Spuntano i registri del terrore, le liste di proscrizione,
brogliacci scritti a mano che portano in carcere presunti “terroristi” lasciandoli
marcire per mesi o anni. Il New York Times mostra le immagini
dei taccuini della vergogna di cui non si cruccia l’Egitto di Al Sisi. Uno
strumento base della porta girevole delle sue carceri dove finiscono in
custodia cautelare i cittadini, dagli oppositori conclamati come Alaa
el-Fattah, a giovani critici stile Zaki, passando per le migliaia di detenuti (Human
Rights Watch ne conta oltre 60.000) lasciati in bilico, dentro e fuori
galera, con l’incubo di tornarci. E’ un pass-partout per
fiaccarne la tempra e spegnerne le critiche a un regime odioso, ma molto amato
da noi occidentali. Anche altri presidenti egiziani - pensate a Mubarak -
governavano grazie a un soffocante sistema di detenzione, ma Sisi e
la sua cricca militare e politica, hanno organizzato il diabolico apparato di
schedature e persecuzione degno delle più feroci dittature. La gente viene
fermata per strada, visitata nelle abitazioni, monitorata sul web o nei luoghi
d’incontro dove, sorbendo qahwa scambia quattro chiacchiere.
Da questi luoghi può sparire senza lasciare traccia, senza che parenti e amici
sappiano nulla, per finire in una stazione di polizia e poi in cella, in base
alle leggi sulla “sicurezza” nazionale. Avvocati dei diritti, anch’essi
puntualmente arrestati, denunciano da tempo questa realtà, totalmente ignorata
da cancellerie e diplomazie mondiali pronte a spalancare le braccia ai satrapi
del Cairo con cui intrecciano affari economici e militari.
E’ un refrain ripetuto e inascoltato, nonostante le vittime
eccellenti, Giulio Regeni è un nome a noi noto il cui assassinio ha creato fasi
di tensione fra Italia ed Egitto. Eppure la politica di casa nostra ha scelto
di stendere l’impietoso velo dell’interesse finanziario di Stato. Un interesse
che sostiene il Pil del Belpaese, premiando Eni e Leonardo,
energia e armi. Sangue e merda. Ancor più fitte le pagine con nomi
sconosciuti ai più, interni ai meandri egiziani e riempite dei Mohammad che
nessuno cercherà perché sono ragazzi qualsiasi, gente comune, senza studi
adeguati né coscienza politica. Mossi dall’intuito, dalla constatazione del
marcio che li circonda, mossi dal coraggio che i mukhabarat da
tempo azzerano a suon di bruciature, shock elettrici, colpi che non lasciano segno
accanto a quelli che uccidono. Coi ricercatori, i dottorandi, com’è il caso di
Patrick Zaki con sentenza ancora in sospeso, è più semplice tenere
le fila di contatti che certificano un’esistenza pur vessata, fra momenti di
prigione e libertà vigilata. Chi è riparato all’estero, fuggendo prima di
possibili catture, conserva sui social il passo dell’informazione, di una
solidarietà che non vuole spegnersi. Sebbene sia una lotta impari col mondo
degli apparati, ai quali le imprese e i governi lasciano carta bianca per
quelle porcherie definite vigilanza. Chi finisce in prigione è accusato di cose
di cui nulla sa. Il cittadino sospetto è bollato come terrorista, lo si incolpa
di praticare o aiutare azioni illegali, reali o presunte, dalle quale deve discolparsi.
Lui trova difficile opporre una difesa a congetture e iniziative fantasma che
però viscidamente lo costringono a dimostrare l’estraneità. In sette anni quasi
dodicimila persone sono cadute in quest’incubo giudiziario, davanti a corti e
magistrati che, ben lontani dall’idea d’un giusto processo, volutamente
ignorano qualsiasi forma di diritto.
Nei primi cinque mesi il cittadino resta prigioniero in base alle
accuse del procuratore, il periodo può prolungarsi qualora l’indagine richieda
altro tempo. Da qui parte l’altalena dei rinvii che rinnovano la reclusione
ogni due settimane pur in assenza di formali accuse. Dopo i cinque mesi si
passa a 45 giorni fra una proroga e l’altra e il tempo non giova alla difesa.
Al contrario cosparge di pece il cammino verso l’agognata liberazione. Che può
tardare o essere rinviata ad libitum, perché il detenuto finisce
invischiato in nuove indagini. Così nel labirinto giudiziario e carcerario si
perdono le coordinate, si sommano sospetti, accuse, processi in un ingranaggio
kafkiano che il regime olia con perfida malignità. La casistica dei malaugurati
caduti nella rete poliziesca del Cairo è ampia. Una coppia di sessantenni
egiziani residenti negli States che sciaguratamente aveva deciso di fare una
vacanza nel Paese d’origine è stata prima accusata dei soliti contatti
terroristici, scontati due anni di condanna, si trova invischiata in
un’ulteriore indagine. E l’incubo prosegue. Perché aver varcato la soglia
carceraria, essere finiti sul librone dei sospetti non offre più garanzie di
vita serena. In ogni caso non siamo davanti a un casuale mondo del male, il
clima è frutto di meditati piani di potere politico criminale. Gratta, gratta
ognuno dei segnalati ha avuto a che ridire del regime, magri in modo generico,
non eclatante, ma tanto basta per essere marchiati come nemici del governo ai
quali farla pagare. Pagare duro e a lungo. Le recenti avances di
Sisi, evidenziate dalla stampa amica, con promesse d’aperture all’opposizione
interna (quale?), amnistie a prigionieri hanno il loro rovescio della medaglia
nei guai seguenti accaduti ad alcuni di loro, infilati mani e piedi in
rinnovati processi. E arresti. Per non parlare degli investimenti edilizi del
regime: abitazioni lussuose nelle city del deserto e luoghi di detenzione.
Sessanta sono le carceri costruite dal 2011, e 16.000 le reclusioni nel biennio
2020-21, un’accelerazione da record secondo l’Egyptian Transparency
Center.
http://enricocampofreda.blogspot.com/2022/07/egitto-liste-per-la-galera.html
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