venerdì 7 ottobre 2022

A mio padre - Adriana De Mitri

 

Confuso, spaesato, ha camminato nel cuore della notte, per raggiungere la sua casa paterna, per suonare a quella porta, e scoprire che solo lui stava vivendo quel tempo, che il tempo era passato e in quella casa non c’erano più suo padre, sua madre, i suoi fratelli, i suoi nipoti amatissimi.

 

È uscito nella notte più fredda dell’anno,

rincorrendo i suoi ricordi.

Confuso, spaesato, ha camminato nel cuore della notte

per raggiungere la sua casa paterna,

per suonare a quella porta,

e scoprire che solo lui stava vivendo quel tempo,

che il tempo era passato

e in quella casa non c’erano più

suo padre, sua madre, i suoi fratelli,

i suoi nipoti amatissimi,

ma l’unica sorella superstite,

che mi ha chiamato, sconvolta, dicendomi

“Adriana, tuo padre è qui da me,

in pigiama, con la giacca da camera,

senza una scarpa e dice cose incomprensibili”.

Aveva un corpo da ragazzo, mio padre.

Settantotto anni, non un filo di grasso,

muscoli ancora ben definiti,

un passato da sportivo che traspariva ancora.

Aveva un’atrofia cerebrale, mio padre.

Praticamente il cervello a metà,

ma riusciva tenacemente a fare cose.

Usciva da casa. Ritornava a casa.

Comprava le sigarette,

per poi dimenticare di averlo fatto.

Comprava il latte,

per poi accorgersi di averlo già comprato.

Metteva le calze di lana in pieno agosto.

Piantava chiodi, ovunque.

Lui, eccellente ebanista,

che chiodi ne aveva usati veramente pochi.

Dava il bacio della buonanotte a mia madre,

dopo averle rimboccato le coperte.

Immancabilmente, prima di coricarsi.

Faceva e disfaceva la sua valigia,

continuamente.

Per tornare a casa.

“Voglio tornare a casa mia” diceva.

Perché quella casa, in cui aveva vissuto

con me, con mia madre, con mia figlia,

non la riconosceva più.

Rincorreva disperatamente i suoi ricordi, mio padre,

non riconoscendosi più,

non riconoscendo più luoghi noti, persone care.

Improvvisamente.

Si rivedeva in campo di concentramento,

parlava del vicino di branda, che gli aveva rubato qualcosa.

Parlava delle guardie, che lo avevano picchiato.

Parlava del suo amico, scomparso da un giorno all’altro.

Chiedeva dei suoi genitori, morti da tempo.

Chiedeva di amici ormai lontani,

di fratelli che non c’erano più,

ma che danzavano vividi nella sua mente.

Rincorreva pochi, confusi ricordi.

Conservati in quel manipolo di neuroni ammutinati,

che avevano disperso chissà dove gli altri.

Non riconosceva più nessuno di noi, mio padre,

ma, inspiegabilmente, in quella totale confusione,

quando ha visto mia figlia, la sua unica nipote amatissima,

l’ha guardata, le ha sorriso dolcemente e ha sussurrato

“Paola, la beddha mia”.

È morto la mattina dopo.

Il 27 febbraio 1999.

da qui

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