Ampi stralci di un capitolo de Il diritto di Antigone. Appunti per una filosofia politica a partire dai corpi migranti (ombre corte) di Gian Andrea Franchi
L’infanzia ci mostra che di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile non
ci sono soltanto le valenze emotive dell’incertezza, della confusione, della
paura. Può anche sorgere una valenza positiva: lo stupore. Credo che lo
stupore possa dare la base emozionale positiva per l’accoglienza
dell’imprevisto, dell’imprevedibile, dell’ignoto. Anche per l’orrore storico.
[…]
Per me lo stupore è stato questa base emozionale di slancio: una stupita
incertezza sul “che fare?” di fronte all’arrivo dei nuovi migranti, così
diversi da quelli che già conoscevo negli anni Novanta1.
Aldo Gargani, commentando Primo Levi, così scrive efficacemente a proposito
dello stupore di fronte al: “mistero che non è l’enigma di una cosa
particolare, ma il destino in generale dell’essere dell’uomo nel mondo. Questa
limitazione instaura lo stato dello stupore come un ‘aperto’, un regime
dell’interrogazione nel quale non possiamo entrare e dal quale non possiamo
uscire. […] nella tensione verso ciò che è nascosto la nostra volontà abdica di
fronte a una realtà che deve patire, sopportare, e inaugura un pensiero che non
è solo un prodotto, un artefatto della ragione, ma anche un pensiero-affetto,
soprattutto un ascoltare, un rispondere e poi anche un pensiero raccontato2.
Nella mia attività con i migranti è stato fondamentale questo regime
dell’interrogazione coordinato dallo stupore, di fronte
all’inconsueto, all’inquietante di queste presenze che mi interrogavano, insieme, sul
mondo in cui vivo e sul mio intimo. […]
Le emozioni e le passioni – la paura, l’angoscia, la speranza, lo stupore,
la gioia – sono, inoltre, esperienza del tempo: modi di patire, soffrire o
godere la dimensione situazionale del tempo3, l’inafferrabile fondo della vita. Parlo qui della
base elementare della politica intesa come rapporto con il futuro sulla base
primaria di passioni come lo stupore, la speranza, la gioia, capaci di
accogliere il dolore come esperienza di relazione, di apertura all’altro e non
di chiusura su di un sé stesso individuale.
La questione del tempo è ovviamente al cuore della politica. Alcuni autori
fanno una riflessione, che mi pare interessante, sul tempo in termini di
paradigma della generatività, come “movimento antropologico originario che
si realizza in quattro tempi: desiderare (una spinta senza la quale nulla è
possibile), mettere al mondo (far nascere, dare inizio a qualcosa che non
c’era), prendersi cura (senza di cui nulla può durare), lasciar andare”4.
È un tentativo di leggere il tempo – di fare esperienza del
tempo – come potenza generativa, invece che distruttiva, fonte
della possibilità di trasformare ciò che riceviamo da
chi viene prima, producendo un nuovo per chi
viene dopo: il “passare” del tempo come “ricevere e
dare”, “ereditare e promettere”. Il tempo come qualità
diacronica della relazione: dare, ricevere, restituire, scandiscono la
diacronia.
La generatività del tempo si esprime nel corpo, che ne è la concrezione
spaziale. Il tempo corporeo della vita è generativo di forme di vita che
nascono e muoiono. La generatività del tempo della vita avviene attraverso il
corpo femminile. Qui si apre la questione della differenza non solo biologica,
ma sociale e politica di genere, cui si accompagna intrinsecamente quella della
subordinazione della donna all’uomo. Esiste peraltro la generatività simbolica,
che prescinde da quella biologica. […]. Ritengo che anche la questione dei
motivi profondi per cui il corpo generativo femminile è divenuto subalterno
rimandi al rapporto con la morte e al tentativo delle civiltà a dominanza
maschile di controllare i processi vitali. […]
Scrive Shoshana Zuboff che sotto
“la dittatura della ragione di mercato […] muore il sogno e, con essa, la
nostra capacità di meravigliarci e di protestare”
per concludere che oggi
“è il momento giusto per riscoprire il nostro senso dello stupore”5.
Sembra dominare, invece, l’indifferenza per ciò che accade fino a che non
turba la limitata sfera dell’individuo, ma allora si corre ad affidarsi a un
potere.
La ragione di mercato è il dispositivo culturale moderno fondamentale per
gestire il tempo, in maniera ormai esasperata, rifiutando tutto ciò che è
estraneo alla sua logica. Ha ragione Zuboff a parlare di dittatura, una
dittatura senza dittatore che appare come l’ordine naturale delle cose: appunto
per questo, è un pericolo molto più grande delle dittature tradizionali. Quando
c’è una grave crisi sociale, come quella indotta dalla sindemia del covid19, il
dispositivo totalizzante sotto il nome di “economia” funziona come una rete
elastica che si allarga o restringe, a seconda delle circostanze, ma che
esclude ogni alternativa. Anche la crisi aperta dalla guerra russa in Ucraina
mostra, in termini ancor più drammatici, lo stesso effetto.
Ritornando allo stupore, è l’emozione capace di sporgersi positivamente
verso il futuro. Credo che ci sia un rapporto profondo fra lo stupore e
la capacità di immaginare alternative allo stato di cose presente: lo
stupore predispone alla possibilità di fare esperienza. È accoglienza del
tempo, cioè del passare, anche del morire quindi. Lo stupore di fronte
all’ingiustizia, ad esempio, può far sorgere il desiderio non solo di
rifiutarla, ma anche di cercare e di praticare altro. C’è un rapporto
fra stupore e desiderio. Non c’è solo l’odio per l’ingiustizia del
presente – emozione, peraltro, necessaria. L’odio non offre, però, la spinta
per costruire: la forza emotiva, il desiderio e la volontà di cambiare e, poi,
di progettare il cambiamento. Non è un’emozione generativa6.
La costruzione del nuovo richiede un forte impegno emotivo e immaginativo
che implica la produzione di un immaginario comune, per cui – credo – lo
stupore fornisce una spinta di base. Lo stupore, accogliendo la
confusione, l’incertezza di fronte a ciò che non comprendiamo, senza farsene
intimorire per racchiuderlo nel già noto, nel rappresentabile, può trasformarli
in esperienza.
[…] L’accoglimento dell’incertezza può essere – ed è stato per me – impulso
a un’autentica conoscenza nella misura in cui dà luogo all’esperienza. “Prevedere
significa in fondo ‘ordinare’ al mondo di adeguarsi ai nostri calcoli e alle
nostre statistiche, mentre il mondo … continua a cambiare“7. […]
Che cosa intendo allora, qui, con esperienza? Per definire la parola, devo
ricordare che il punto partenza di queste riflessioni – ciò che ai miei occhi
le giustifica – è l’incontro con i migranti-profughi della Rotta balcanica,
caratterizzato proprio dall’incertezza sulla sua valenza politica,
cioè su quello che per me doveva essere il senso di questo
incontro, difficile e complesso, nato in un’età chiamata “vecchiaia”; ma anche
da un’incertezza ancora più intensa sulla mia capacità di rapportarmi al
dolore, individuale e collettivo. Allora l’espressione esperienza
autentica o politica, meglio esperienza sic et simpliciter,
vuol indicare il tentativo di non togliere all’esperienza quello che è il suo
tratto costitutivo: il rapporto con ciò che non rientra nel già noto, nel
prevedibile, nell’immaginato, che è nuovo e perciò inizialmente incomprensibile
– anzi in parte sempre incomprensibile – e angosciante. […]
Il modo in cui sono organizzate le nostre società ci impedisce
proprio di fare esperienza. È notissima la riflessione di Benjamin
sull’incapacità di fare esperienza con cui s’inaugura, attraverso la prima
ecatombe bellica mondiale, il mondo contemporaneo8. L’avvento post-bellico dei fascismi e la
Seconda guerra mondiale – l’epoca dei lager – non hanno fatto altro che
allargare lo spettro del sopportabile e dell’incomunicabile. E oggi
questo fenomeno è ancora più evidente con la smisurata produzione d’immagini
elettroniche, dalla televisione ai cellulari: in una sorta di accecamento dello
sguardo (cui già Benjamin accennava a proposito del ritratto fotografico). Non
c’è il frastuono di una grande guerra (anche se con la questione ucraina
qualcosa cominciamo a sentire…), ma la vibrazione di una quotidianità pervasa
da dispositivi di controllo e comando che s’insinuano capillarmente
nell’intimità9, soprattutto nei paesi occidentali, cui
vanno aggiunti paesi emergenti, fra cui domina ormai la Cina. Nei paesi rimasti
o aggravati, invece, dalla condizione una volta chiamata il Terzo Mondo, la
distruzione ha spesso i connotati di guerre o guerriglie permanenti, in senso
proprio o diffuso.
“L’esperienza è radicata nella singolarità dell’esserci di ciascuno. È un
occhio che guardando si guarda. È autoconoscenza e cura di sé che coglie ciò
che sta sotto il mascheramento dei ruoli sociali che sembrano identificare
l’individuo”10. “Il mascheramento dei ruoli sociali”
agisce sotto l’egida del potere d’identificazione dello Stato che è proprio ciò
contro cui vanno i migranti che varcano illegalmente i confini.
Questa concezione dell’esperienza vale anche e soprattutto nelle situazioni
estreme.
Primo Levi
“da sempre, superato il primo impatto del ritorno da reduce della Shoah,
nutre il bisogno di fare esperienza… attraverso un esercitare attenzione,
capacità di sostare e una continuità meditativa”11.
La parola attenzione mi ricorda ancora un concetto di
Simone Weil. Per lei l’attenzione
consiste nel sospendere il proprio pensiero, lasciandolo disponibile, vuoto
e penetrabile dall’oggetto, pur mantenendo in prossimità al proprio pensiero,
ma un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze
acquisite che pur siamo costretti a utilizzare12.
In questa concezione, che sottende anche culture orientali, è implicito un
certo atteggiamento corporeo, che, in qualche misura, riscontriamo nel rapporto
con i migranti.
L’attenzione weiliana rimanda, secondo me, all’area dello stupore, di cui
mi sembra un modo particolarmente intenso: l’accoglimento dell’ignoto,
dell’inaccettabile, nelle situazioni estreme; una sorta di stupore pensante che
si apre fermamente all’ignoto13.
Milioni di tedeschi e di polacchi, ucraini e altri ancora consapevoli o meno,
convivevano con i lager14. In questi anni, d’intenso rapporto con i migranti,
mi viene spesso in mente un passaggio del documentario di Claude
Lanzmann, Shoah 1985, in cui (cito a memoria) un contadino
polacco che aveva i suoi campi nei pressi di un lager racconta, in
un’intervista, di come ci si abituava alle urla che ogni tanto si levavano dal
campo, di come ci si abituava a convivere con un campo di morte.
Oggi, le decine di migliaia di morti nel Mediterraneo, mare turistico per
eccellenza, non sono forse una situazione estrema, con cui noi conviviamo
tranquillamente? Oggi, il Mediterraneo è un mare di morte e le sue
coste sono piene di campi di detenzione e di villaggi turistici. La mitologica
isola di Lesbo ospitava l’inferno del campo di Moria con 20.000 persone, fino a
quando non si è incendiato. Perciò “il caso limite del Lager diventa
esemplificativo dell’analisi dei meccanismi di potere nelle comunità umane”15. E della civiltà moderna d’origine europea, in
particolare.
Note
1 Queste nuove migrazioni delle rotte mediterranea e balcanica sono
essenzialmente di profughi, sia che si tratti del Medioriente, dove la cosa è
evidentissima, ma anche per la rotta mediterranea, frequentata da persone in
fuga dall’Africa, dove le condizioni in molti territori sono ormai – e sempre
più saranno – di piena invivibilità.
2 Cit. in Giuseppe Varchetta, Un andare pensando. Primo Levi e
la ‘zona grigia’, Mimesis, Milano 2019, p. 35, nota. Sulla questione del
rapporto fra affetto e pensiero sono importanti le riflessioni di Heidegger
(in Sein und Zeit e poi negli Zollikon Seminare) sulla Befindichkeit,
la cui traduzione più efficace mi sembra ancora quella di Chiodi (e Volpi) come
“sentirsi situato”: percezione fondamentale dell’esser gettato, esposto
nel mondo, condizione fondamentale entro cui prende posto e voce il pensiero
che quindi non può prescindere dalla dimensione emotiva.
3 È Benasayag che parla di “tempo situazionale” in
Benasayag, La tirannia dell’algoritmo, cit., p. 92.
4 Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, Generativi di tutto il
mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano
2014, cit. in Elena Pulcini, Tra cura e giustizia, Le passioni come
risorsa sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 169, nota.
5 Soshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro
dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, trad. it. di P. Bassotti, Luiss,
Roma 2019, p. 355.
6 Benasayag distingue fra odio e collera: mentre l’odio è narcisistico
e quindi incapace di azione sociale positiva, creativa, “la collera rimane
un elemento in più in un insieme multiplo”, in M. Benasayag, La
tirannia dell’algoritmo, cit. p.58.
7 Felice Cimatti Pensare con il virus, in “Aut Au”,
389, marzo 2021, cit. p. 43.
8 Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov in
Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi 1981,
p.248: “Le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a
cadere senza fondo. … Con la guerra cominciò a manifestarsi un processo che da
allora non si è più arrestato. Non si era visto alla fine della guerra che la
gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza
da comunicare?” .
9 Si parla di algoritmi predittivi, il cui “obiettivo è comprendere
che tipo di esperienza hanno avuto gli utenti circa un determinato prodotto,
servizio o avvenimento, delineare la polarità delle loro opinioni e prevedere
eventuali reazioni future”, da un articolo di F. Candido sul giornale ‘il
Manifesto’, 30-12-2020.
10 A. Tagliapietra, Esperienza. Filosofia e storia di un’idea,
Raffaello Cortina 2017, p. 134.
11 G. Varchetta, Un andare pensando, Mimesis, Milano 2019,
p.25.
12 S. Weil, Attente de Dieu, La colombe ed., Paris 1963, p.
76 (traduzione mia).
13 E mi sembra significativo che l’economia digitale possa essere
chiamata anche economia dell’attenzione, che vuol dire controllo e
cattura della possibilità di fare esperienza, ad es. v. M. Hindman, La
trappola di Internet, trad. it. D. Gewurz, Einaudi, Torino 2019.
14 Trovo opportuno ricordare che a Trieste, città dell’arrivo della
Rotta balcanica, agiva durante la guerra l’unico lager con forno crematorio in
Italia, la risiera di san Sabba, di cui rimane, fatto monumento, il cupo
edificio di mattoni.
15 M. Belpoliti citato in G. Varchetta, in Un andare pensando,
Mimesis 2019, n. 5 p.103.
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