martedì 18 ottobre 2022

Un caso di possibile deglobalizzazione: i chip - Vincenzo Comito

 

La produzione di semiconduttori è diventata l’attività più importante al mondo a livello industriale visto che i chip costituiscono i mattoni di tutta la civilizzazione numerica. Ma la loro produzione, super globalizzata, adesso va a singhiozzo. E il motivo è tutto geopolitico.

Note generali

Il settore dei semiconduttori appare certamente importante per comprendere i tentativi di deglobalizzazione posti in essere negli ultimi anni, in particolare su iniziativa degli Stati Uniti, paese che vede ormai come quella con la Cina sia una lotta inevitabile da portare avanti ad ogni costo, in un settore che si presentava invece sino ad oggi come esemplare per la presenza di una globalizzazione per molti versi “virtuosa”.

In un precedente articolo, pubblicato su questo stesso sito in data 30 settembre 2022, cercavamo di dare una visione complessiva dei processi di possibile decoupling tra gli Stati Uniti e in parte il mondo occidentale da un lato e la Cina dall’altro. In questo nuovo testo proviamo ora a presentare un caso tra i più interessanti al riguardo, quello dei chip

Quella della produzione di semiconduttori è diventata nella sostanza l’attività più importante che ci sia al mondo a livello industriale; costituiscono infatti i mattoni di base di tutta la civilizzazione numerica (Escande, 2021). 

Il settore esemplifica in maniera molto evidente il crescente peso dell’Asia nell’economia del mondo, dopo che in passato nello stesso settore era abbastanza incontrastato il dominio occidentale. La prevalenza oggi dei produttori asiatici, in particolare della sudcoreana Samsung e della taiwanese TSMC, appare un dato relativamente recente.

I paesi europei controllavano una quota della produzione globale del 44% ancora nel 1990, mentre attualmente tale quota è scesa a meno del 10%. Gli Stati Uniti, che nel 1990 ottenevano il 37% della produzione globale, oggi ne controllano appena il 12%. Appare interessante rilevare come molti decenni fa i produttori occidentali di componenti, allora dominanti, avessero aperto diversi siti produttivi in Asia per sfruttare la presenza in loco di una manodopera abbondante, abile e molto a buon mercato. Da tali basi produttive decentrate, sempre più rilevanti, si svilupperà poi una produzione locale autonoma. 

Nessuna regione del mondo nella sostanza ha sino ad oggi raggiunto un’autonomia strategica completa nel settore; tra l’altro, la complessità tecnologica e i problemi di economia di scala hanno portato all’affermazione di un rilevante numero di attori in vari paesi del mondo, concentrati ognuno in qualche specifico segmento della catena del valore (Stockal, 2021). 

Seguendo uno schema di Le Monde del 9 febbraio 2022, da noi un poco arricchito, possiamo dire che è facile che un nuovo chip venga progettato negli Stati Uniti, su di un’architettura della britannica ARM, che le materie prime vengano dalla Cina, che la produzione relativa sia effettuata a Taiwan o nella Corea del Sud, su macchine della olandese ASML, che la stessa produzione venga poi assemblata in Malaysia, con i gas speciali necessari inviati dal Giappone; questa produzione complessa sarà poi collocata sul mercato soprattutto in Cina o in Asia, continente che controlla il 70% di quello mondiale, con la Cina da sola, almeno secondo alcune fonti, che rappresenta intorno al 60% dell’intero mercato. Un miracolo della globalizzazione.

La preminenza asiatica

Una forte preminenza asiatica si registra nelle attività di pura produzione dei chip logici, quelli che processano le informazioni (nelle cosiddette “fonderie”) e nelle memorie. Nel campo del foundry, cioè dei chip prodotti da un’impresa sulla base di una progettazione da parte dei vari clienti, la quota di mercato di Taiwan è, secondo alcune fonti, del 64% (per un’altra fonte del 56%) e quella della Corea del Sud del 17% e quella degli Stati Uniti, infine, del 7%. I governi di Usa, Cina, Giappone, UE e India chiedono in maniera unanime alla TSMC di costruire stabilimenti nei loro paesi, segno tangibile del suo successo; ma la mossa della delocalizzazione non sembra molto positiva a livello economico e appare dettata soltanto da pressioni politiche (Hille, 2021).

La Corea del Sud ospita il primo e il secondo produttore di chip di memorie del mondo, Samsung e SK Hynix. La Samsung controllava nel 2021 una quota di mercato del 43% nelle memorie DRAM e del 35% in quelle NAND.  

La Cina 

Il piano quinquennale cinese 2021-2025 pone al suo centro il concetto di autosufficienza tecnologica e sicuramente in questi anni il paese ha fatto enormi passi in avanti in tale direzione, anche se ci sono questioni su cui ancora arranca. A questo proposito si possono citare proprio i chip e l’aeronautica civile.  

C’è urgenza di acquisire avanzamenti adeguati nel settore e questi avanzamenti sono ora spinti dal fatto che sia Trump che Biden hanno portato avanti una politica delle sanzioni e dei veti sempre più aggressiva con il paese asiatico. Si veda meglio più avanti.

La produzione nel settore si collocava al 16% del totale mondiale nel 2020 e il grado di autosufficienza del paese era stimabile intorno al 30% nello stesso anno, anche se in crescita, quando l’obiettivo a suo tempo stato fissato era al 40%. Nel 2021 sono stati prodotti nel paese 359,4 milioni di circuiti integrati, con un incremento del 33,3% sullo stesso periodo dell’anno precedente. Il 2022 testimonia poi di molti avanzamenti tecnologici dei produttori cinesi.

Così, nel campo delle fonderie, la SMIC è entrata nel mercato dei 28nm con una produzione di massa nel 2020, ma già nell’agosto del 2022 è stato annunciato, tra la sorpresa generale e il disappunto statunitense, l’avvio concreto della produzione anche dei chip a 7 nanometri, mentre sembra in qualche modo avviata anche quella a 5 nanometri. Il tutto senza poter utilizzare le macchine, i chip e il software avanzati, di cui gli Stati Uniti bloccano le forniture. 

Il paese sta avanzando anche nel settore delle macchine litografiche necessarie alla stampa dei circuiti. 

Intanto almeno due produttori cinesi, la Yangtse YTMC e la Changxin Memory Technologies, hanno avviato due grandi fabbriche per le memorie e stanno riuscendo a penetrare in misura rilevante nel settore, mentre la AMEC sta sviluppando con successo delle apparecchiature avanzate per le produzioni del settore e lo stesso sta facendo la SMEE.

L’obiettivo in atto appare quello di sviluppare una catena di fornitura completa ed autonoma nel paese e il tentativo degli Stati Uniti di bloccare tale processo sembra plausibilmente votato al fallimento, almeno nel medio-lungo termine (Foster, 2022), mentre nel breve le conseguenze del blocco americano potrebbero essere rilevanti.

Gli Stati Uniti

Mentre la Cina sta cercando di tener dietro ai principali paesi produttori, la posizione degli Stati Uniti appare molto diversa. 

Gli Usa hanno perso il primato quasi assoluto che possedevano sino a qualche tempo fa, ma sono ancora molto forti su alcuni segmenti del mercato e su alcune tecnologie di base. Nella sostanza, gli Stati Uniti dipendono oggi largamente da TMSC ed Hynix per la produzione dei chip, da Samsung per quella delle memorie, dall’olandese ASMT per le apparecchiature fotolitografiche.

Il governo Usa sta avviando, soprattutto per contrastare la crescita cinese, un piano da 52 miliardi di dollari, il Chip Act, che dovrebbe aiutare ad accrescere gli sforzi nel settore della produzione e della ricerca di chip. Per ottenere i finanziamenti del piano le imprese dovranno impegnarsi a non espandere per i prossimi dieci anni le loro attività nel settore in Cina e comunque di non qualificarle verso l’alto. Ma il fondatore di TSMC, Morris Chang, afferma che costruire una filiera completa nel paese, come è nelle intenzioni di Biden, sarebbe un compito impossibile.  

Intanto gli Stati Uniti stanno cercando di avviare un’alleanza con Corea del Sud, Taiwan, Giappone – dal nome di Fab 4 Chip Alliance – che mira nella sostanza di nuovo a bloccare i progressi della Cina nel settore, oltre che presumibilmente a catturare in qualche modo le tecnologie avanzate degli altri tre paesi.

Ma gli altri paesi coinvolti nella possibile alleanza sono piuttosto riluttanti, sia perché temono di dover cedere i loro segreti industriali alle altre imprese partecipanti, in particolare a quelle degli Stati Uniti, sia per paura della reazione cinese, di gran lunga il loro primo mercato di sbocco (Shilov, 2022).

Biden non si ferma certo qui. Negli ultimi tempi ha anche avviato una serie di divieti mirati sempre più duri contro il paese asiatico. 

Dopo le restrizioni di Trump, nel giugno del 2021 l’attuale presidente Usa ha pubblicato una lista di imprese cinesi (la cosiddetta “entity list”) ritenute collaboratrici del settore militare, nelle quali gli investitori statunitensi non possono investire, mentre tali imprese non possono raccogliere fondi sul mercato Usa e alle società Usa è proibito fornire loro tecnologie. 

Nell’agosto del 2022 Biden ha poi imposto nuove restrizioni alla vendita di chip sofisticati che vengono utilizzati nei supercomputer e nel campo dell’intelligenza artificiale. Ha tentato di convincere l’olandese ASTM a cessare di vendere alla Cina non solo le macchine più avanzate, cosa che è già in atto da tempo, ma anche apparecchiature meno avanzate.

Nell’ottobre del 2022 vengono infine rese pubbliche una serie di nuove e più pesanti restrizioni che segnano ormai un vero e proprio spartiacque nelle relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti (Sevastopulo, Hille, 2022), rendendo più difficile per le imprese di quel paese ottenere o produrre chip avanzati, in particolare nel campo dei computer e dell’intelligenza artificiale. Caduta la scusa del non permettere sviluppi nel campo militare, le nuove norme cercano di bloccare i progressi delle tecnologie cinesi in ogni settore e con ogni mezzo. Tra l’altro, viene allungata di 13 unità la lista delle imprese comprese nella “entity list”. Inoltre si proibisce alla imprese Usa di esportare strumenti e macchinari per la produzione di chip avanzati e, più in generale, si fa divieto alle imprese e ai singoli cittadini Usa di fornire ogni possibile assistenza per la produzione di semiconduttori nel paese asiatico. Infine si blocca anche per le imprese non-Usa la possibilità di fornire alle imprese cinesi comprese nella “entity list” sia hardware che software che contengano tecnologia “made in Usa”. Biden, a quanto sembra, sta poi preparando un ordine esecutivo che permetta al governo di Washington di revisionare gli investimenti esteri delle imprese Usa dal punto di vista dei rischi per la sicurezza statunitense (Sevastopulo, Hille, 2022; Mozur, Swanson, Wong, 2022).  

Il quadro europeo 

Abbiamo già ricordato l’ormai ridotto peso della produzione del Vecchio continente. Le aziende di rilievo si possono contare sulle dita di una mano e nessuna di esse, tranne l’olandese ASML e la britannica ARM, presenta una posizione di grande importanza sul mercato mondiale. Nell’ambito dei suoi tardivi tentativi di recuperare il tempo perduto, la UE ha annunciato di voler arrivare entro il 2030 ad avere una quota di almeno il 20% della produzione totale del settore, mentre oggi l’Europa dipende in gran parte dagli Stati Uniti per la progettazione dei chip e dall’Asia per la loro produzione (Di Donfrancesco, 2021). 

A questo proposito è stato varato quello che è stato chiamato lEuropean Chip Act. Si afferma che per raggiungere i traguardi indicati verranno mobilitate altrettante risorse finanziarie di quelle stanziate da Biden negli Stati Uniti.

Il capo di Infineon si dichiara scettico dell’iniziativa della UE, perché secondo lui l’Europa non genera una domanda di chip adeguata a sostenere una tale mole di investimenti. Altri mettono in rilievo che per raggiungere il 20% di quota del mercato globale sarebbero necessari investimenti molto più elevati di quelli previsti (Gross, 2021).

Alla fine ci sembra si possa dire che tutta l’operazione appare non sufficientemente in grado di contrastare la dinamica asiatica e statunitense. 

L’andamento del mercato

Da tempo il settore si espande a velocità sostenuta e le imprese stanno portando avanti enormi investimenti per accompagnare tale tendenza di fondo. Nel mondo sono in costruzione in questo momento molte decine di nuovi impianti nel settore, di cui una trentina soltanto in Cina, mentre le grandi imprese asiatiche investono in patria ma anche negli Stati Uniti e in altri paesi, sotto la spinta degli incentivi monetari e fiscali posti in essere da questi ultimi nonché delle pressioni politiche esercitate in particolare dagli Stati Uniti.

Ma in questo momento si vanno manifestando anche dei rallentamenti nella domanda di mercato e una società specializzata, la Gartner, prevede che nel 2023 si ridurrà, sia pure di poco. All’interno di un mercato che mostra segni di difficoltà si manifesta una divaricazione nell’andamento dei suoi diversi segmenti. In particolare, il comparto dei chip logici continua a crescere fortemente e quindi la fortuna di TSMC continua ad essere sostenuta. Per converso, il segmento delle memorie mostra segni di cedimento e in questo caso a soffrirne sono le imprese della Corea del Sud, in particolare la Samsung (The Economist, 2022). Così nel mercato di Borsa la società taiwanese sta guadagnando punti, mentre quella coreana ne sta perdendo.

Conclusioni

Sembra profilarsi, a causa in particolare della strategia Usa tous azimuts di contrasto alla crescita cinese, una regionalizzazione sia pure probabilmente parziale del settore dei semiconduttori e una tendenza all’autosufficienza, con il chip “ormai brandito come un trofeo da conquistare da parte dei grandi del mondo; ciascuno ne fa la condizione della sua indipendenza futura” (Escande, 2021). E questo anche se la demondializzazione non appare un’opzione economicamente razionale né per gli Usa né per la Cina (Escande, 2021). Si tratta di un’industria “naturalmente” integrata a livello mondiale e sarebbe molto costoso per ogni paese mettere a punto una catena del valore nel settore completamente domestica. Alla fine non sarebbe una cosa saggia né veramente fattibile. Biden cerca comunque di portarla avanti. E la Cina per necessità sta rispondendo a sua volta a tale offensiva cercando anch’essa di sviluppare una propria industria autonoma, mentre sta cercando di avanzare anche sul secondo fronte critico nei suoi rapporti con gli Stati Uniti, quello della dedollarizzazione, cosa che apparentemente stanno cercando di fare anche l’UE, l’India e altri, senza peraltro avere le risorse umane e materiali dei primi due paesi. Vedremo. 

Testi citati nell’articolo 

-Di Donfrancesco G., Per l’Europa rincorsa difficile nell’industria dei chip, Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2021 

-Escande P., Puces électroniques: la démondialisation impossible, Le Monde, 15 maggio 2021

-Foster S., China on course to elude cip-making equipment bans, www.asiatimes.com, 3 ottobre 2022

Gross A., EU must offer 20 billions of euro if it wants more chip production, says Soitec chief, www.ft.com, 15 settembre 2021

-Hille K., Spreading chip plants around world will add to costs, www.ft.com, 27 luglio 2021

-Mozur P., Swanson A., Wong E., U.S. said to plan new limits on China’s A.I. and supercomputing firms, www.nytimes.com, 3 ottobre 2022

-Sevastopulo D., Hille K., US hits China with sweeping rech export controls, www.ft.com, 7 ottobre 2022    

-Shilov A., US-proposed chip 4 alliance faces opposition from partners, www.tomshardware.com, 14 settembre 2022

-Stockal, Semiconductor industry: key growth drivers and changing trends- An overview, www.financialexpress.com, 9 luglio 2021

The Economist, Painful memory, 1 ottobre 2022

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