1.
In questo “cattivo presente”, con una guerra che imperversa nel cuore
dell’Europa, può sembrare residuale continuare a ragionare sulla repressione
giudiziaria del conflitto sociale (https://volerelaluna.it/talpe/2019/08/13/repressione-giudiziaria-e-movimenti/). Eppure l’ennesimo
procedimento aperto a Torino, questa volta contro gli esponenti del centro
sociale Askatasuna, merita una riflessione, perché evidenza esemplarmente un
cambio di passo dei dispositivi repressivi
Askatasuna costituisce, al pari di tutti i centri sociali diffusi sul
territorio nazionale, una realtà complessa, frequentata da centinaia di
persone, impegnata su terreni disparati, sia in senso lato culturali (autoproduzioni
musicali, laboratori fotografici e artistici, dibattiti e concerti, palestra
popolare ecc.) che, soprattutto, di iniziativa politica legata alle lotte
sociali. È collegata all’esperienza di Askatasuna lo Spazio popolare Neruda,
una casa occupata in cui vive un centinaio di famiglie, dove si organizzano
corsi di italiano per cittadini stranieri, un doposcuola e varie attività
ludiche e culturali per i bambini, un mini ambulatorio sanitario, una
palestra popolare e così via. Dovrebbe essere evidente a tutti che ridurre
la pluralità di esperienze, di progetti, di punti vista ideali, di pratiche
politiche diverse a un sodalizio unico e rigidamente centralizzato costituisca
una mistificazione grottesca. È invece quello che ha fatto la Polizia, con un
indagine che ha prodotto centinaia di annotazioni di servizio, decine di
migliaia di ore di intercettazioni ambientali e telefoniche.
Ciò che preoccupa è che la Procura torinese, di fronte all’evidente
tentativo di criminalizzare un’esperienza molto più complessa da decifrare di
quanto appaia dalle semplificate e ostili ricostruzione della Polizia, ha
deciso di condividerle integralmente, richiedendo 16 misure della custodia
cautelare in carcere, quattro arresti domiciliari e un divieto di
dimora contro altrettanti presunti militanti del centro sociale, contestando il
reato di associazione sovversiva, più altri 112 reati vari, che vanno dalla
resistenza a pubblico ufficiale all’estorsione e al sequestro di persona. Tutto
ciò nell’ambito di un procedimento che vedeva originariamente 91 indagati, da
poco ridotti a 22, in sede di conclusione delle indagini preliminari, con lo
stralcio degli altri 69.
Un primo stop a tale impianto accusatorio è venuto dal giudice delle
indagini preliminari incaricato di vagliare le richieste della Procura, che ha
escluso la sussistenza di gravi indizi di reato per i reati più gravi, tra cui
quello di associazione sovversiva, il collante che tiene in piedi l’intera
operazione, applicando nei confronti degli indagati due misure della custodia
cautelare in carcere e due arresti domiciliari, più alcune misure dell’obbligo
di presentazione periodica alla polizia giudiziaria. Inaspettatamente
peraltro, con un’ordinanza depositata l’11 luglio e notificata ai difensori il
giorno successivo, il Tribunale del riesame ha parzialmente accolto l’appello
presentato dai pubblici ministeri, ritenendo sussistenti per sei indagati
(nei cui confronti vengono applicate le misure della custodia in carcere e
degli arresti domiciliari, che restano però sospese in attesa della definitiva
pronuncia della Cassazione) i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato
associativo, qualificato in semplice associazione per delinquere e non più in
associazione sovversiva.
Il Tribunale non si limita solo a negare il carattere sovversivo
dell’associazione ma, forse consapevole dell’inconsistenza del teorema
accusatorio, introduce una differenziazione specifica (in contrasto peraltro
con le migliaia di pagine riversate in atti dalla Digos e fatte proprie dalla
Procura), secondo cui a costituire un’associazione per delinquere non è il
centro sociale ma «un gruppo criminale dedito a compiere una serie
indeterminata di delitti principalmente in Val di Susa» che si sarebbe formato
all’interno di Askatasuna. Una prospettiva interpretativa, questa, che appare
in contrasto con le ipotesi investigative degli inquirenti, che cerca di
salvare l’insalvabile ma ne condivide il pressapochismo, la scarsa aderenza
alla realtà dei fatti e, soprattutto, la scarsa conoscenza delle pratiche, dei
linguaggi, perfino delle idee che caratterizzano il variegato mondo
dell’antagonismo italiano.
2.
Vista l’enorme mole degli atti e dei documenti prodotti da Procura e
Digos, un’autentica alluvione di carta che tenta di compensare sul piano
quantitativo la scarsa qualità indiziaria, risulta impossibile proporre anche
solo un riassunto dell’impianto complessivo dell’inchiesta. Si può provare a
evidenziarne le principali criticità e gli assunti di fondo.
Anzitutto, occorre segnalare come Torino, da sempre laboratorio di pratiche
e innovazioni repressive, sia l’unica città italiana a vantare, secondo la
Polizia, la presenza contemporanea fino a pochi mesi fa di ben due associazioni
sovversive: la prima è quella legata ad Askatasuna, la seconda è quella dell’ex
Asilo occupato di via Alessandria (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/03/04/lo-sgombero-dellasilo-occupato-e-le-confessioni-di-una-cittadina-perbene/), sgomberato (e mai
più rioccupato) proprio grazie a tale contestazione giuridica, poi fatta a
pezzi dal Tribunale del riesame, prima, e dalla Cassazione, poi. L’operazione
che la Polizia aveva in mente con Askatasuna era probabilmente la stessa:
richiesta di misure cautelari per associazione sovversiva, sgombero del centro
sociale e magari anche delle altre strutture ad esso collegate (come lo Spazio
popolare Neruda), operazione sicuramente più complessa, visto l’insediamento
territoriale di Askatasuna e i suoi legami con la città.
Occorre intendersi. Qui la questione non riguarda gli spazi occupati e
dunque la volontà di assecondare le pulsioni legalitarie, sempre presenti in
molte forze politiche che seggono in consiglio comunale, che ne richiedono lo
sgombero. Se con l’ex Asilo si trattava di radere al suolo una soggettività
antagonista impegnata soprattutto sui fronti della lotta ai Cie/Cpr, agli
sfratti e alle politiche di gentrificazione del quartiere Aurora, per
Askatasuna la posta in gioco è ancora più alta. Anzitutto la conflittualità
metropolitana, quella legata alla manifestazioni di piazza, a quelle degli
studenti, alle politiche abitative cittadine. In secondo luogo, e sullo sfondo,
il bersaglio più grosso: la resistenza in Val di Susa contro il Tav, resistenza
che ha visto il centro sociale, per gli stretti contatti con i comitati
popolari della Valle, tra i protagonisti storici di tutte le manifestazioni e
le proteste. Non è un caso che 106 reati sui 112 contestati originariamente,
ora ridotti a 66 su 72, riguardino episodi commessi in Valle nell’ambito della
lotta No Tav.
Per raggiungere un traguardo così ambizioso le annotazioni di Polizia
raccontano di un centro sociale che decide di costituirsi in associazione
criminosa, unicamente votato alla commissione di reati, rigidamente
centralizzato, lontana mille miglia dalla fluidità di tutti gli altri centri
sociali sparsi per la penisola. La ricostruzione proposta, in cui assumono
grande rilievo e centralità le intercettazioni realizzate, è una storia del
conflitto sociale a Torino e in Val di Susa vista dal buco della serratura,
costruita secondo uno schema cognitivo per cui le vicende umane non sono il
frutto di complesse dinamiche sociali ma una sequenza di complotti, di ordini e
di relative esecuzioni e il conflitto sociale non è il risultato delle scelte
politiche di donne e uomini o di attori sociali collettivi, ma solo un
programma delinquenziale, in questo caso sovra determinato da una struttura verticistica.
Centrali sul piano investigativo diventano gli scampoli di poche
conversazioni intercettate qua e là a casa o nelle macchine di alcuni esponenti
del centro sociale (una addirittura in una carrozza ferroviaria, mentre una
esponente del centro sociale insieme a una nota e carismatica militante del
movimento No Tav si stava recando a Bologna per un dibattito). Si tratta di
conversazioni malamente e approssimativamente lette e decifrate sulla base di
un’interpretazione esclusivamente letterale anche quando ci si trova di fronte
a battute, risate, frasi scherzose, senza alcuna attenzione allo scambio
relazionale che si instaura tra gli interlocutori, agli aspetti di condivisione
affettiva, che non possono che influenzare la comprensione dei dialoghi. Al di
là delle caricature più o meno folcloristiche contenute nell’annotazione finale
della Digos, un monumento alla faziosità di quasi 2.000 pagine: quel che conta
è che manca nell’impianto d’accusa la capacità di delineare la sussistenza dei
presupposti di un’associazione criminosa.
3.
Gli inquirenti affrontano tale complesso nodo ricostruttivo, con uno scarto
di lato, a partire dal minuzioso elenco di reati commessi, soprattutto, come
detto, in Val di Susa negli ultimi anni, nell’ambito della resistenza che il
movimento No Tav pone in essere da decenni contro la grande opera. Si tratta di
episodi in cui compaiono anche soggetti (rubricati sotto il nome di “ala
oltranzista” del movimento) che nemmeno la Digos riconduce ad Askatasuna. Il
che dimostra già di per sé la debolezza di un’ipotesi associativa a geometria
variabile, che vede i consociati unirsi a soggetti esterni per commettere i
reati ricompresi nel proprio programma criminoso. Chiunque abbia un po’ di
confidenza con le categorie giuridiche contenute nel nostro codice penale sa,
infatti, che l’esistenza di un’associazione deve essere dimostrata attraverso
la prova di un accordo tra i consociati, di un programma criminoso aperto e
permanente e di un’organizzazione specifica, non certo attraverso i cosiddetti
reati scopo, cioè i reati che costituirebbero l’esplicazione delle sue capacità
operative.
Per tentare di dare concretezza al proprio teorema, Digos e Procura sono
costrette a trasformare in «basi e supporti materiali», la sede del centro
sociale, in corso Regina Margherita 47, «l’immobile denominato dei Mulini» e il
presidio di San Didero, in Val di Susa, lo Spazio popolare Neruda, il centro
sociale Murazzi. Il festival dell’Alta felicità o le periodiche iniziative
musicali organizzate dal centro sociale divengono, in quest’ottica, «un
articolato sistema di finanziamento della vita dell’associazione» sovversiva.
La ricchezza sociale e politica di spazi di movimento aperti alla città o
costruiti nell’ambito della resistenza No Tav vengono così derubricati a
strutture criminali, buone al più a creare profitti economici per
garantire le basi materiali del sodalizio. Sul punto sembra parzialmente
dissentire il Tribunale che però, per dare concretezza alla sua proposta
interpretativa (un’associazione criminale nascosta dentro Askatasuna),
trasforma la cassa di resistenza No Tav in uno dei pilastri della «struttura
operativa del sodalizio», senza peritarsi di spiegare come il denaro raccolto
da un movimento di massa, finisca poi per foraggiare le attività di un
micro-gruppo delinquenziale incistato nel corpo sano di un centro sociale.
Quanto, invece, all’accordo e al programma criminosi, per colmare il vuoto
sulla loro sussistenza, gli inquirenti e lo stesso Tribunale si sono risolti a
utilizzare parole o frasi estrapolate dalle diverse intercettazioni. L’esempio
più rilevante sarebbe costituito dalla ricorrenza in più intercettazioni o in
documenti riferibili al centro sociale della parola “rivoluzione”, il che si
commenta da solo. Parallelamente, per descrivere il carattere sovversivo
del sodalizio si fa ricorso, negli atti depositati dalla Procura e
acriticamente letti dal Tribunale, a due interviste, peraltro pubbliche,
rilasciate nel 2001 e nel 2011 da due dei suoi presunti dirigenti (che
contengono espressioni tipiche del dibattito della sinistra non istituzionale
dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi), oltre, inopinatamente,
alla ripubblicazione nella sezione storica del sito di Infoaut (alla
voce “Storia di classe”, che racconta la storia dei movimenti e del conflitto
sociale nel nostro paese) di un articolo uscito sulla rivista Rosso,
dell’autonomia milanese, nel 1976.
Qui l’approssimativa padronanza del lessico delle aree antagoniste del
nostro paese si coniuga con la scarsa conoscenza della storia dei movimenti
sociali. Sul piano giudiziario, comunque, inferire dal dibattito politico
elementi sull’esistenza di un’associazione sovversiva è operazione che rischia
di confondere e travolgere i confini che devono sussistere tra teoria e prassi,
tra l’idea sovversiva (tutelata, come insegna la giurisprudenza di legittimità,
dall’assetto democratico e pluralista del nostro ordinamento) e le condotte di
rilevo penale. Questo sembra l’errore di fondo più madornale dell’inchiesta:
scambiare la progettualità criminosa della presunta associazione con il suo
apparato ideologico significa muoversi in una prospettiva di criminalizzazione
di qualsiasi collettivo che si prefigga di mutare lo stato di cose presenti.
Esemplari da questo punto di vista e rivelatrici di una caduta
ancor più culturale che giuridica sono le osservazioni contenute nell’atto
d’appello della Procura, dove vengono proposte delle argomentazioni che
dovrebbero chiarire in concreto come l’associazione in questione abbia un
carattere sovversivo. Lo strabiliante sillogismo proposto, a proposito della
partecipazione del centro sociale alle lotte valsusine è il seguente. Secondo
la giurisprudenza della Cassazione va considerata eversiva qualsiasi condotta
orientata al «sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente» ovvero che
«tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione nella
disarticolazione delle strutture dello Stato o, ancora, nella deviazione dai
principi fondamentali che lo governano». A giudizio
dei pubblici ministeri, tra tali principi rientra il metodo democratico,
con la conseguenza che ogni azione violenta che si contrapponga alla decisioni
della maggioranza parlamentare o del governo democraticamente eletti va
considerata automaticamente sovversiva sul piano giuridico.
Nel nostro caso, in particolare, la realizzazione del treno ad alta
velocità, secondo la Procura, «è stata decisa dal Parlamento […] in esecuzione
di Trattati Internazionali e di obblighi comunitari», le condotte violente
realizzate in val di Susa contrastano con «l’esercizio da parte di chi ne è
titolare del metodo democratico», vale a dire con «la prevalenza dell’opinione
della maggioranza, che è espressione “nelle forme e nei limiti della
Costituzione” della sovranità popolare». Non solo, i reati commessi contro il
cantiere del TAV «hanno portato al risultato di ritardare per lungo tempo la
realizzazione dell’opera», con conseguenti effetti diretti «sull’esecuzione di
legittima decisione del Parlamento». Il paradigma proposto è assolutamente
chiaro: qualsiasi forma di protesta nei confronti di legittime decisioni
assunte dal Parlamento diviene sovversiva se realizzata anche in forme
violente. A dar retta a tale postulato, sarebbero sovversive le proteste degli
studenti contro la riforma della scuola superiore o universitaria, o dei
lavoratori contro le riforme economiche e così via, se nel corso delle
manifestazioni si verificassero degli scontri violenti. Il Tribunale si smarca
da tale prospettazione e lo fa, però, con un’affermazione altrettanto
incongrua, secondo cui tale assioma non regge non perché in contrasto con
un’idea pluralista e conflittuale della democrazia, ma solo perché di fatto i
lavori nel cantiere non sono «mai stati sospesi a causa delle azioni violente».
Insomma, aleggia tra le pagine dell’inchiesta un’idea mortificante della
conflittualità e della partecipazione politica, che si accompagna a una visione
scarsamente consapevole della storia italiana.
4.
Sarebbe bene che quel poco di sinistra che ancora esiste a
Torino e nel paese iniziasse a interrogarsi e a preoccuparsi di
queste derive giudiziarie, perché non si tratta solo di Askatasuna o della
repressione per via giudiziaria delle attività di un centro sociale. Le
affermazioni sopra riportate rendono plasticamente conto – meglio di tante
dissertazioni scientifiche e di tanti slogan sul passaggio dallo Stato sociale
allo Stato penale – dei rischi di una deriva autoritaria non solo della
giustizia ma, visto il ruolo preponderante nell’inchiesta dell’autorità
amministrativa, incarnata nella Polizia di Stato, delle istituzioni, con il
tentativo di delegittimare ed eliminare dallo scenario collettivo il conflitto
e la protesta sociale (https://volerelaluna.it/controcanto/2021/04/07/la-democrazia-autoritaria-che-e-dietro-langolo/).
È di questo che si tratta e allora, tanto per esser chiari, come dice una
vecchia canzone, «même si vous vous en foutez, chacun de vous est concerné».
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