conversare tra docenti e genitori, ed eravamo russi,
ucraini, rumeni, cingalesi, cinesi, africani, sudamericani, ungheresi, turchi,
lituani, serbi, italiani; ortodossi, cattolici, protestanti, buddhisti,
musulmani, non credenti.
Ci univa (e ci unisce) il valore civico
del nostro progetto culturale: forse, quella piccola tavolata è
un’immagine della laicità dello Stato e della scuola, perché ognuno e ognuna
era libero o libera di essere se stesso, ognuno e ognuna parlava con il proprio
accento, ognuno e ognuna legittimamente diceva chi era e si metteva a
disposizione degli altri per un cammino insieme. Non credo che laicità
significhi omologazione o negazione delle sensibilità religiose e degli aspetti
religiosi della cultura e della storia, quanto piuttosto incontro reale,
reciproco riconoscimento di legittimità, reciprocità di sguardo e comune
responsabilità.
È in merito a questo che la vicenda di
don Marco Campedelli [l’insegnante di Irc che sarebbe stato sospeso
dall’insegnamento in un liceo veronese, ndr] fa sorgere in me
alcune riflessioni: non trovo accettabile, in questo contesto, che un
«insegnamento a carattere storico-culturale, rivolto a tutti, nel quadro delle
finalità della scuola» (è così che l’accordo di revisione del Concordato del
1984 definisce l’Irc) sia gestito direttamente da una Chiesa, quella cattolica,
la quale dispone come crede di personale da lei sola formato e selezionato,
assunto dallo Stato alle sue condizioni. È un insegnamento nella scuola
pubblica dello Stato, non un lavoro pastorale nelle strutture della Chiesa
cattolica (per il quale essa ha tutto il diritto di valutare l’idoneità di chi
lo svolge secondo parametri propri).
È un insegnamento curricolare ma
opzionale, e lo segue più o meno, che io sappia, l’85% degli studenti italiani; per
molti e molte giovani, è un’occasione unica di confronto con tematiche a cui
spesso si sentono estranei nella quotidianità; molti insegnanti sono persone
oneste, corrette, preparate e di buona volontà. Però, l’idea che la materia sia
confessionale (si tratta di Irc, e “C” sta per cattolica in modo esclusivo),
assieme al fatto che l’insegnante si trovi a essere proposto dal vescovo in
base a sue valutazioni pastorali (mons. Zenti ha parlato di «necessaria
comunione con il vescovo» come requisito) e per questo assunto
dallo Stato, viene a inserire un seme di anacronismo e incoerenza, e stride con
un’idea di laicità dello Stato che sia improntata al reciproco riconoscimento e
alla comune responsabilità. Piuttosto che un’ora gestita così, vedrei bene un
ampliamento dell’educazione civica, che è trasversale a tutte le discipline,
nel confronto culturale con le varie sensibilità religiose che compongono la
nostra società e che segnano tanto il passato quanto il presente (strutturare
un insegnamento dedicato che sostituisca l’Irc, svolto da docenti assunti dallo
Stato per concorso, non mi appare concretamente possibile nell’immediato per
svariate ragioni, soprattutto giuridiche). I docenti di Filosofia, di Lettere,
di Lingue, di Diritto, di Sostegno e di Storia dell’Arte potrebbero essere
coinvolti in percorsi trasversali di questo tipo afferenti, appunto,
all’educazione civica, e specializzarsi in moduli dedicati alla cultura e alla
storia religiosa nel corso delle attività ordinarie di formazione dei docenti.
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