Nel gennaio del 1990, quando con il crollo del Muro di Berlino si cominciava a parlare con crescente insistenza della riunificazione tedesca e la Bundesbank si accingeva a rialzare vigorosamente i tassi per richiamare i capitali necessari a finanziare l’operazione, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi dispose il passaggio della lira dalla banda larga alla banda stretta del Sistema Monetario Europeo (Sme).
La drastica riduzione dei margini di oscillazione non rispondeva ad alcuna
ragione concreta, se non di supposto “prestigio internazionale” da conferire al
Paese. In compenso, l’ingresso nella “massima serie” richiedeva un
considerevole rafforzamento della moneta italiana, che la stessa Banca d’Italia
si prodigò di sostenere attraverso un convinto innalzamento dei tassi.
Alcuni nostri connazionali, fiutata l’aria che tirava, cominciarono a esportare
capitali all’estero, mentre il debito pubblico raggiungeva quota 105% rispetto
al Pil, i rendimenti dei titoli di Stato schizzavano oltre la soglia critica
del 12% e la bilancia dei pagamenti registrava un passivo sempre più pesante.
Nel giugno del 1992, mentre il gotha della grande finanza anglo-statunitense si
incontrava con alcuni dirigenti dei Ministeri romani più importanti e
dell’industria di Stato italiana* a bordo del panfilo Britannia (di proprietà
della Regina Elisabetta), la Bundesbank alzò i tassi al 10%, richiamando
capitali da tutto il mondo e provocando una netta rivalutazione del marco
rispetto a tutte le altre monete europee. Sul Forex, gli speculatori alzarono
il tiro contro la lira, specialmente in seguito alla bocciatura del Trattato di
Maastricht ad opera dei danesi.
La notte tra il 10 e l’11 luglio (un venerdì e un sabato), il governo Amato,
insediatosi da neanche due settimane, varò il decreto-legge n. 333, intitolato
Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica. Il provvedimento
stabiliva testualmente che «per l’anno 1992 è istituita una imposta
straordinaria sull’ammontare dei depositi bancari, postali e presso istituti e
sezioni per il credito a medio termine, conti correnti, depositi a risparmio e
a termine, certificati di deposito, libretti e buoni fruttiferi, da chiunque
detenuti». Significativamente, la misura fu adottata nel fine settimana al fine
di prevenire corse agli sportelli, e all’applicazione pratica del prelievo
forzoso del 6 per mille fu attribuito il carattere di retroattività al 9 luglio
precedente per evitare fughe di capitali. Il ministro del Tesoro Piero Barucci,
dal canto suo, parlò di «contributo che chiediamo alla gente; devono mettere
una mano sul cuore e una sul portafoglio».
L’iniziativa del governo Amato preluse a una manovra finanziaria comprendente
43.500 miliardi di tagli alla spesa pubblica e 42.500 miliardi di nuove
entrate. Nonché 7.000 miliardi di dismissioni, da ottenere attraverso la
preventiva conversione delle aziende pubbliche o parastatali in Società Per
Azioni in vista della loro privatizzazione. Un volume complessivo di 93.000
miliardi di lire, pari al 5,8% del Pil dell’epoca. Nello specifico, fu
introdotta l’Imposta Straordinaria Immobiliare (Isi, destinata a perdere il
carattere di straordinarietà l’anno successivo) del 2 per mille sui valori
catastali di fabbricati residenziali, e del 3 per mille sulle seconde case. Due
mesi dopo, l’esecutivo impose un’imposta sui beni di lusso e il patrimonio
netto delle società – la futura Irap – con aliquota pari al 7,5 per mille.
Parallelamente all’entrata in vigore del decreto-legge n. 333, la Banca
d’Italia innalzò il tasso di sconto dal 12 al 13% e il tasso sulle
anticipazioni a scadenza fissa dal 13 al 14,5%, caricando sulle spalle del
Tesoro un esborso aggiuntivo di spese per interessi quantificabile in 10.000
miliardi di lire pur di sostenere la quotazione della moneta italiana.
Il 13 agosto, sulla scia dell’incedere di Tangentopoli e della campagna
stragista di stampo mafioso, Moody’s declasso di ben due livelli il rating dei
Buoni del Tesoro Poliennali. Il successivo 27 agosto, a un’asta organizzata dal
Tesoro, rimasero invendute obbligazioni statali per un ammontare di 3.300
miliardi di lire. La mattina del successivo 4 settembre, il Forex italiano
venne sommerso da un’ondata spaventosa di ordini di vendita sulla lira
provenienti dall’Europa e dall’Asia – Wall Street era ancora chiusa. Di fronte
allo scivolamento della lira a quota 765,50 per marco, la Banca d’Italia elevò
il tasso di sconto di 1,75 punti percentuali portandolo alla soglia del 15%.
Una mossa platealmente disperata, puntualmente interpretata come tale da
singoli operatori e grandi gruppi speculativi – Quantum Fund di George Soros in
testa – che inanellarono una interminabile catena di vendite allo scoperto destinate
a vanificare la sconsiderata strategia difensiva messa in campo dalla Banca
d’Italia in accordo con il governo, culminata con la polverizzazione di 48
miliardi di dollari di riserve valutarie.
La sera del 13 settembre, il premier Amato annunciò a reti unificate la
svalutazione del 7% della lira. In realtà, l’entità del deprezzamento della
moneta italiana calcolata sulla base delle transazioni effettive espletate sul
mercato valutario sarebbe stata successivamente quantificata nel 32,2% rispetto
al dollaro e del 29,2% rispetto al marco, che consentì ai grandi gruppi
prevalentemente stranieri di acquisire le imprese statali messe in vendita
nell’ambito del piano di privatizzazione disposto dal governo – la presidenza
del comitato italiano per le privatizzazioni fu affidata a Draghi – a prezzo di
sconto. Un disastro, dovuto anche all’ingente deflusso di capitali “autoctoni”
che fece seguito al prelievo forzoso decretato nel luglio precedente. In appena
due settimane, qualcosa come 25.000 miliardi di lire erano migrati dai conti di
deposito delle banche italiane verso i conti cifrati degli istituti domiciliati
in Svizzera e presso altri paradisi fiscali, consentendo ai relativi titolari
che avevano provveduto “opportunamente” alla conversione dei propri averi in
dollari di intascare una plusvalenza del 30% circa, pari a 9.000 miliardi.
Altri tre mesi a questo ritmo, e l’impatto della manovra “lacrime e sangue”
applicata dal governo solo poche settimane addietro sarebbe stato completamente
vanificato.
Il 17 settembre, Amato ufficializzò l’uscita della lira dallo Sme. Il 7
ottobre, quando lo spread tra Buoni del Tesoro Poliennali e Bund tedeschi
raggiunse la soglia record di 769,8 punti, la Lega Nord «invitò gli italiani a
smettere di acquistare titoli di Stato a ridosso della maxi emissione da 47.000
miliardi e lo Stato arrivò a bloccare i pagamenti essenziali per contenere le
emissioni delle obbligazioni».
Nel giro dei cambisti, il premier Amato, il governatore della Banca d’Italia
Ciampi, il suo vice Lamberto Dini, il ministro del Tesoro Barucci e il
direttore generale del medesimo dicastero Mario Draghi venivano sarcasticamente
denominati “dream team”: chiara allusione alla formidabile squadra di basket
statunitense uscita vincitrice alle Olimpiadi di Barcellona. Ma a dispetto dei
fallimenti a loro ascrivibili, nei confronti di quattro dei cinque (tutti
tranne Barucci) componenti del “dream team” scattò un meccanismo premiale.
Amato sarebbe divenuto presidente della Antitrust e quindi della Corte
Costituzionale. Ciampi si sarebbe insediato a Palazzo Chigi. Dini avrebbe
assunto gli incarichi di ministro del Tesoro (governo di centrodestra), quindi
di premier tecnico e infine di ministro degli Esteri (governo di
centrosinistra). Draghi avrebbe ottenuto un ruolo di rilievo in Goldman Sachs,
quindi la direzione della Banca d’Italia, poi la presidenza della Banca
Centrale Europea e infine quella di primo ministro. A Soros, ciliegina sulla
torta, sarebbe stata conferita una laurea honoris causa dall’Università di Bologna
su proposta di Romano Prodi.
*A bordo del Britannia sarebbero stati presenti l’ex ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, il direttore
della banca Imi Rainer Masera, il vicepresidente dell’Iri Riccardo Gallo,
l’amministratore delegato di Comit Mario Arcari, il presidente di Ambroveneto
Giovanni Bazoli, Alberto Pera dell’Antitrust, Corrado Conti della Consob,
Giulio Tremonti, Luigi Spaventa, Mario Baldassarri, i vertici di Snam, Agip e
Ina. Oltre a Mario Draghi, il quale avrebbe successivamente spiegato alla
Commissione Finanze che le privatizzazioni non erano state attuate in un’ottica
di ridimensionamento del debito pubblico, in quanto «i numeri del fabbisogno
del debito pubblico sono talmente grandi che l’apporto che potrà provenire
dalle dismissioni al risanamento della finanza pubblica o all’abbattimento del
debito non sarà grande in termini puramente aritmetici. Ciò che conta è il
segnale psicologico nei confronti dei mercati».
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