Per definire il nostro spazio di possibilità storico bisogna comprendere la
collocazione che abbiamo all’interno della traiettoria della nostra civiltà.
Noi tutti, italiani, europei, occidentali ci troviamo all’interno di una
fase di crisi epocale, potenzialmente terminale, del mondo liberale che ha
preso forma poco più di due secoli fa.
Che questa forma di civiltà, diversamente da tutte quelle che l’avevano
preceduta, fosse affetta da contraddizioni interne autodistruttive era stato
chiarito già dall’analisi marxiana a metà Ottocento. Gli elementi principali
internamente contraddittori erano chiari sin da allora, per quanto Marx
concentrasse lo sguardo sulla linea di frattura sociale (tendenza alla
concentrazione oligopolistica e alla pauperizzazione di massa), mentre gli
mancava per ovvie ragioni storiche la percezione di altri sbocchi critici
inerenti alle medesime contraddizioni (non c’era né la consapevolezza della
possibilità di un’estinzione della specie per via bellica, divenuta una
possibilità dopo il 1945, né l’idea della rilevanza dell’impatto degenerativo
del progressismo capitalista sul sistema ecologico). Un sistema che vive solo
se cresce e che nel crescere consuma individui e popoli come mezzi indifferenti
per il proprio accrescimento produce sempre, necessariamente e sistematicamente
tendenze al collasso. La lettura marxiana, forse troppo condizionata dai propri
desideri, previde come forma del crollo a venire un crollo rivoluzionario, in
cui maggioranze impoverite si sarebbero rivoltate contro oligopoli
plutocratici. Il crollo che invece si presentò agli occhi della generazione
successiva fu la guerra, una guerra mondiale come conflitto finale nella
competizione imperialistica tra stati che erano realmente diventati “comitati
d’affari della borghesia”.
La fase attuale presenta tendenze molto simili a quelle dei primi del ‘900: una
società apparentemente progressiva e opulenta, secolarizzata e scientista, in
cui i margini di crescita (“plusvalore”) si erano però ristretti e avevano
indotto a cercare fonti di risorse alimentari e materie prime sempre più
lontano, in paesi colonizzati. Questo fino a quando le singole ambizioni di
crescita avevano iniziato - sempre più spesso - a collidere sul piano
internazionale, spingendo a preparare ad un possibile conflitto attraverso
trattati segreti di alleanza militare che dovevano scattare in presenza di un
casus belli.
Che l’esito della crisi attuale sia una guerra mondiale totale sul modello
della Seconda Guerra mondiale è solo una possibilità.
Potrebbero prevalere le spinte a farne una guerra più simile alla Prima, dove
il fronte è l’Ucraina e le retrovie che si fanno carico di fornire mezzi alla
guerra sono rispettivamente l’Europa e la Russia. Nella Prima Guerra Mondiale i
civili non erano direttamente coinvolti dagli eventi bellici salvo che nelle
zone di contatto, ma il coinvolgimento complessivo in termini di impoverimento
e carestia fu enorme. Tra il 1914 e il 1921 l’Europa perse tra 50 e 60 milioni
di abitanti, di cui morti direttamente durante il conflitto erano “solo” tra 11
e 16 milioni (a seconda delle modalità di conteggio).
Dalla Guerra emerse uno specifico ceto industriale più ricco e potente di
prima, ed era quello coinvolto direttamente o indirettamente negli
approvvigionamenti del fronte. I paesi più lontani dal fronte e non coinvolti
direttamente uscirono dalla guerra persino più ricchi e comparativamente più
potenti.
Questa è naturalmente anche la prospettiva e l’auspicio di chi oggi alimenta il
conflitto da remoto.
L’esperienza dell’ingresso in guerra, con la complicità di fatto di quasi tutti
i partiti socialisti e socialdemocratici, rappresentava un trauma da cui trarre
un insegnamento fondamentale, insegnamento che attualizzato potremmo tradurre
con: la sinistra di sistema non ha alcuna capacità né volontà reale di opporsi
al degrado del sistema. In risposta a questo trauma Gramsci nel 1919 fondava
una rivista dal nome altamente simbolico l’Ordine Nuovo; e due anni dopo, sulla
scorta dell’apparente successo della Rivoluzione Russa, nasceva il PCI, con
l’intenzione di essere precisamente un antidoto a quanto avvenuto: una forza
“antisistema” capace di rovesciare i paradigmi sociali e produttivi che avevano
condotto alla guerra (e che rimanevano intatti).
Nello stesso torno d’anni prendeva forma il movimento dei Fasci di
Combattimento, il cui Manifesto “sansepolcrista”(giugno 1919) può stupire chi
conosca la successiva evoluzione del regime fascista.
Anche qui l’onda dell’esperienza dell’anteguerra e della guerra spingeva in una
direzione di rinnovamento radicale “antisistema”. Vi troviamo la richiesta di
suffragio universale (anche femminile), la giornata lavorativa di 8 ore, il
salario minimo, la partecipazione dei lavoratori al governo dell’industria,
un’imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo con
espropriazione parziale di tutte le ricchezze, il sequestro dell’85% dei
profitti di guerra, ecc.
Di lì a pochi anni, tuttavia, il movimento dei Fasci di Combattimento perderà
tutte le istanze socialmente più radicali e verrà riassorbito nel sistema,
ottenendo in cambio il sostegno economico degli agrari e della grande
industria, che lo utilizzeranno in funzione anticomunista e antisindacale. Con
una lettura attualizzata (e naturalmente forzata, vista la vastità di
differenze storiche) si potrebbe dire che la spaccatura della protesta
antisistema (fomentata dal capitale) riuscì a neutralizzarne il carattere di
minaccia al capitale stesso, mantenendone soltanto un carattere di
rivoluzionarietà esteriore.
In quasi perfetto parallelismo con la pubblicazione del Manifesto
“sansepolcrista”, Antonio Gramsci apriva le pagine de L’Ordine Nuovo (maggio
1919) con un celebre appello:
«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.
Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi,
perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».
Gramsci aveva perfettamente chiaro che le possibilità di successo di una forza
che desiderasse l’abbattimento di un sistema capitalistico, uscito quasi
indenne dal più grande conflitto di tutti i tempi, richiedeva certo
l’agitazione e la protesta (non difficile da ottenere in un’Italia dove il malcontento
postbellico era enorme), ma soprattutto richiedeva “studio” (formazione) e
“organizzazione”.
È passato un secolo. Moltissime cose sono cambiate, ma il sistema
socioeconomico è il medesimo e la fase è simile: passato attraverso una
profonda revisione all’indomani del 1945, esso si è rimesso sui vecchi binari
in forma accelerata a partire dagli anni ‘80.
Oggi siamo in una situazione che ricorda per molti versi il 1914: l’inizio,
perfettamente inconsapevole, di una lunga e distruttiva crisi.
Uscirne più o meno come nel 1918, con una condizione di impoverimento
generalizzato e una società più violenta, ma senza la distruzione bellica
direttamente in casa è lo scenario che ritengo più ottimistico.
Con qualche anno di crisi energetica, alimentare ed industriale e l’Europa sarà
ridotta a fornitore di manodopera specializzata a basso costo per le industrie
americane. Questo è lo scenario migliore.
Le possibilità di frenare il treno in corsa sono minime.
Quello che si può fare è prepararsi per essere all’altezza degli eventi, per
guidare i pezzi in caduta libera in modo che si dispongano come fondamenta per
un edificio futuro.
E questo richiede, come diceva Gramsci, innanzitutto una FORMAZIONE adeguata ad
interpretare gli eventi, ad uscire da dogmatismi e rigidità che impediscono di
comprendere la forza e il carattere del “sistema”. In questa fase chi rimane
ancorato ai riflessi condizionati di destra e sinistra, con i relativi dogmi,
santini e demonizzazioni a molla, è parte del problema. Il sistema di dominio
del capitalismo finanziario mondiale su base angloamericana è un potere in
crisi sì, ma è ancora il più grande potere sul pianeta ed è sopravvissuto ad
altre grandi crisi.
Esso è in grado di persuadere quasi chiunque, di quasi qualunque cosa, attraverso
un capillare controllo dei principali snodi mediatici.
Esso è in grado di corrompere chiunque abbia un prezzo e di minacciare chiunque
non lo abbia.
Esso può anche cambiare rapidamente pelle su questioni “decorative” e
“sovrastrutturali” come tutti i vari dirittocivilismi e dirittoumanismi, che
ora brandisce come clave quando servono, ma che può far scomparire in un
istante con una fiaba ad hoc, se una strategia diversa dovesse risultare utile.
Avere una consapevolezza culturale di ciò che è essenziale e di ciò che è
contingente qui è cruciale.
E in seconda istanza, sempre con Gramsci, è necessaria ORGANIZZAZIONE. Chi
ambisca non ad “abbattere il sistema” (nessuno ha oggi il physique du rôle per
farlo in modo diretto, “rivoluzionario”), ma ad accompagnarne il parziale
collasso endogeno, in modo da portare alla luce una nuova forma di vita, ha
qualche possibilità di farlo solo se prende maledettamente sul serio gli
obblighi di un’organizzazione collettiva.
Ciò che il “sistema” alimenta scientemente è l’INCONSAPEVOLEZZA (ignoranza,
disorientamento) e la FRAMMENTAZIONE (caduta nel privato, mutua diffidenza).
Ciò che deve fare chi prova a sfidarlo è remare con tutte le forze in direzione
opposta.
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