giovedì 6 ottobre 2022

Aboliamo la parola “sostenibile” - Giorgio Nebbia


L’articolo del grande chimico e ambientalista Giorgio Nebbia (scomparso nel 2019) che di seguito rimbalziamo, riproposto in questi giorni sul n. 45 di Altronovecento, risale proprio all’1 marzo 1999. Ma sembra scritto ieri. A dimostrazione che i problemi ambientali (e le relative soluzioni) sono noti da tempo e che la rimozione e le devastanti truffe linguistiche effettuate dalla politica, dall’economia, dai media sono una scelta assolutamente consapevole. (la redazione di Volerelaluna)


Propongo di abolire dal vocabolario la parola sostenibilità e tutti i suoi aggettivi. Dal momento che una società o uno sviluppo sostenibili, secondo la definizione “ufficiale”, è qualcosa che dovrebbe soddisfare i bisogni umani della nostra generazione assicurando uguali opportunità e condizioni materiali ed ecologiche alle generazioni future, di certo nessuno dei casi a cui viene attaccato l’aggettivo sostenibile è davvero sostenibile.

La parola sostenibile negli anni Novanta è diventata quello che era, negli anni Settanta, la parola “ecologia”; quando si è visto che l’ecologia aveva un contenuto sovversivo, invitava a modificare il comportamento degli esseri umani nei confronti del mondo circostante, chiedeva ai governi e a dalle imprese di modificare le loro politiche, le loro merci e i loro affari, allora i potenziali soggetti “disturbati” dalla nuova maniera di vedere il mondo, se ne sono appropriati. Sono così nati i governi ecologici, i detersivi ecologici, le automobili ecologiche, le plastiche ecologiche, eccetera, col loro carico di violenza all’ambiente, di inquinamento, di attentati alla salute umana.

Negli anni Ottanta la stessa sorte è toccata all’aggettivo “verde”; quando si è visto che i movimenti e partiti verdi raccoglievano consensi su programmi, altrettanto sovversivi, di modificazioni economiche e di innovazioni tecniche, allora governi e imprese si sono fatti “verdi”; e così sono nati la benzina verde (col suo bravo veleno di benzene e di idrocarburi cancerogeni), i governi verdi, che si oppongono strenuamente all’abolizione delle armi nucleari, le imprese verdi che continuano a scaricare i loro rifiuti tossici dove capita.

Infine è saltata fuori la sostenibilità, ancora più sovversiva, con la sua richiesta di una società che avrebbe dovuto far cessare le azioni che danneggiano l’ambiente e la natura, in relazione alle condizioni di vita non solo dei nostri coinquilini del pianeta Terra di oggi, ma anche di quelli che sarebbero venuti sullo stesso pianeta, nella stessa casa, decine e decine di anni dopo di noi, nel futuro.

Nel nome del rispetto delle generazioni future, dell’impegno di assicurare la sostenibilità delle loro condizioni vitali, avrebbero dovuto essere vietati la distruzione delle foreste, l’inquinamento dell’atmosfera e dei mari, l’impoverimento delle riserve agricole e minerarie, cioè tutte le azioni che avrebbero potuto lasciare meno acqua, meno cibo, meno fonti energetiche alle persone che vivranno nel 2025, o nel 2050, eccetera.

L’idea della sostenibilità introduceva una nuova categoria di doveri, non solo verso il prossimo che è vicino a noi, non solo verso il prossimo che è presente da qualche altra parte anche lontana, del pianeta, ma anche nei confronti delle persone e degli esseri viventi che verranno dopo di noi, del “prossimo del futuro”.

Un’attenta osservazione mostra che chi promette qualcosa di sostenibile, secondo la definizione di questa parola, inganna i suoi ascoltatori. Tutto quello che si può fare, nei confronti delle generazioni future, del tempo che verrà, è impegnarsi in azioni meno insostenibili. Mangiare la torta, e poi averla ancora tale e quale, come vorrebbe la definizione di sostenibilità, è un obiettivo fisicamente irraggiungibile: lo spiega bene l’economista Nicholas Georgescu-Roegen (di cui raccomando la lettura del libro Energia e miti economici, apparso nei mesi scorsi in una nuova edizione pubblicata dall’editore Bollati Boringhieri) sulla base di considerazioni puramente fisiche, termodinamiche, quindi incontestabili.

Ogni volta che tocchiamo i corpi della natura (l’aria, le acque, le riserve di minerali e di fossili, il suolo agricolo, le foreste) per ricavarne le merci che tengono in moto l’economia, così come la si intende oggi, ci lasciamo alle spalle energia e materia che non possono più essere utilizzati ai fini originari e quindi peggiori condizioni per chi verrà in futuro.

Quando spostiamo l’energia da un corpo all’altro, alla fine la quantità di energia è la stessa, ma, per il secondo principio della termodinamica, con l’energia usata non è possibile più scaldare i corpi o muovere le macchine come abbiamo fatto la prima volta; durante l’uso peggiora la qualità, diminuisce la utilizzabilità dell’energia, un fenomeno che i fisici descrivono affermando che aumenta l’entropia del sistema considerato. Ma lo stesso avviene con la materia: ogni volta che estraiamo minerali dal sottosuolo, ogni volta che coltiviamo un campo, lasciamo dei corpi naturali impoveriti; mai più avremo gli stessi minerali o combustibili usati e finiti sotto forma di acciaio o di alluminio o di materia plastica, mai più otterremo lo stesso raccolto dallo stesso campo se non reintegriamo i sali nutritivi che il raccolto precedente ha sottratto.

L’operare secondo leggi economiche e merceologiche lascia, inesorabilmente, ai tempi futuri riserve energetiche e materiali più povere, per cui chi verrà in futuro non solo avrà meno opportunità, rispetto a noi, ma dovrà fare più fatica ad avere altro ferro, altro petrolio, altra gomma, altro grano, a trovare spazi o fiumi in cui scaricare i propri rifiuti. Qualsiasi azione politica, produttiva, commerciale, non può, quindi, lasciare alle generazioni future condizioni uguali a quelle di cui aveva goduto, ma al massimo potrà fare in modo che quanto viene lasciato al futuro sia un po’ meno degradato e impoverito. Ma tutta la nostra società, la nostra economia, ci impone il dovere morale di estrarre più minerali, più grano, più petrolio dalle riserve della natura, con la conseguenza di sporcare sempre più, col nostro gran daffare, le acque e l’aria; tutto il nostro daffare, insomma, rende meno accettabili, umane, sostenibili, le condizioni di chi vivrà in futuro.

Allora: quando vedete che i governi promettono una società sostenibile e nello stesso tempo vi invitano ad aumentare i consumi di merci prodotte impoverendo le risorse della natura e sporcando l’aria e l’acqua, che, per definizione, dovrebbero essere lasciate inalterate alle generazioni future, siate certi che vi prendono in giro. Quando sentite i sindaci che promettono la città sostenibile o il turismo sostenibile e fanno aumentare le automobili in circolazione o i motoscafi o le seggiovie, che distruggono i boschi e sporcano l’aria e il mare, beni che le generazioni future dovrebbero trovare tali e quali come li abbiamo trovati noi, siate certi che vi prendono in giro.

Non escludo che i governi possano trovare giusto, per i loro principi e per favorire gli affari delle imprese, far aumentare il numero delle automobili, la superficie delle strade, la massa delle merci e dei rifiuti, il numero delle bombe nucleari, ma abbiano almeno il pudore di non venirci a dire che questo non danneggia le generazioni future, che il loro comportamento è sostenibile.

L’articolo è tratto da Villaggio Globale dell’1 marzo 1999

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