Dei grandi che, affascinati da André Breton e dal surrealismo, ne rifiutarono presto la dittatura, vanno ricordati anzitutto Raymond Queneau (con un formidabile breve romanzo, Odile), Luis Buñuel (che disse che veri surrealisti potevano essere gli spagnoli e i tedeschi, grazie alle loro tradizioni, e non i francesi, di cui perfino i sogni erano cartesiani!) e Julien Gracq (pseudonimo di Louis Poirier, 1910-2007), che scelse di ispirarsi a una tradizione più ardua e lontana, quella dei romanzi cavallereschi, della ricerca del Graal, e sul fronte tedesco piuttosto che su quello francese.
Nel convegno “Per la libertà della cultura” tenutosi a Parigi nel 1935 e
voluto anzitutto dai comunisti come risposta al pericolo tedesco (alle loro
spalle, la politica sovietica dei “fronti popolari” succeduta a quella delle
chiusure più rigide), se Bertolt Brecht insisteva sulle opzioni del Partito
comunista tedesco, invitando ancora a “parlare dei rapporti di proprietà” e
delle contrapposizioni di classe, Robert Musil, ignoto ai più e pochissimo
ascoltato, replicò a chi sosteneva la centralità della politica, perché “la
politica riguarda tutti”, che anche l’idraulica riguardava tutti, ma se a
qualcuno si rompeva un rubinetto, doveva e poteva chiamare un idraulico…
Non so se il giovane Gracq (che nel ’35 aveva venticinque anni) sia stato
presente a quell’importante incontro internazionale, ma certamente dovette
apprezzare più Musil (e Wagner!) che Brecht, e non lo avrebbe potuto convincere
molto neanche il Breton provvisoriamente conquistato dalla possibile alleanza
tra Marx e Rimbaud (“cambiare il mondo e cambiare la vita!”). Pochi anni dopo – e stava
per cominciare o era appena cominciata la carneficina della Seconda guerra
mondiale – egli pubblicò il suo primo romanzo, di piena sfida a ogni engagement.
Il surrealismo di Al castello di Argol era di netta influenza
tedesca, aveva padri diversi dal solo Breton, anche Poe e Wagner e perfino
Stendhal, e narrava l’amore dei paesaggi e la sfida di sentimenti che non
rispettano regole; narrava l’amore e l’amicizia, e una ricerca oltre
l’apparente e il quotidiano (posso vantarmi di averne scritto tanti anni fa la
pur povera prefazione alla prima edizione italiana, voluta da Ginevra
Bompiani).
L’ideale di letteratura che Gracq perseguiva non era certamente quello
corrente, allora come oggi, di intrattenimento o ammaestramento, e non fu un
caso se egli pubblicò per tutta la vita presso un piccolo editore e libraio
amico, José Corti, e se il successo gli arrise molto tardi, nel 1951, grazie a
un Goncourt prontamente rifiutato che premiava La riva delle
Sirti, un romanzo arduo, di straordinario rigore e di inattesa profondità –
una riflessione sulla decadenza dell’Occidente, su un’Orsenna/Venezia incapace
di progetto e di novità, di ricerca e di scavo. Senza più la virtù della
rivolta, tuttavia salvatrice. E come non pensare oggi al tempo nostro, non solo
di infinita sopportazione e quiete ma anche di una quasi compiaciuta attesa
della fine…
Nell’opera di questo grande, il posto di La letteratura da
voltastomaco è quello di una dichiarazione di guerra contro la
letteratura del dopoguerra e ben oltre tempo, contro i riti e i vezzi, le
convenzioni e le ipocrisie della cosiddetta “società letteraria”, che comprende
scrittori ed editori, critici e lettori. Viene ben prima (1948)
di La società dello spettacolo (che è di vent’anni dopo, 1967)
di un giovane Guy Debord che il pamphlet di Gracq non poteva certo ignorare e
del quale è stato quasi un aggiornamento, in tempi in cui la cultura, perfino
più che in passato, tra editoria, pubblicità e università, era diventata un
oppiaceo. E sì che Gracq parla da un’epoca di grandi contrasti e ancora di
tensioni, di rivolte, di scontri, di ricerche… Dove sono i Sartre e i Camus di
allora, tanto per fare nomi che Gracq aveva ben presenti e che erano da lui
rispettati e bensì discussi, chiamati in causa anche loro? Solo da
poco, in Italia, la letteratura è diventata, come è in Francia da tanto, un
riempitivo, un tema di conversazione per una quantità di lettori; solo da poco,
perché l’alfabetizzazione di massa ha avuto tempi molto più lenti rispetto alla
Francia (che, non va mai dimenticato, ha pur avuto, come dicevano i
più amati dei nostri vecchi maestri, una rivoluzione borghese e una riforma
religiosa).
Avendo una famiglia emigrata in Francia per lavoro, a metà degli anni
Cinquanta nella banlieue della capitale, ho molto frequentato
Parigi, e molto mi sconcertò scoprire, tra gli amici della mia età, che un
oggetto centrale delle loro conversazioni era proprio la cultura, erano i
libri, i romanzi che uscivano e di cui si parlava su “Le Monde” e “Le Nouvel
Observateur”, e su “Partisan”, “Esprit”, “Les Temps Modernes”. Erano tempi in
cui i miei coetanei, in Italia, parlavano solo di calcio, di canzonette, di
attrici. E un po’ mi esaltava e un po’ mi spaventava questa quotidianità
piuttosto compulsiva di chiacchiere su film e libri, su cosa avesse scritto il
tale e detto il talaltro dei più famosi nomi del tempo (amai per questo Boris
Vian, simpatico umorista che irrideva questi usi, pur essendone anche lui
prigioniero…). La cultura come un modo di riempire il tempo, e per sentirsi,
per l’appunto, colti – degli individui in qualche modo privilegiati, superiori.
La letteratura che Gracq detesta è quella che non aiuta a guardare, a
sentire e a pensare; a partecipare di una ricerca, e appunto di una quête. Una ricerca,
come Gracq insiste, e non l’adesione a una fede ma nel solco di una teologia… Si
tratta nientemeno che di ridare alla letteratura “l’aria delle cime”, dice
Gracq… E si tratta per noi poveri lettori di chiedere ben di più di quanto essa
oggi ci offre, insieme agli intellettuali – in un’epoca in cui tutti, laurea o
diploma alla mano, si sentono tali. E noi, ultimi arrivati, ancor più dei
francesi. Il “culto della cultura” è una voga recente, in Italia, mentre lo era
da tempo in Francia, dove rischiava di allontanare i lettori dalle cose
importanti per farli sentire partecipi di un ambiente, di un “salotto”
privilegiato, di un confronto tra affini con lo scrittore, con il critico, con
il giornalista delle trasmissioni radio-televisive e, più tardi, dei festival
letterari, delle “fiere” del libro. Se non si sa di che parlare, se
non si pensa, ecco che si parla di libri, di scrittori, di premi… Di
romanzi, e molto meno (anche se…) di filosofia e di scienza, di musica e di
pittura… Ci nutriamo del libro che informa e indottrina e del romanzo che
diverte e consola, delle novità che ci fanno sentire à la page…
E magari sapendone appena quello che ne dicono i supplementi letterari o
Fahrenheit a Radio3, e pur sempre di seconda mano.
Non credo sia il caso di insistere sui modi in cui questa piccola febbre
della cultura ha trovato spazio nella pandemia, in un tempo in cui chi appena
ha un computer si è sentito in dovere (tanti ma tanti) di scrivere… Per
“comunicare” a chi? Forse soltanto per sentirsi ancora vivi.
Non credo sia il caso di insistere sulla vacuità e sulle voghe dei romanzi
italiani di oggi, fatti per intrattenere seguendo le mode e ben raramente per
aiutarci a pensare – e a guardare, e a spaventarci di quel che vediamo… E, meno ancora,
a reagire – ma è invece il caso di lamentare, oggi ben più di ieri e in Italia
ben più che in Francia, l’incapacità e la non-volontà, sia pure di minoranze,
di reagire; di contestare lo stato di cose presente e quel che ci promette, o
meglio ci assicura, il futuro. Di reagire anche con i mezzi, pur così corrotti,
della cultura, della letteratura.
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