C’è un equivoco che attraversa quasi tutta la storia del movimento operaio
fino ai giorni nostri: l’identificazione o l’intercambiabilità tra i termini il
lavoro, da un lato, e lavoratori e lavoratrici, dall’altro. Questo interscambio
è continuo nel linguaggio sindacale, politico e anche economico. Con l’avvento
del capitalismo il lavoro non è altro che un fattore della produzione, come la
terra e il capitale (in tempi recenti si è aggiunta, come fattore della
produzione, anche l’informazione): una risorsa produttiva di merci. Prima di
allora il lavoro era considerato solo fatica, sofferenza, tortura, come
dimostra l’etimologia dei termini che lo designano in varie lingue. I
lavoratori e le lavoratrici invece sono persone; e lo sono sempre stati/e,
almeno per noi. La forza lavoro di cui parla Marx appartiene sì al lavoratore,
ma per farsi risorsa produttiva deve essere venduta al capitalista, ed è solo
lui che ne dispone. Che cosa cambia? Cambia che nel lavoro in quanto tale non
c’è niente di “progressivo” (termine orrendo, duecento anni dopo Leopardi; il
progresso ormai è solo più crescita, accumulazione del capitale); di
“dignitoso” nel lavoro non c’è nulla, se non quando e nella misura in cui esso
coincide con un’attività di cura. Ma quando è nocivo per chi lo fa,
o per chi ne subisce gli effetti (degrado ambientale o prodotti nocivi
per la salute fisica o mentale), non può rivendicare alcuna dignità. La
dignità è tutta dei lavoratori e delle lavoratrici che lo subiscono per
far vivere sé stessi e le loro famiglie e soprattutto di quelli che si battono
per sottrarsi allo sfruttamento o ai suoi eccessi. Questo equivoco è
stato istituzionalizzato nella nostra Costituzione: che cosa significa “fondata
sul lavoro”? Fondata sull’accumulazione del capitale? Oppure sui lavoratori e
sulle loro esigenze? E gli altri? Quelli che il lavoro non ce l’hanno o non
possono averlo? Entreranno a far parte della Repubblica solo se e
quando ne avranno uno?
Altro equivoco, insorto solo in tempi recenti, è l’espressione “lavoro riproduttivo” o “di riproduzione”, da equipararsi al “lavoro produttivo” (di merci, plusvalore, capitale) nel benevolo intento di valorizzare, nobilitare, dare “dignità” alle attività di cura, svolte prevalentemente dalle donne, ascrivendole, includendole, nell’universo del lavoro, di per sé meritevole di dignità. O rivendicando un salario al “lavoro domestico”, obiettivo che dovrebbe sancire questa inclusione o equiparazione; ma al tempo stesso inchiodare chi lo fa (prevalentemente), cioè le donne, a questo loro ruolo. Dobbiamo – secondo me, soprattutto quando parliamo o scriviamo – cominciare a chiamare lavoro quello direttamente o indirettamente subordinato all’accumulazione del capitale e attività quelle svolte – non necessariamente per “libera scelta” – al di fuori di quel circuito; e cura le attività che hanno finalità ed effetti benefici sulla salute, l’ambiente e la convivenza, sia che sia remunerato che no. Non è facile anche solo modificare il nostro lessico. Ma quando parliamo di “società della cura” che cosa intendiamo? Una società in cui si svolgono solo attività di cura? O una riduzione/redistribuzione del lavoro produttivo in modo che tutti abbiano anche la possibilità di svolgere adeguate attività di cura? E qual è, in via ipotetica, la strada da percorrere dalla situazione attuale a questo assetto futuro? Può essere percorsa “per gradi”?
Do per scontata una convergenza sostanziale di massima tra termini come
decrescita, conversione ecologica, transizione, ecosocialismo, ciascuno con un
suo focus specifico che non va trascurato ma coltivato, ma non
contraddittorio con quello degli altri termini. Per lo più si presentano tutti
come “visioni” (di uno stato da raggiungere) e non come
processi. Quello che manca – con poche eccezioni, in campo
agroalimentare – è la loro connessione con i processi in corso:
conflitti o trasformazioni “molecolari” socioculturali, e con le rivendicazioni
di maggiore impatto: salario minimo, salario di dignità, reddito di base, ecc.
ma anche trasporto gratuito, sanità territoriale, ecc. È possibile indirizzare
questi processi materiali verso quelle visioni? O una di quelle
visioni? Certo il compito non spetta al nostro “circolo” di discussione, ma ai
protagonisti di quei processi. Ma possiamo cominciare a fare un inventario
degli ostacoli (disinformazione, scetticismo, abitudini, ignoranza,
preoccupazioni, urgenze, ecc.) che si frappongono a questo obiettivo e degli
strumenti (informazione, coinvolgimento in attività di carattere comunitario,
inserimento in reti solidali, supporti, amicizie, ecc.) per facilitarne il
perseguimento? È qui, soprattutto, che entra in gioco il lavoro (quello
salariato, o comunque dipendente): difendere con le unghie e con i denti
l’esistente (il proprio posto) anche quando magari si vede che ha poco futuro?
O aprirsi a una prospettiva diversa e necessariamente in gran parte indefinita?
E con che supporti? E le due cose sono conciliabili? E come? Ce ne sono degli
esempi?
Ci sono due approcci differenti (e per molti versi
opposti) ai cambiamenti radicali di cui ci diciamo attivisti. Chiamo uno di
carattere “statutario” e l’altro di carattere “processuale”. Il primo
mette al centro una visione o, per lo meno, una “meta” intermedia da
raggiungere; e si occupa soprattutto di definirne regole e funzionamento per
renderlo “desiderabile”. Il secondo mette al centro il conflitto e
il suo carattere necessariamente caotico e imprevedibile e si occupa più della
direzione da imboccare che della meta da raggiungere (chiedere camminando). Sono
conciliabili questi due approcci? Ce ne sono degli esempi?
Infine, nell’approccio alla trasformazione del lavoro può prevalere una visione aziendalista o una territoriale. Un esempio della prima è il documento I consigli del lavoro e della cittadinanza del Forum Diseguaglianze. Qui l’azienda è al centro e al centro dell’azienda c’è il lavoro (non i lavoratori e le lavoratrici), presupponendo che sostanzialmente non cambino né la natura del prodotto né le dimensioni dell’azienda e delle sue reti di fornitura, anche se non si dimentica il resto: l’ambiente e la comunità di cui l’azienda fa parte. La strada per promuovere l’adesione e la partecipazione a questo progetto sembra essere la persuasione. Un esempio del secondo tipo è la lotta della popolazione della Valdisusa, che non dimentica il suo obiettivo iniziale – il blocco del progetto TAV – ma che intorno ad esso lavora per costruire una cultura della trasformazione economica e sociale. Più difficile, ma più impegnativa, l’esperienza della GKN, dove ci si rende conto di quanto sia difficile mantenere la riconversione dello stabilimento entro il perimetro dell’automotive, anche cambiando tipo di produzione. La strada della progressiva adesione a questo percorso sta tutta nell’allargamento del conflitto. Senza conflitto niente partecipazione. Come sostenere nel tempo la partecipazione quando gli obiettivi intermedi invece di avvicinarsi si dileguano?
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