Oltre il giardino - Andrea Zhok
Ieri il
responsabile della politica estera dell’Unione Europea Joesp Borrell ha
spiegato in un’intervista come in Europa vi sia "la migliore combinazione
di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l'umanità è
stata in grado di costruire: tutte e tre le cose insieme", e prosegue
paragonando l'Europa a "un giardino" e il resto del mondo ad una
"giungla che potrebbe invadere il giardino". È per questa ragione che
gli europei devono “andare nella giungla”, devono “essere molto più coinvolti
nel resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà”.
Questo discorso
nella sua schiettezza ideologica rivela molte più cose delle circostanze in cui
ci troviamo di qualunque sottile analisi geopolitica. Certo, vi saranno
strateghi che operano dietro le quinte ed esaminano la realtà con freddo
realismo in termini di mero potere, economico e militare, ma ogni epoca, ogni
civiltà poggia sempre su una qualche visione fondamentale, cui aderiscono i
più, che operano al di fuori della “stanza dei bottoni”.
Le parole di
Borrell ci rammentano gli estremi di questa visione portante, che sta al fondo
dell’attuale conflitto mondiale ibrido (noi siamo già nella Terza Guerra
Mondiale, ma in una forma per ora ibrida, in cui le componenti economica e di
manipolazione cognitiva sono almeno altrettanto importanti di quella militare).
Borrell ci
ricorda, involontariamente, come l’Occidente abbia costruito la propria
autocoscienza negli ultimi due secoli in una forma “progressista” (condivisa,
beninteso, anche da quelli che si dicono “conservatori” in politica), una forma
in cui il mondo “va avanti”, e individui e popoli si distinguono in “avanzati”
e “arretrati”.
Noi
occidentali, in quanto avanzati e progrediti, possiamo legittimare ai nostri
occhi fondamentalmente ogni abuso ed ogni prevaricazione nei confronti degli
arretrati, giacché il progresso funziona come un dispositivo di giustificazione
morale. Il progressismo occidentale è in effetti una forma di razzismo
culturale, straordinariamente arrogante ed aggressivo, che riveste la primitiva
“legge del più forte” con decorazioni ideologiche di altissima parvenza morale
(i diritti umani, i diritti civili, ecc.).
L’intero
apparato intellettuale e propagandistico organico a questa visione produce a
getto continuo giustificazioni ad hoc per qualunque violenza e abuso, adottando
con sistematicità doppiopesismi mirabolanti e sofismi iperbolici (dal Congo
belga a Wounded Knee, dalla Shoah a Hiroshima, dal Vietnam all’Iraq, ecc. è un
libro degli orrori punteggiato di appelli al progresso). Al fondo di tutto ciò
c’è un assunto roccioso, l’unica cosa davvero stabile e inconcussa: il senso
della nostra superiorità. Ciascuna delle infinite prove del carattere
aggressivo, predatorio, disumanizzante della civiltà occidentale contemporanea
vengono automaticamente lette dall’apparato come errori di percorso, incidenti
inessenziali, danni collaterali nel processo verso l’avanti, il di più, il
meglio, il progresso.
Noi, gli
Eloi, viviamo nel giardino, gli altri, i Morlock, nella giungla.
È
interessante ricordare come l’intera fondazione storica di questo senso di
superiorità è esclusivamente fondata sulla superiorità tecnologica, militare e
poi industriale, maturata compiutamente negli ultimi due secoli. È con la
rivoluzione industriale e la capacità di produrre in serie grandi quantità di
armi micidiali che il senso di superiorità e avanzamento diviene pienamente
convincente.
Non è certo
sul piano spirituale, né su quello dell’armonia delle forme di vita, né su
quello della felicità, né su quello della raffinatezza artistica, né su
nient’altro che l’Occidente ha maturato la propria autocoscienza di
superiorità, nient'altro salvo la forza tecnologicamente supportata. Per dire,
non abbiamo elaborato niente di comparabile alle tecniche del corpo e della
mente che possiamo trovare nella cultura indiana, cinese, giapponese, ecc. ma
noi avevamo le mitragliatrici, loro no.
In effetti
l’unica cosa che nutre e permette di definire uno standard di “progresso” è
l’accumulo di potenza tecnologica. Se sia migliore, “più progredita” la poesia
giapponese o quella tedesca è questione che nessuna persona sana di mente si
metterebbe seriamente a discutere, ma che la tecnologia tedesca fosse superiore
a fine ‘800 era dimostrabile sul campo, e ciò, ad esempio, spinse il Giappone
(nonostante grandi resistenze) ad adeguarsi agli standard europei.
L’Occidente
è dunque la forza storica che ha spinto il mondo nella direzione di una
competizione infinita, illimitata, giacché ha creato un campo di gioco dove non
c’era pietà per chi restava “indietro”. L’Occidente ha indotto il pianeta ad una
sistematica “corsa agli armamenti”, in senso bellico o economico, sulla scorta
della propria visione progressista di un avanzamento assoggettante.
Al contempo,
sin dall’inizio e con sempre maggiore intensità, l’Occidente (che non coincide
con la cultura, o meglio le culture, europee) ha dato mostra di entrare in
ricorrenti crisi di autofagia, di destabilizzazione ed autodistruzione. Gli
anni che precedono la Prima Guerra Mondiale sono anni culturalmente
affascinanti per lo studioso perché sono una straordinaria, insistente
elaborazione sul tema della disperazione, della decadenza e del nichilismo
(esattamente in parallelo con il simultaneo levarsi delle lodi positivistiche
al progresso, all’illuminazione elettrica, ai nuovi “comfort”). Le due guerre
mondiali – gli eventi ad oggi più distruttivi che la storia dell’umanità
registri – hanno semplicemente portato le lancette dell’orologio della storia
di nuovo indietro di mezzo quadrante: e dagli anni ’80 del XX secolo le stesse
dinamiche di un secolo prima iniziano a profilarsi.
Oggi e da
tempo nel “giardino” occidentale la percezione di precarietà e di mancanza di
futuro è generalizzata; siamo alla seconda generazione che nasce e cresce in
una condizione di perenne crisi, di totale disorientamento, di sradicamento, di
liquefazione dei rapporti, degli affetti, delle identità, di incapacità di
identificarsi con un qualunque processo sovraindividuale, che sia storico o
trascendente.
Questa
condizione di degrado sociale e antropologico viene camuffato ideologicamente
facendo di ogni ferita un vanto, di ogni cicatrice una decorazione:
l’instabilità è “dinamicità”, la sradicatezza è “libertà”, lo sfaldamento
identitario è gioiosa “fluidità”, ecc. Il male di vivere nelle generazioni più
giovani, quelle tradizionalmente più disposte alla contestazione e alla
protesta, è tenuto sotto controllo con la disponibilità di un sempre crescente
mercato di intrattenimento standardizzato, funzionale a distogliere la mente da
qualunque durevole forma di autocoscienza o generale consapevolezza. Quello che
un tempo era il gin delle distillerie clandestine per l’operaio della
rivoluzione industriale è ora fornito in forma di intrattenimento a domicilio
da variegati schermi. Anche questo è progresso: in questo modo la forza lavoro
dura di più.
Collocandoci
in una posizione superiore e avanzata, questa visione consente di delegittimare
in partenza ogni lamento, giacché per definizione, quand’anche noi in prima
classe avessimo problemi, figuratevi tutti gli altri miserabili, in altri
luoghi o tempi. Dunque smettete di lamentarvi e tornate al lavoro.
Questa
concezione onnicomprensiva, in cui siamo immersi ad una profondità quasi
insondabile, rappresenta una bolla al di là della quale non siamo in grado di
immaginare che possa esistere alcun mondo degno di essere abitato (c’è solo
l’oscurità della “giungla”). È per questo motivo che nel momento in cui, per la
prima volta da due secoli, compare all’orizzonte l’ombra di competitori non
facilmente assoggettabili, la sfida, per chi è imbevuto di questa visione,
diventa qualcosa di assoluto, di esistenziale. Non si può cedere perché cedere
significherebbe aprire la strada ad una relativizzazione del nostro sguardo, e
questo solo fatto aprirebbe le cateratte dello scontento represso, del disagio
covante sotto le ceneri, della disperazione dietro a mille insegne luminose.
È per questo
che si tratta di un momento di particolare pericolosità: l’Occidente, traendo
tutta la propria resistenza psicologica residua dalla propria immagine di
superiorità non è nelle condizioni culturali di immaginare per sé una forma di
vita differente. Perciò le oligarchie, che della forma di vita occidentale
percepiscono solo i benefici, sono disposte a sacrificare fino all’ultimo
plebeo pur di non cedere terreno, pur di non lasciar crescere alcuna
vegetazione spontanea dentro il “giardino”.
Tra giungla e giardino - Giacomo
Gabellini
L’Europa è così tanto un “giardino” da consegnare tangenti ai fracker
statunitensi talmente succulente da convincerli a reindirizzare verso il
“vecchio continente” le rotte delle navi metaniere originariamente dirette
verso l’Asia.
Il conseguente ammanco delle forniture di gas naturale precedentemente
concordate costringerà decine di Paesi che Borrell identifica come “giungla” a
razionare l’energia a livello domestico. Nazioni su cui il “giardino europeo”
in via di putrefazione non esita, conformemente a un approccio smaccatamente
predatorio che tradisce la mentalità neocoloniale delle pseudo-élite
continentali, a scaricare i costi elevatissimi della catastrofica e
irresponsabile strategia di “disaccoppiamento” dalla Federazione Russa seguita
in ossequio ai voleri del padrone americano.
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