Introduzione: i lineamenti della crisi in breve
La
formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli
Stati Uniti, ultimi eredi dell'egemonia occidentale sulla maggior parte del
mondo, che era culminata con l'Impero Britannico, è entrata in crisi verso la
fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi
sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un
gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe
tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico,
finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto
detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per
l'appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche
uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da
rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee
dominanti.
Oggi
l'economia-mondo in crisi ha un'estensione planetaria e il centro egemone in
crisi sono gli Stati Uniti d'America. Ma la natura più spettacolare della crisi
sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la
lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state
centrate sull'Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici
dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato
dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione.
Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo
hitleriano, l'Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche
l'armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai
parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come
“solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell'Operazione
Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione
“semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi
per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.
La campagna
d'odio contro tutto ciò che è russo, comprese la grande letteratura e la grande
musica, parti integranti della cultura europea, racconta di uno stato di
disperazione che conduce ad atti di autolesionismo, di automutilazione, che
ritroviamo tali e quali nella sfera economica e sono il risultato di una perniciosa
incapacità di adattamento.
Questa
resistenza all'adattamento è in gran parte indotta dalla nazione egemone in
crisi, di cui gli Europei sono semplici vassalli. Ma ha anche radici locali in
quelle élite che sanno che la perdita di egemonia degli Stati Uniti
travolgerebbe anche i propri straordinari patrimoni e interessi e le proprie
posizioni di potere semidivine.
Il
campanello d'allarme della crisi sistemica fu il Nixon shock del Ferragosto del
1971, quando il presidente degli Stati Uniti mise fine alla convertibilità del
Dollaro in oro. Dopo quasi un decennio d'incertezza, dovuta al braccio di ferro
tra Washington (il Potere del Territorio) e Wall Street (il Potere del Denaro),
la pace tra i due poteri fu decretata dal Volcker shock, quando il neo
appuntato presidente della Fed portò i tassi dei fondi federali dal 11.2% al
picco del 20% nel giugno del 1981. Le conseguenze furono disoccupazione,
fallimenti, concentrazione e centralizzazione di capitali e il raffreddamento
dell'inflazione che per tutto il decennio precedente si era accompagnata alla
stagnazione. Infatti le spinte inflazionistiche agevolate dal governo
statunitense per rilanciare l'economia non avevano sortito alcun effetto data
la perdurante crisi di profittabilità degli investimenti. I capitali man mano
si spostavano dal commercio e dall'industria, cioè dall'economia reale,
verso le speculazioni finanziarie rompendo gli argini delle
restrizioni legislative nazionali anche grazie alle operazioni delle
multinazionali che inizialmente cercavano di difendersi dall'instabilità dei
cambi provocata dal Nixon shock. Col Volcker shock e l'avvento del presidente
Reagan, emulato in Europa dalla signora Thatcher negli UK e poi via via da
tutti gli altri Paesi della UE, gli investimenti nel circuito finanziario
presero decisamente il sopravvento. Era iniziata la finanziarizzazione,
storicamente segno di crisi, in cui l'accumulazione di capitale reale è stata
esponenzialmente sostituita da quella di capitale fittizio, i cui valori
nominali niente hanno a che vedere con la ricchezza reale prodotta o esistente.
Si è così giunti ad ammassare titoli di credito totalmente inesigibili, come la
strabiliante massa di prodotti derivati il cui valore nozionale per la Bank
for International Settlements di Basilea ammonta a 558,1 trilioni di
dollari (con una stima totale di 1 quadrilione di dollari calcolando anche i
contratti non-Over The Counter). La sola prima cifra, quella più bassa,
equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno
di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di
ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta
abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021.
Questa
ricchezza fittizia, ma politicamente e militarmente supportata e quindi attiva,
se in Occidente dava spazio a fantasie che da noi ben si accompagnavano alla
“Milano da bere”, come gli “intangible assetes”, il “knowledge
management” e cose simili (tutti concetti che quando si cercava di
concretizzare facevano semplicemente riferimento al delta tra il valore reale di
un'azienda e il suo valore borsistico), fantasie che altre ne hanno generate
grazie a immaginifici teorici della “sinistra marxista”, questa ricchezza
fittizia, si diceva, nel concreto intercettava i profitti che venivano creati
là dove solo era possibile crearli, cioè al di fuori dei circuiti capitalisti
storici: alla finanziarizzazione era necessario accoppiare
la globalizzazione.
Ma la
globalizzazione faceva crescere potenze che collocate al di fuori del controllo
politico occidentale, nel giro di un paio di decenni sarebbero emerse come
competitor strategici degli USA, la Cina e la Russia, intorno alle quali si
aggregava un numero crescente di Paesi che cercavano di sottrarsi al predominio
dell'Occidente collettivo (si pensi alla Shanghai Cooperation Organisation o
ai BRICS+).
Fin dal 2000
(si veda il report “Rebuilding America's Defenses: Strategies, Forces, and
Resources For a New Century” del think tank neo-conservatore Project
for a New American Century) si prevedeva che il decennio 2020
sarebbe stata l'ultima finestra utile entro la quale gli Usa potevano
e dovevano intervenire, anche militarmente, in modo diretto contro i propri
competitor per non perdere l'egemonia mondiale.
E così è
stato.
La
sequenza crisi sistemica-finanziarizzazione-guerre mondiali è
ricorrente nella storia del capitalismo.
Dalla caduta
dell'URSS abbiamo assistito a una guerra dopo l'altra: Jugoslavia (prima guerra
in Europa dal 1945, e qualcuno già capiva che non sarebbe stata l'ultima)
Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen. E ora siamo di nuovo a una
guerra europea, quella in Ucraina. Tutta questa cortina di fuoco, se da una
parte serve a circondare la landmass eurasiatica (dove
insistono quattro potenze atomiche, le nazioni più popolose del mondo, quella
con la maggiore economia mondiale, ed è la sede di enormi e diversificate
risorse naturali), dalla parte opposta serve a dividere l'Europa da essa e da
buona parte dell'Africa. In altri termini serve a fare dell'Europa un'appendice
incistata degli USA. E per far questo era necessario che la UE fosse “weaponized”
(cioè trasformata in un'arma), diventasse un'estensione civile della Nato, da
spendere contro la Russia, via l'Ucraina, la vittima sacrificale.
E qui
arriviamo al centro del problema. Gli Stati Uniti, con tutti i suoi alleati,
non sono in grado di sconfiggere in una guerra convenzionale né la Russia né la
Cina. Vale la pena ricordare che il maresciallo Montgomery in un'audizione alla
Camera dei Lord nel 1962 riguardante lo scenario di una futura terza guerra mondiale
avvertì: «La regola 1, alla pagina 1 del manuale di guerra dice: “Mai marciare
su Mosca”. La regola 2 dice: “Non combattete con un esercito di terra in
Cina”».
In una
guerra atomica saremmo tutti sconfitti, USA compresi. E lo sanno. Per lo meno
c'è molta gente con posti di responsabilità negli Usa che lo sa perfettamente.
A mio avviso lo sa anche Biden che è ondivagante perché deve tener testa a una
massa di crazy freaks, a volte drammaticamente ideologizzati (il
“Destino manifesto”), che non sanno cos'è una guerra convenzionale, men
che meno sanno cos'è una guerra di difesa esistenziale (nozione che ai
Russi è stata impressa nel DNA a suon di milioni di morti), e assolutamente non
hanno idea di cosa sia una guerra atomica, pensano che poterebbe essere
combattuta solo in Europa mentre loro stanno a guardare magari da un bunker
extra lusso, e la cui unica strategia, sia economica che militare e politica, è
rilanciare sempre esattamente la stessa mossa.
La crisi
dei subprime fu, dopo le avvisaglie della crisi borsistica
delle “dot-com” (cioè del “capitalismo immateriale”, del “capitalismo della
conoscenza”), lo scoppio di un'enorme bolla di capitale fittizio. Grazie alla
Cina la crisi fu faticosamente tamponata ma la logica occidentale di
accumulazione rimaneva quella basata sul capitale fittizio. Tutte le mosse che
avevano portato alla crisi vennero ripetute a scala ancora maggiore. Si pensi
agli enormi quantitative easing in dollari o euro, che
arrivavano all'economia reale solo col contagocce mentre la massa si fermava
nei circuiti finanziari che la bloccavano lì. Ora incombe lo scoppio di una
bolla colossale in un mondo non più globalizzato ma frammentato a livello geopolitico,
commerciale e finanziario. Per mitigare lo scoppio si darà corso alle solite
rapine: privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions,
scorrerie immobiliari, compressione dei salari e tutto il resto a cui destra e
ancor più sinistra ci hanno abituati in questi anni [1]. Rapine che ridurranno
la società in uno stato miserevole, ma che comunque non basteranno, per via
delle grandezze in gioco, del fatto che la ricchezza esistente è uno stock
finito e infine che queste manovre e l'isolamento mondiale a cui ci stiamo
auto-condannando impediranno ogni ripresa, se non in limitati settori, e quindi
la creazione di nuovi flussi di ricchezza.
Ne consegue
che sarà necessaria una progressiva sospensione/limitazione/abolizione
delle libertà democratiche di espressione, organizzazione, eccetera,
libertà non più sostenute dallo sviluppo ma, anzi, ostacoli alla
riorganizzazione sempre più violenta, sempre più urgente e sempre più veloce
dei processi di accumulazione di denaro e di potere. Ovunque verrà applicata
l'autorità di questo nuovo impero aristocratico, fondamentalmente una nuova
talassocrazia, sia sulle “colonie esterne” sia sulle “colonie interne” si
applicherà il metodo classico di appoggiarsi a forze e gruppi sociali elitari e
reazionari, ma avendo cura di accendere i riflettori sulla patina “libertaria”
di woke culture, del tutto inutile per redimere vecchi torti e non
farne di nuovi, ma molto utile per abituare le persone ad aderire a protocolli
ideologici e comportamentali decisi dall'alto.
Negli Usa,
pervasi dai neocon, l'unica via di salvezza è vista nella ripresa
del ruolo di potenza egemone mondiale che però deve passare dalla sconfitta
della Cina che richiede a sua volta la sconfitta della Russia. Mentre si tenta
questa strada, che necessariamente spacca il mondo in un terzo occidentale e in
due terzi “altro” e che quindi spezza violentemente il circuito
finanziarizzazione-globalizzazione, gli Usa possono solo rapinare i propri
alleati a partire dalla (ancora per poco) ricca Europa. Ma se anche questa
rapina riuscisse in pieno gli Usa, nella migliore delle ipotesi, finirebbero
per rimanere bloccati in una situazione di ricchezza solipsistica simile a
quella da cui dovettero uscire nel dopoguerra inventandosi la Guerra Fredda e
rifornendo di dollari un'Europa che doveva essere ricostruita dopo la II Guerra
Mondiale. Ma quel ciclo non sarebbe più ripetibile, perché la situazione
mondiale è oggi drasticamente diversa e più che altro è drasticamente
compromessa. Non è chiaro se in questo modo gli Usa intendono solo guadagnar
tempo mentre cercano di indebolire i propri avversari in vista di una loro
capitolazione, o se la nuova posizione di assoluto comando su 1/5 del globo
(quasi un impero formale) sarà usata per negoziare i nuovi rapporti di forza in
un mondo multipolare ormai impossibile da contrastare. Dipenderà dall'andamento
della crisi.
Come
procederà?
La crisi è
direttamente proporzionale al tasso di finanziarizzazione, all'accumulo di
capitali fittizi, e quindi è massima nell'Occidente collettivo dove, come si è
visto, non verrebbe risolta nemmeno rovesciando sotto sopra il Vecchio
Continente e i suoi sempre meno numerosi annessi e connessi.
La crisi è
causata dai meccanismi mossi dalla logica dell'accumulazione. Quindi
all'interno del costruendo impero formale a guida anglosassone essa non ha modo
di essere risolta. La domanda allora immediata è: “Al suo esterno cosa sta
succedendo, cosa succederà?”.
A questa
domanda io non so rispondere. Se un mondo multipolare finalmente emergerà sarà
perché l'Occidente collettivo, che oggi è neoliberista, sarà
sconfitto da un Sud (o Est) collettivo di cui per ora non si capisce
quale potrà essere la natura. O quanto meno, io non lo capisco.
In realtà,
al di là del chiaro intento della Russia di spezzare il sempre più minaccioso
assedio della Nato culminato con l'appoggio occidentale ai neo-nazisti ucraini,
e della possibilità - prevista dal Cremlino - che una gran parte del Sud
globale vi sta cogliendo per sottrarsi al secolare giogo dell'Occidente, in
crisi e quindi sempre più rapinoso e aggressivo (due aspetti in diretto
contrasto con la nozione di “egemonia”), non credo che nessuno possa in scienza
e coscienza affermare di aver chiare le linee profonde della contrapposizione,
quelle che plasmeranno il mondo a venire.
Si parla
genericamente di uno scontro tra l'Occidente neoliberista e … . E manca il
secondo termine. Spesso il “neoliberismo” viene inteso come una sorta di “fase
terminale” del capitalismo (cosa che in sé non è) e altrettanto spesso viene
enfatizzata la sua accezione ideologica, visibile nelle iperboli della woke
culture che seppure hanno una relativa forza distruttiva, sono ancora
solo “sperimentali” e minoritarie (anche se non sembra, per via di media e
testimonial vociferanti) e hanno il compito di celare sostanziosi “fenomeni di
classe” nazionali e internazionali che non si è quasi ancora iniziato ad
analizzare (le eccezioni sono pregevoli ma rare e tenute in stato di
clandestinità). Così, ipnotizzato dagli effetti speciali della woke
culture, c'è chi si immagina uno scontro tra un mondo indirizzato verso il
transumanesimo e un mondo che difende i valori umanistici, non di rado
descritti come “valori tradizionali”. E quando si usa il concetto di
“tradizione” si entra in una selva di rovi. Quando inizia e quando finisce la
“tradizione”? Per qualcuno nel Medioevo - inteso in senso storico, non
spregiativo - per qualcun altro nell'Illuminismo, e via così secondo i propri
punti di riferimento. E dove è localizzata questa “tradizione”, in Europa, in
Cina, in Russia, in Argentina, in Thailandia? A quale sistema filosofico fa
riferimento? “Tradizione” vuol solo dire rifiutare gli insopportabili “genitore
1” e “genitore 2”? Consiglio di lasciare queste schermaglie al lato
propagandistico dei discorsi di Vladimir Putin, il lato che, per ovvi motivi,
vuol far leva sui sentimenti più condivisi della società russa, e alle anime
candide che sono pronte a vedervi una natura reazionaria e addirittura
“fascista”. Perché non è su questo che si giocano i destini del mondo.
Ma su che
cosa, allora?
Durante la
guerra fredda si contrapponevano due progetti distinti, due visioni del mondo distinte,
due sistemi economici e sociali distinti. C'erano poderosi corpi dottrinari, da
una parte e dall'altra, che permettevano di interpretare quello scontro, pur
con tutti i limiti che i corpi dottrinari hanno rispetto al fluire
storico. Oggi non è più così.
Nello
scontro che ora sta seguendo la dissoluzione dell'ordine mondiale della guerra
fredda, si sa che da una parte c'è un complesso neoliberista, ma dalla parte
opposta c'è un complesso ancor meno decifrabile di quanto lo fosse il sistema
sovietico e che si sta arricchendo di soggetti eterogenei. Una nave che affonda
viene abbandonata da tutti: ufficiali, sottufficiali, macchinisti, camerieri,
passeggeri di lusso, di prima classe, di seconda classe, di terza classe,
persino dai clandestini.
Apparentemente
non siamo nemmeno di fronte a un classico scontro interimperialistico,
nonostante si possa riscontrare la ripetizione di alcuni schemi presenti nella
prima parte del secolo scorso – ad esempio la finanza anglosassone da una parte
vs l'industrializzazione della Germania (oggi della Germania, della Russia e
della Cina).
Ciò porta a
doversi chiedere quali sono le condizioni per l'emergere effettivo di un mondo
multipolare, per la sua stabilità e quale sarà la sua natura.
Cambio di
partita
Il 4 ottobre
scorso il Consiglio Federale russo ha ratificato il passaggio degli oblast di
Zaporizhie, Cherson, Donetsk e Lugansk dall'Ucraina alla Federazione Russa,
dopo che lo aveva fatto la Duma di Stato. Questa decisione, assieme all'ordine
di mobilitazione parziale riguardante 300.000 soldati, è la risposta russa alla
presa d'atto di due cose: 1) La Nato (qui intesa come Usa e UK) non permetterà
a Zelensky di negoziare la pace con Mosca (finora glielo ha sempre impedito
utilizzando i propri pretoriani neonazisti, pressioni e ricatti di ogni tipo),
2) La Nato ha preso il comando diretto delle operazioni militari in Ucraina.
Dal 4
ottobre Mosca considera dunque quelle regioni parti integranti della Russia.
Che questa annessione sia o non sia riconosciuta dall'Occidente collettivo (che
è primatista nelle operazioni di secessione, si vedano i Balcani) o da altre nazioni,
conta molto poco. Perché in questo caso è evidente che ciò che conta è
quel che pensa Mosca, ovvero le motivazioni strategiche dietro questa
mossa. E questa mossa cambia totalmente le carte in tavola, o meglio cambia la
scacchiera: ora non è più la Russia che combatte in Ucraina ma, per Mosca e per
la stragrande maggioranza dei Russi come rilevano varie survey, è
la Nato che combatte contro la Madre Russia con tutte le
conseguenze che ciò comporta.
L'ex
cancelliera Angela Merkel, che dimostra di avere ancora la stoffa da
statista mentre Super Mario Draghi, che nella fantasia dei nostri
politici e dei media Minculpop doveva essere il suo erede, ha solo dimostrato
di essere un tecnocrate privo di ogni consapevolezza storica, lo sa
e lo ha detto, pur se dietro il velo dello spettro di Helmut Kohl:
[D]ietro il
velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato,
incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare
l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso
minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo,
incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono.
[2]
Mentre i
media Minculpop si stanno esaltando per le “riconquiste” ucraine (Izjum,
Balaklija, Lyman e qualche villaggio), mentre generali come Petraeus, che non
hanno mai vinto una guerra in vita loro, parlano di “inizio del collasso
dell'esercito russo” e al loro seguito una teoria di “esperti” stampati o
teletrasmessi scambiano il successo di un'offensiva tattica con una vittoria
operativo-strategica, dimenticandosi della distruzione immensa di materiale
bellico e del numero spaventoso di perdite ucraine, mentre dunque l'Occidente
collettivo si sta eccitando con questa “pornografia bellica” il quadro
strategico è totalmente cambiato.
Una guerra
non si vince sul piano tattico (anche se la pornografia bellica continuerà
ancora, e al solo pensiero c'è da piangere). La parte “cinetica” di una guerra
si vince sul piano operativo e la guerra come confronto strategico si vince
nella dimensione politica. E' per questo che le guerre sono sempre state
ibride, anche se qualche commentatore pensa che sia una novità e comunica
con un certo orgoglio al suo pubblico questa strabiliante “scoperta”. Ed è per
questo che l'ammissione delle quattro regioni ucraine nella Federazione Russa
cambia il gioco in modo drammatico.
Ora la Nato
deve decidere se vuole combattere direttamente contro la Madre Russia (trattando di strategia, è opportuno
parlare di “Madre Russia” come abbiamo visto). Non ci sono altre possibilità: o
il compromesso o il confronto aperto, senza più l'interposizione del regime
fantoccio di Kiev, col tentativo, a costi disumani per gli Ucraini, di
strappare qualche nuova vittoria prima che la mobilitazione russa saturi il
fronte e probabilmente passi alla controffensiva, nella speranza di indebolire
Putin internamente (cosa che non sarà perché, per l'appunto, è in gioco la
Madre Russia, e bastano due nozioni storiche e culturali per capirlo) e
isolarlo dai suoi alleati, come la Cina, che in questo momento finge di fare il
pesce in barile, ma ha perfettamente chiara la posta in gioco (anche perché
basta un'imbecille arrogante come Nancy Pelosi per ricordarla a un miliardo e
400 milioni di Cinesi – e spaventare la stessa presidentessa di Taiwan, Tsai
Ing-wen: “Lo scontro armato con la Cina non è un'opzione”).
E la
decisione degli Usa (che dovrà tramutarsi in acquiescenza dell'Occidente
collettivo) deve tener conto che l'Ucraina è solo uno dei terreni, attualmente
il più caldo ma non per questo il più decisivo, del cambiamento epocale
ormai conclamato e sotto gli occhi di tutti.
Un nuovo
termine: “unprovoked”
Noam Chomsky
ha fatto notare che quando si parla dell'invasione russa dell'Ucraina si usa
automaticamente e obbligatoriamente un termine che in questi contesti è una
novità: “non provocata” (unprovoked). «Ogni articolo che si trova [su
Google] deve parlare dell'invasione dell'Ucraina come “non provocata”.
Ovviamente è stata provocata. Altrimenti non si riferirebbero ad essa in
continuazione come “non provocata” … Questa non è solo la mia opinione, è
l'opinione di qualsiasi alto funzionario dei servizi diplomatici statunitensi
che abbia una qualche familiarità con la Russia e l'Europa Orientale. Si va da
George Kennan [il teorico del contenimento dell'Unione Sovietica] negli anni
Novanta, all'ambasciatore di Reagan Jack Matlock, per includere l'attuale
direttore della CIA» [3].
Ma se la
Russia è stata provocata, occorre capirne i motivi. Quello più evidente è di
tipo meccanico: la Russia deve “cambiare regime”, sottomettersi agli
USA e se possibile deve essere balcanizzata, cioè frantumata in più stati.
L'Ucraina in questo progetto funge da trappola dove migliaia di russo-ucraini
del Donbass uccisi dal 2014 e, per ora, decine di migliaia di soldati ucraini
caduti assieme a un migliaio di civili sono serviti da esca.
Perché la
Russia deve cessare di esistere come stato sovrano?
Qui la
pubblicistica russa ricorda che questo è da secoli un obiettivo dell'Occidente
e fa riferimento all'invasione svedese e a quella dei Cavalieri Teutonici
sconfitte da Alexandr Nevskij nel XIII secolo, all'invasione polacca durante il
Periodo dei Torbidi tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento,
all'invasione napoleonica, a quella prussiana e a quella nazifascista. E'
interessante questa lettura russa della Storia, perché anche se a volte ha un
non convincente sapore millenaristico che passa sopra troppi particolari,
tuttavia segnala un sentimento e il fatto che per i Russi il concetto di difesa
della patria (e di denazificazione) ha un alto contenuto emotivo.
Fatto sta
che la Russia è sostanzialmente vista dall'Occidente come una nazione troppo
grande, troppo ricca di risorse e troppo “diversa”. E' una nazione che sfugge
al controllo politico dell'Occidente e anche a quello ideologico, cosa non meno
importante. Pur essendo parte integrante - e indispensabile - della
cultura europea, la Russia è Russia. Il suo cristianesimo sta al di fuori
della dialettica (a lungo fratricida) tra cattolici e protestanti ed è estraneo
alla loro “modernizzazione” ambiguamente in bilico tra riconoscimento di
diritti dovuti e adeguamento agli interessi di lobby politico-ideologiche. Ci
sono motivi profondi perché i Russi vedano l'attuale Occidente collettivo non
solo composto da irriducibili “odiatori” della Russia ma anche pervaso da una
“civilizzazione” aliena, con “valori” non condivisibili [4].
La storica
ricchezza etnico-culturale della Russia, composta da ortodossi, musulmani,
ebrei, buddisti, da popoli diversi e culture diverse che pure si riconoscono in
una sola entità nazionale, fenomeno che possiamo chiamare di “centralizzazione
della varietà”, lascia spiazzata un'Europa dove una pletora di stati
essenzialmente monocromatici per secoli non sono riusciti a venire a termini
con l'Altro [5].
Ed è quindi
paradossale, ma non sorprendente che, come si è visto, alti diplomatici della
UE dichiarino che la Russia “non è civilizzata”, esattamente come pensavano i
nazisti e i fascisti [6].
Scontro di
civiltà o scontro generazionale?
La
centralizzazione della varietà non è un'esclusiva della Russia. Si pensi alla
Cina e all'India.
La
centralizzazione della varietà si è plasmata in lunghi processi storici che
sono stati permessi da meccanismi socio-economici lenti. Non è quindi da
confondere col pot-pourri statunitense, formatosi in modo
disordinato sotto la pressione di veloci e straordinari processi di
accumulazione di denaro e di potere, né con quello disorganico
dell'immigrazione nell'Europa post coloniale.
Lo scontro
tra Stati Uniti e Russia, preliminare a quello tra Stati Uniti e Cina, è lo
scontro tra una giovane nazione anglosassone alleata ad altre giovani nazioni
anglosassoni (il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda) sotto la supervisione
della loro matriarca, la Gran Bretagna, e nazioni che si sono formate in secoli
e secoli: 1.000 anni la Russia, 4.000 la Cina.
Sotto questo
punto di vista il blocco anglosassone mette in campo molti punti di forza
dovuti alla giovinezza, all'elasticità, alla dinamicità delle scelte, alla
spregiudicatezza, alla geografia stessa, ma presenta, specialmente negli Stati
Uniti, una direi “fragilità strutturale” che potrebbe essere spiegata, con un
abuso di metafora, in termini quasi “politico-psicanalitici”: è il frutto della
premura, dell'ansia di recuperare una storia che non si è avuta, un'infanzia e
un'adolescenza che sono state negate. Gli Stati Uniti sono Jack Torrence che in
“Shining” si blocca su una frase infantile (che nella traduzione italiana,
curata da Kubrick stesso, evoca la fase orale: “Il mattino ha l'oro in bocca”)
per poi trasformare i deliri infantili di onnipotenza in odio mostruoso per chi
egli accusa di bloccare la sua creatività, cioè per chi gli pone vincoli
sociali e affettivi e gli ricorda le sue responsabilità di adulto.
Nella
millenaria vicenda del Paese di Mezzo, il periodo di soggezione all'Occidente è
effettivamente stato quel “paio di secoli non molto brillanti da cui ci stiamo
però riprendendo” a cui si riferiscono i Cinesi. Un paio di secoli in 4.000
anni di storia possono essere visti con ironia, come qualcosa di passeggero.
I 77 anni di
egemonia statunitense possono invece essere veramente una fiammata,
straordinaria, decisiva ma che rischia di essere irripetibile e al suo seguito
i trecento anni di predominio dell'Occidente sembrano essere un fenomeno di
enorme importanza ma in via di irreversibile esaurimento. Cosa che in sé non sarebbe
destinata a sfociare nel dramma se il millenario Occidente non fosse forzato a
imitare gli Stati Uniti.
Nel mondo
giovane e veloce degli Usa la memoria della Storia o ha un valore mercantile di
cui appropriarsi oppure è vista come un'arma potente e pericolosa che a loro
manca e che deve essere tolta ai nemici. È così che gli Usa nel 2003
devastarono quel museo di Baghdad istituito da un agente segreto britannico,
Gertrude Bell, nel 1915, quando l'espansione dell'impero della “vecchia
Inghilterra” stava avvicinandosi al suo apice.
Le nazioni
con radici profonde non sono tollerate così come non lo sono le nazioni
geograficamente grandi. Gli Stati Uniti devono tenere sotto controllo
sia l'ampiezza sia la profondità delle altre potenze. Gli Stati Uniti sono
convinti che per “destino manifesto” sono i soli ad avere il diritto ad essere
grandi, dove “grande” ha innanzitutto un significato geografico, e che i propri
valori fast and furious devono sostituire quelli lenti e calmi
degli altri popoli.
Per
parafrasare Jawaharlal Nehru, la civiltà occidentale [gli Inglesi] era
portatrice di una qualità di cui gli altri popoli [l'India] erano carenti: la
dinamicità. Ma lo era fino al parossismo. La società, ogni società, e il
capitalismo (col suo alter ego, l'imperialismo) hanno sempre avuto ritmi molto
differenti e col tempo questa differenza ad ogni ciclo è diventata un solco che
appare sempre più incolmabile.
Ritorneremo
a ritmi più lenti, saremo di nuovo capaci di voltarci indietro, di creare “tipi
sociali arcaici in una forma superiore” (Marx), o ormai il virus si è propagato
ovunque? Cosa uscirà da questo caos sistemico?
La guerra
per evitare la rivoluzione
La Russia è
stata provocata, dunque, e la provocazione è servirà a trascinarla in una
guerra. E la guerra serve a minare politicamente la Russia al suo interno, a
distruggerla come grande nazione e come nazione sovrana. Poi verrà il turno
della Cina e a seguire, posso pensare, quello di un'India che senza il
contrappeso della Cina potrebbe rischiare di acquisire un ruolo “troppo
importante”.
Washington
non vuole perdere la supremazia che ha acquisito grazie a una straordinaria
posizione geografica, a una dinamicità selvaggia ancor più che parossistica, e
alla scaltrezza da giocatore di poker che l'ha consigliata di entrare a metà
corsa nelle due guerre mondiali precedenti. Non la vuol perdere perché è
l'unica cosa che tiene insieme una società frantumata, col 15,1% in stato di
povertà, il 18% che deve rivolgersi ai banchi alimentari, e che con poco più
del 4% della popolazione mondiale ha circa il 25% della popolazione carceraria
mondiale.
Per accettare
la Storia e il resto del mondo gli Stati Uniti dovrebbero essere in grado di
rivoluzionare i rapporti sociali che sono stati plasmati da recenti, veloci e
impetuosi processi di accumulazione di denaro e di potere. Ma le sue élite
dominanti non lo permettono e non sarebbero comunque in grado di farlo, perché la logica
dell'accumulazione capitalistica si erge come un potere oggettivo anche sopra
di loro. Sono dunque obbligate a cercare di perpetuare uno strapotere che dura
da 77 anni (uno schioccar di dita nella storia umana) da parte di una nazione
che per la fine del 2022 conterà solo il 4,2% della popolazione mondiale. Uno
strapotere gestito da una minuscola élite che assieme a un numero
ristrettissimo di alleati internazionali governa una parte finora ricchissima
del pianeta, utilizzando il sostegno di ceti sociali vassalli che si
riconoscono negli interessi, o a volte solo nell'ideologia, di questa
neo-aristocrazia allevata dalla ormai quasi cinquantennale stagione della
finanziarizzazione e del neo-liberismo, allevata cioè dalla crisi sistemica.
Si faccia
però bene attenzione a una cosa: benché in differenti circostanze, è
già avvenuto che una nazione che “non aveva i numeri” abbia controllato
direttamente o indirettamente l'intero pianeta. Pensate alla minuscola
Inghilterra di fronte all'immenso subcontinente indiano (sottoposto
direttamente) e all'immensa Cina (controllata indirettamente) e al resto
dell'Europa (di cui controllava il flusso degli affari e a cui imponeva il “balance
of power”). Al momento della sua massima estensione, nel 1921, l'Impero
Britannico copriva 35.5 milioni di kmq, il 24% delle terre emerse, 145 volte
l'estensione delle isole britanniche e aveva 448 milioni di abitanti, un quinto
della popolazione mondiale di allora e ben 10 volte la popolazione della Gran
Bretagna. Ma al momento della conquista dell'India, il PIL britannico era solo
l'1,9% di quello mondiale e la Gran Bretagna non controllava ancora
economicamente e finanziariamente il resto dell'Europa, anzi era indebitatissima
coi banchieri olandesi. Eppure conquistò un Paese che vantava più del 22% del
PIL mondiale. Ma, come commentava Immanuel Wallerstein, l'Inghilterra
era largamente superiore nell' “arte criminale”, cioè nell'arte della
guerra [7].
Ma oggi,
sarà ancora possibile dispiegare tutta la propria arte criminale quando ciò può
significare la fine dell'intera umanità? Se a Washington ci sono senz'altro
mostri impazziti per la disperazione, non c'è veramente nessuno da quelle parti
capace di tenerli a bada?
Tuttavia
l'aspetto militare è solo uno dei fattori in campo. Si ricordi che oggi il PIL
statunitense, benché in contrazione, in Parità di Potere d'Acquisto è il 15,78%
di quello mondiale e il Dollaro è punto di riferimento per due terzi del PIL
mondiale. Ha quindi ragione Raffaele Sciortino quando suggerisce di «prendere
con estrema cautela le ipotesi decliniste riferite agli Stati
Uniti». E ciò si ricollega al nostro caveat [8].
Il problema
da analizzare è come e quando si combineranno le dinamiche belliche con quelle
economiche e quelle finanziarie, tenuto conto che, ceteris paribus,
il castello di carte finanziario, esemplificato dal famoso ammontare dei titoli
derivati pari a 10 PIL mondiali, cioè pari al nulla dato che non esistono 10
Terre, è destinato a crollare, trascinando con sé banche, industrie e crisi
fiscali. E qui “ceteris paribus” vuol dire senza il sostegno dei sistemi
finanziari del Sud collettivo, a partire da quello cinese [9].
La Storia e
lo show-down della crisi sistemica
La lettura
del discorso tenuto da Vladimir Putin il 30 settembre nella sala San Giorgio
del Cremlino in occasione della firma dei decreti di ammissione nella
Federazione Russa delle quattro regioni ucraine, mi ha impressionato per un
motivo molto preciso: se prosciugato degli slanci retorici, del riferimento al
neoliberismo come “cultura” contrapposta ai “valori tradizionali” russi (cosa
non sorprendente in chi sta conducendo una “grande guerra patriottica”), sembra
una nota d'aggiornamento a piè di pagina del capolavoro di Giovanni Arrighi “Il
Lungo XX Secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”.
Una nota che
ci riguarda da vicino perché con questo discorso la Russia si è staccata
dall'Europa e con una notevole dose di astio, come quella di un'amante tradita.
La nostra incapacità di porci come soggetto terzo tra gli Stati Uniti e le
potenze emergenti ha reso questo strappo inevitabile a causa proprio delle
dinamiche che erano state descritte da Arrighi a partire dalla prima metà degli
anni Novanta. In quegli anni Vladimir Putin era presidente del comitato per le
relazioni internazionali di Leningrado. Il suo compito era quello di promuovere
i rapporti con l'estero e attirare gli investimenti stranieri. E fu
ufficialmente criticato perché le sue decisioni favorivano troppo gli
investitori occidentali. Ricordo che fino alla metà dello scorso decennio Putin
sognava un mercato unico “da Lisbona a Vladivostok” (e con lui lo sognavano
anche gli imprenditori tedeschi).
Bastano solo
questi elementi biografici per capire che Vladimir Putin non è ideologicamente
antioccidentale ma ha dovuto cambiare le proprie idee per far fronte alle
circostanze che doveva gestire. Ne consegue che il 30 settembre scorso al
Cremlino parlava come un attore sovrapersonale che rappresentava una
dinamica storica. E quel che più impressiona è che sembrava che ne fosse
consapevole. Cosa che affascina e inquieta. Perché sono sempre inquieto quando
qualcuno, anche a ragione, pensa di interpretare la logica della Storia.
Excursus
metodologico
Qui serve
una precisazione. La Storia è frutto di una sequenza di scelte fatte in
circostanze oggettive. Anzi, con un'analogia matematica, più che di una
sequenza si tratta di un fascio di scelte.
«Gli uomini
fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente
davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Così Karl Marx ne “Il
18 Brumaio di Luigi Bonaparte”.
In questa
dialettica tra scelta e condizione oggettiva, si gioca la storia umana e
l'etica dei suoi protagonisti.
La
composizione delle varie scelte, così come la composizione delle forze in
Fisica, spinge la Storia in direzioni che possono essere inintenzionali, cioè
non volute, non previste e persino non gradite dagli attori storici che
prendono le decisioni, che compiono le scelte.
Il classico
esempio di composizione delle forze è il rombo: la forza F1 si
compone con quella F2, che ha una direzione, un verso e
una intensità differenti da F1, per fornire la
risultante R, che ha direzione, verso e intensità diversi da
entrambe. Se si concepisce la Storia come un procedere per successive
composizioni di forze, si evita di cadere sia nel meccanicismo sia nel
complottismo. Sia chiaro, che i complotti avvengono in continuazione, da
quelli che servono a coprire realtà scomode (Ustica), a eventi semplici
costruiti ad arte (l'incidente del Golfo del Tonchino, i falsi bombardamenti
chimici di al Assad, eccetera) a macchinazioni più complesse, come l'omicidio
Kennedy, Piazza Fontana. Abbiamo persino complotti nel complotto, come quello
straordinario che prevedeva che Maria Stuarda si lasciasse implicare in un
complotto contro Elisabetta I che doveva essere scoperto per obbligare la
recalcitrante regina d'Inghilterra a decapitare la cugina Maria, così che
finalmente il cattolicissimo ma anch'egli recalcitrante re di Spagna, Filippo
II, si decidesse a muovere guerra contro la cugina protestante con la sua
Invincibile Armata. Così avvenne, ma ci si mise di mezzo il caso, cioè una
serie di tempeste che fecero letteralmente affondare i progetti spagnoli.
Il caso, e
ce ne sono tanti esempi, è parte delle forze da comporre. Al contrario, i
complotti sono semplici frazioni di una forza e non sono in grado di
imporre una risultante voluta.
Occorre però
sottolineare che quanto detto non impedisce di poter intravedere o ipotizzare
linee di tendenza più verosimili di altre.
Una
dichiarazione di guerra all'Europa
«Se la
Russia invade l'Ucraina, in un modo o in un altro il Nord Stream 2 non andrà
avanti»
Victoria Nuland, gennaio 2022 [10].
In
molti hanno visto nell'attentato ai due Nord Stream un atto di guerra contro la
Germania e l'Europa [11]. Non mette conto leggere i penosi tentativi di
sedicenti esperti politici e geopolitici che cercano di dare la colpa alla
Russia. Non ha nessun senso. Punto.
Io
suggerisco di leggere l'attentato terroristico internazionale al Nord Stream
come il più recente di una sequenza di atti che, cose si diceva
nell'Introduzione, hanno come obiettivo la separazione dell'Europa occidentale
dalla restante massa Eurasiatica (con prolungamenti nel Nord Africa e nel Corno
d'Africa) e, specularmente, l'accerchiamento della Russia e della Cina (e in
prospettiva aggiungerei anche l'India – il fronte del Kashmir è sempre
disponibile, oltre ad attentati e scontri intercomunitari).
L'attentato
al Nord Stream sembra inoltre una risposta anticipata a ogni futuro
ripensamento tedesco: d'ora in poi scordatevi la vostra pacifica Drang nach
Osten 2.0.
Separato dal
resto del mondo, l'Occidente collettivo avrà come unica scelta
l'auto-cannibalismo. La
scelta unilaterale di Berlino di stanziare 200 miliardi di euro in deficit per
calmierare i prezzi energetici ha creato malumori nella UE e ha iniziato a
rievocare lo spettro di Weimar. E ciò a causa della logica dell'accumulazione,
che procede per differenziali di sviluppo e non lascia scelta: là dove si
possono creare, vengono creati, non si guarda in faccia a nessuno. Inoltre,
l'accumulazione odierna, cioè l'accumulazione in tempi di crisi, si svolge in
larga parte non per sviluppo ma per rapina – o in termini più soft, tramite
l'acquisizione della ricchezza esistente, già prodotta, da parte dei più forti.
Per diverso tempo questo tipo di accumulazione era principalmente orientato ai
danni del Sud globale. Poi ha dovuto iniziare a prendere di mira anche i centri
capitalistici storici, con privatizzazioni del dominio pubblico, mergers
and acquisitions, ristrutturazioni, scorrerie sui debiti pubblici e sulle
risorse naturali ove esistono. Da oggi dovrà rivolgersi prevalentemente
all'interno dell'Occidente stesso a meno di non riuscire a imporre un selvaggio
sfruttamento neocoloniale su una parte di quel Sud collettivo che però, ben
consapevole, guarda con crescente speranza al blocco Russia-Cina. In modo molto
esplicito Vladimir Putin nel suo discorso del 30 settembre ha sottolineato come
la Russia moderna intende raccogliere dall'Unione Sovietica la bandiera della
protezione del Sud globale: «Noi siamo orgogliosi che nel XX secolo sia stato
il nostro Paese a guidare il movimento anticoloniale, che ha aperto a molti
popoli del mondo la possibilità di svilupparsi, di ridurre la povertà e le
disuguaglianze e di sconfiggere la fame e le malattie».
Non sono
parole retoriche lasciate al caso né nostalgie sovietiche: sono prove di
egemonia nella lotta verso un mondo multipolare. Una lotta che la Russia deve
condurre adesso, perché anche per la Russia le finestre operative non rimangono
aperte all'infinito: la sua attuale supremazia militare in termini
convenzionali e strategici non durerà per sempre, i gap sono destinati a
colmarsi.
Nel mondo
fratturato che caratterizza questa lotta, gli Stati occidentali più forti
prenderanno di mira quelli più deboli, secondo una gerarchia che vede in testa
gli Stati Uniti mentre le neo-aristocrazie locali prenderanno di mira
la loro declinante classe media, un neo Terzo Stato che si sta mischiando
progressivamente in modo disorganico a un Quarto Stato formato sempre più da
proletari che sono intimiditi o sono indotti, e a volte obbligati, a credere di
essere classe media, lavoratori autonomi [12].
Una
condizione che in termini di coscienza politica e sociale mi ricorda il periodo
tra la Rivoluzione Francese e i moti del 1848.
Questa
cascata di rapine che si compie lungo una gerarchia ramificata dove ogni nodo
cerca in qualche modo di risalire di livello a scapito degli altri, non può
alimentarsi a lungo se la ricchezza rapinata non viene rigenerata. Ma proprio
la cascata di rapine indurrà disfunzionalità e corti circuiti che ostacoleranno
la produzione di nuova ricchezza. Già sta avvenendo, perché la necessità di non
far crollare di colpo il castello di carte finanziario induce uno spreco immane
di risorse, a partire dai quantitative easing che arrivano
all'economia reale solo col contagocce o dai profitti d'impresa reinvestiti al
90% in operazioni di borsa.
Gli Usa vogliono
venderci a caro prezzo il loro shale gas, come
alternativa obbligata a quel gas russo a buon mercato che ha avuto un ruolo
chiave per gran parte dello sviluppo economico europeo del dopoguerra [13]. Ma
l'Europa come lo pagherà se contemporaneamente gli Usa applicano politiche
tariffarie, fiscali e monetarie, per favorire la propria re-industrializzazione
a scapito di una de-industrializzazione dell'Europa? E' facilmente prevedibile
uno scenario di austerity, di indebitamento crescente, di “aggiustamenti
strutturali”, di disoccupazione, di impoverimento generale delle società
europee. Ma a macchia di leopardo, in ragione delle “preferenze politiche” (ed
economiche) degli Stati Uniti che lavoreranno su un terreno già frammentato.
La crisi del
“sistema Germania” metterà infatti in crisi l'Euro e la già traballante
solidarietà europea [14].
Ha misurato attentamente le parole Bruno Le Maire, il ministro francese
dell'Economia, della Finanza e della Sovranità Industriale e Digitale (così
Macron ha ribattezzato quest'anno il dicastero mentre sparava a zero contro i
“sovranismi”) quando ha affermato che bisogna evitare «che il conflitto in
Ucraina sfoci nella dominazione economica americana e nell’indebolimento
europeo» [15].
Ma a cosa
serve capire? Secondo Putin a nulla, ormai: «Capiscono chiaramente che gli
Stati Uniti, spingendo l'UE ad abbandonare totalmente l'energia e le altre
risorse russe stanno praticamente deindustrializzando l'Europa e si stanno
impadronendo completamente del mercato europeo - capiscono tutto, queste élite
europee, capiscono tutto, ma preferiscono servire gli interessi degli altri.
Non si tratta più di una banalità, ma di un diretto tradimento dei loro popoli.
Ma che Dio li accompagni, sono affari loro».
In realtà,
più che il tradimento di un popolo, quella delle nostre élite è una scelta di
classe, la scelta di servire interessi che ormai non hanno più alcuna
connessione col benessere sociale e nazionale.
Con
l'approfondirsi della crisi, infatti, alcuni grandi gruppi si arricchiranno, mentre
altri collasseranno assieme a una miriade di imprese e di reti d'imprese con
limitata disponibilità di capitale mobile, o meno protette politicamente, o
meno strategiche (ad esempio non legate all'apparato militare). I fenomeni di
concentrazione e centralizzazione dei capitali subiranno un'accelerazione
perché il tempo diventerà risorsa rara: per via degli intrecci tra capitali
reali e capitali fittizi queste operazioni dovranno essere compiute prima che
inizino i grandi disastri finanziari, prima che si scopra che 10 Terre non
esistono.
Se in corso
d'opera la strategia anglosassone virerà dal tentativo di distruggere la Russia
al tentativo di guadagnar tempo per rimandare più in là le scelte, bisogna
considerare che sarà difficile “comprare tempo” senza lasciarsi attrarre da
ricche sirene come il futuro mercato internazionale dello Yuan e forse anche
del Rublo e gli stratosferici investimenti richiesti dalle nuove “vie della
seta” (la Belt and Road Initiative cinese) e dagli altri
colossali progetti eurasiatici. C'è una quantità strabiliante di capitali in
Occidente che non intendono star fermi ad aspettare che la prossima crisi li
“macelli” (Marx). E questo indurrà altri moti sussultori che si sommeranno allo
scontro tra placche tettoniche.
Un discorso
a parte, che qui non può essere sviluppato, riguarda l'agricoltura e i regimi
alimentari. Un settore imprescindibile e che per gli Stati Uniti è stato
strategico fin dalla loro formazione. E legato ad esso bisognerà affrontare il
tema ecologico tenendolo distinto dal suo utilizzo a fini speculativi, che è
quello corrente.
Conclusioni
Le
conclusioni sono sempre le stesse che Giovanni Arrighi esponeva circa 30 anni
fa:
«Prima di
soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale
postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica,
l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente
violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra
fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine,
ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe
origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni
transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo
o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere».
Queste
domande e queste incertezze sono ineludibili e segnalano l'inadeguatezza dei
nostri strumenti di analisi di fronte a fenomeni caotici e sommamente
complessi.
Qua e là nei
discorsi di Putin sembra di cogliere alcuni apprezzamenti precisi dei fenomeni
in gioco, come la finanziarizzazione, come quando ricorda che con le
«capitalizzazioni gonfiate», con la «capitalizzazione virtuale» non si può
«riscaldare nessuno». Ma questo testimonia solo di una asincronicità tra le
fasi di sviluppo e di crisi occidentali e quelle eurasiatiche. La
finanziarizzazione non è uno stadio del capitalismo, ma l'espressione delle sua
crisi sistemiche, crisi che sono indotte dai meccanismi di accumulazione.
Quindi si può ipotizzare in prima battuta che per ora non sono entrati
in contrasto due sistemi di rapporti sociali distinti, ma due “orologi” che non
possono sincronizzarsi. Che poi questo contrasto assuma contorni ideologici
è naturale. E' sempre stato così e lo è ancora di più in un'epoca dove la
comunicazione e il dominio delle idee sono diventati un'arma diretta. Ma la
domanda è: sappiamo quali interessi difende Biden, ma quali interessi difende
Putin, quali Xi? Che sistemi hanno in mente? Quanto sono praticabili? Quanto
sono compatibili con la stabilità di un mondo multipolare? Si andrà incontro a
una situazione permanente di caos, a una società di mercato postcapitalistica,
o a che altro?
Non ne
abbiamo idea. Io non ne ho idea. Sono anni che non si fa più un'analisi di
classe e da un punto di vista di classe, militante e di ampio respiro. Così
quando questo inverno saremo immersi nella riedizione del XIII secolo con la
nuova guerra dei cent'anni, la nuova peste e i nuovi tumulti dei ciompi quel
che avremo a disposizione sarà un pensiero simbolico pericolosamente vicino a
un pensiero magico e rimpiangeremo la riga e il compasso.
Note
[1] “Non fate gestire la crisi
ai banchieri centrali”, così il Guardian lo scorso 16 ottobre 2022 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/oct/16/the-guardian-view-on-central-bankers-dont-put-them-in-charge-of-the-crisis). Come dei cani di
Pavlov, i banchieri centrali per contrastare l'inflazione colpiscono
automaticamente sul lato della domanda, cioè i salari, suscitando l'allarme di
Richard Kozul-Wright, il responsabile del rapporto ONU sul commercio e lo
sviluppo: «Cercate di risolvere un problema dal lato dell’offerta con
una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto
pericoloso». Qui il rapporto ONU: https://unctad.org/system/files/official-document/tdr2022_en.pdf e qui il
commento di Michael Roberts, economista marxista britannico, ex analista
finanziario nella City di Londra: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24075-michael-roberts-la-terapia-d-urto-sull-economia-mondiale.html
[2] Barbara Spinelli, “Meloni deve
scegliere: o Draghi o Merkel”. Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2022.
http://barbara-spinelli.it/2022/09/30/meloni-deve-scegliere-o-draghi-o-merkel/
[4] Per fare un esempio importante, in
Russia l'omosessualità non è né illegale né perseguitata. A inaugurare le
Olimpiadi di Sochi fu un duo canoro, il t.A.T.u., che si presentava in scena in
esibiti atteggiamenti lesbici (in realtà solo Julia Volkova era dichiaratamente
bisessuale), Čajkovskij non è messo al bando perché omosessuale - lo è invece
in diversi posti in Occidente perché russo - e potete trovare testimonianze di
omosessuali russi che vivono all'estero e non amano Putin ma negano che in
Russia ci sia una persecuzione omofoba. In Russia c'è invece una legge per
“proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori
tradizionali della famiglia”. Una dicitura su cui si può discutere (cosa
significa “tradizionale”?) ma che intende evidentemente porre un argine, magari
mal formulato, alle estremizzazioni a cui sta giungendo l'Occidente sulla base
di una concezione illimitata (e ipocrita) della coppia
individualismo-desiderio. Anche le società occidentali, in quanto comunità che
hanno necessità di valori condivisi e di solidarietà, cercano di difendersi
dalla teorizzazione e dalla pratica dell'illimitatezza, dell'apeiron, di
individualismo e desiderio. In mancanza di forze comuniste che elaborino e
indichino la strada dell'emancipazione, pressata dall'apeiron dei
progressisti (anche economico: l'accumulazione infinita) e alla ricerca di
un katéchon, un freno ad esso, questa necessità di difesa vede un
rifugio immediato, benché profondamente errato, nella conservazione
reazionaria, bigotta, intollerante, persino fascistoide, politicamente
scorretta non per provocazione ma per convinzione. Succede in Occidente così
come in Russia.
[5] Un'amica russa mi raccontava con
nostalgia di quando viveva in Uzbekistan in epoca sovietica perché nel suo
palazzo vivevano ortodossi, ebrei e musulmani e tutte le ricorrenze religiose
erano occasioni condivise di festeggiamento.
[6] https://www.entilocali-online.it/prezzo-gas-lontano-accordo-ue-su-tetto-contatti-draghi-meloni/
[7] E non solo. La Gran Bretagna era
abile nello sfruttare le contraddizioni sociali e politiche delle nazioni che
conquistava, la loro cultura, le loro tradizioni, persino le loro
superstizioni, e sapeva corrompere. E non si faceva scrupoli di nessun tipo.
Oggi negli UK queste abilità, a parte la mancanza di scrupoli, a quanto pare
sono un ricordo. Ma è vero o è apparenza? Certo, a parità di mancanza di
scrupoli c'è un abisso tra un Winston Churchill e una Liz Truss: il declino
occidentale si riflette anche nel disperante declino della caratura del suo
personale politico. Ma al di là di questo penoso spettacolo, cosa bolle in
pentola? Gli UK sono usciti dalla UE per avere le mani libere in vista
della svolta che da lì a poco sarebbe stata impressa alla crisi sistemica.
Questo è un punto che mi sembra assodato. Eppure sono sempre descritti come i
“junior partner” degli Stati Uniti. Ma fino a che punto è vero? Gli Inglesi,
gli eredi del più grande impero della storia, possono accontentarsi di
essere solo dei “junior partner”? Notate che essere eredi d'imperi conta, e
conta molto. Conta per il piccolo Belgio e conta per la piccola Olanda. E'
persino contato per l'Italia essere erede dell'Impero Romano: fino al 1600,
quando fu superata dalla Province Unite, ha goduto del più alto PIL pro capite
mondiale. E' ovvio che quindi conti anche per la Gran Bretagna. Provate a
pensare alla City di Londra. A Parità di Potere d'Acquisto gli UK vantano solo
il 2,34% del PIL mondiale. Eppure nonostante gli USA abbiano una quota parte
quasi 7 volte più grande, Londra supera New York per servizi finanziari,
surplus degli scambi e per il mercato dei bond internazionali (si veda https://www.theglobalcity.uk/competitiveness).
Questa capacità di “resilienza” è dovuta
all'accumulo nei secoli, grazie all'impero, di densi grumi di potere, di
capacità di influenza, di vaste e importanti relazioni, di presenza
internazionale, di abilità organizzative del business e di acquisizione e
gestione delle informazioni. E' la prova che queste capacità non sono
determinate solo dalla potenza militare o da quella economica (nemmeno quella
reale, altrimenti questi primati spetterebbero alla Cina). Persiste,
ovviamente, anche la mancanza di scrupoli, esemplificata oggi nel modo più
squallido da Liz Truss. Mentre qualsiasi politico, anche il più spudorato,
parla del ricorso all'arma nucleare come di una risorsa della disperazione, Liz
Truss è l'unica che ha dichiarato che si sentirebbe onorata a
schiacciare il bottone dell'attacco nucleare contro la Russia. Ha anche
dichiarato di essere una “enorme sionista” (a huge Zionist). Ma quando
le dichiarazioni sono esagerate delle due l'una: o il soggetto è psicopatico, o
nasconde qualcosa, tipicamente il contrario dell'esagerazione affermata. Tenuto
conto che tradizionalmente Londra e Mosca hanno canali di comunicazione
preferenziali, fino a che punto gli UK sono disposti a seguire gli USA nella
loro avventura ucraina e nella loro crociata antirussa? Si tenga conto che la
Gran Bretagna è sì al di là della Manica, ma è ben al di qua dell'Atlantico.
Così come negli Usa dell'Ottocento c'era un partito anglofilo, i Democratici, e
uno anglofobo, i Repubblicani, specularmente negli attuali UK sembra che ci sia
un partito, trasversale, filo-americano e un partito, trasversale,
sovranista-aristocratico (si veda https://www.cumpanis.net/la-gran-bretagna-non-puo-piu-sbagliare-la-sua-strategia-globale/). Ricordo che la
regina Elisabetta fece trapelare il suo endorsement alla
Brexit. E se la Brexit può voler dire abbandono dell'Europa a favore del ruolo
di partner privilegiato degli Usa, fondamentalmente vuol dire tenersi le mani
libere. La Gran Bretagna sembra in bilico tra il ruolo di junior partner e
quello di matriarca delle giovani nazioni anglosassoni, delle Five Eyes.
In attesa quindi di vedere se Liz Truss
è una volpe (per lo meno per conto terzi) o è veramente psicopatica, saremo
costretti a subire i suoi spettacoli di cinismo, di arroganza e di mancanza
totale di etica che uguagliano quelli di Hillary Clinton, che sembravano
inarrivabili.
[8] Raffaele Sciortino, “Prove di
internazionalizzazione del renminbi yuan e de-dollarizzazione”. ACro-Pólis,
19-09-2022 (https://www.acro-polis.it/2022/09/19/prove-di-internazionalizzazione-del-renminbi-yuan-e-de-dollarizzazione/).
[9] Le provocazioni statunitensi alla
Cina segnalano che Washington, Wall Street, Londra e la City sono ormai sicure
che Pechino si opporrà all'integrazione della finanza cinese nei giochi
finanziari occidentali – e la vicenda di Ali Baba lo dimostra. Quindi
Washington e Londra devono ricorrere a tentativi di destabilizzazione.
[10] https://youtu.be/igAfB8LdZaE
[11] Uno per tutti, si veda un
importante articolo del grande giornalista brasiliano Pepe Escobar, uno dei
pochi che all'epoca di Osama bin Laden condusse inchieste in Afghanistan (e fu
imprigionato dai Talebani). Dato che è stato bannato da Twitter e da Facebook,
lo potete trovare qui:
[12] «In questo universo di soggetti
lavorativi, che da un ventennio almeno rappresentano in Italia circa l’80% dei
nuovi posti di lavoro, si distinguono nettamente due categorie: quelli che
ancora conservano una coscienza della subordinazione o della dipendenza
economica e ritengono che i rapporti di forza sul mercato sono tali per cui il
conflitto presenta alti o troppi rischi e quelli che hanno perduto
completamente questa coscienza e ritengono che la legittimazione sociale, il
riconoscimento sociale siano la massima ricompensa cui hanno diritto di
aspirare nel rapporto di lavoro, il quale, come tale, non può essere messo in
discussione. Ritengono che negoziare le condizioni di lavoro sia un
sovvertimento dell’ordine sociale. […]
Stretto nella morsa della sua
solitudine, incapace di protestare o di riuscire a negoziare il rapporto di
lavoro e la condizione lavorativa, volendo comunque migliorare la propria
situazione, cerca una diversa situazione di lavoro, abbandona il possibile
campo di scontro e crea in questo modo, da un lato, una precarietà cercata,
voluta, dall’altro, un ulteriore indebolimento del fronte che avrebbe potuto
configurarsi in maniera antagonista.
Mi sono fatto la convinzione che il
problema del conflitto impossibile o negato ruota attorno alla tragica
condizione dell’individualismo e che il problema del neofascismo, del
sovranismo, del nazionalismo, del populismo – in una parola
dell’antiglobalizzazione – sia essenzialmente una riproposizione dell’identità
collettiva, del senso stesso di collettività, ottenuto attraverso la
costruzione di un nemico immaginario (ieri gli ebrei, oggi i migranti). Questo
è risaputo, è la spiegazione mainstream del neofascismo. Quello su cui non si
riflette abbastanza è che alla radice sta sempre il problema del lavoro (o del
welfare) e che il senso di frustrazione che è la molla dei comportamenti
razzisti deriva proprio dai problemi occupazionali e in ultima analisi
dall’impossibilità/incapacità di negoziare le proprie condizioni di lavoro o di
migliorare la propria condizione esistenziale.
La differenza sostanziale tra il nostro
modo di superare l’individualismo e quello dei populisti sta nel fatto che noi
vorremmo costruire la solidarietà attraverso un conflitto reale che comporta
notevoli rischi mentre loro costruiscono identità attraverso un conflitto
immaginario che non comporta nessun rischio. Per questo il loro ostentare
ardimento e aggressività nasconde una profonda, innata, vigliaccheria» (Sergio
Bologna, “Fine del lavoro come la fine della storia? 2/2”, AcrO-Polis,
23-06-2022
https://www.acro-polis.it/2022/06/23/fine-del-lavoro-come-la-fine-della-storia-2-2/)
L'intersecarsi disorganico di istanze di
una classe media in via di proletarizzazione con quelle di un proletariato
costretto a pensarsi classe media è stato messo in luce sia dalla vicenda
Covid sia dalle elezioni in Europa e negli Stati Uniti.
[13] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italia-russia-una-storia-tutto-gas-21400
[14] Si vedano “La Germania balla da
sola” di Stefano Porcari e “On the Euro without Germany” di Michael
Hudson (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23957-stefano-porcari-la-germania-balla-da-sola.html e https://www.nakedcapitalism.com/2022/09/michael-hudson-on-the-euro-without-germany.html).
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