È curioso vedere come in questi giorni, molti personaggi pubblico- mediatici, politici, ma non solo, donne, ma non solo, di destra, ma non solo, sottolineino positivamente e si felicitino del fatto che, per la prima volta in Italia sia stata nominata una “premier” donna. A ribadirlo sono spesso esponenti della sinistra.
Che questo evento
rappresenti una novità assoluta per la politica italiana è fuor di dubbio e semmai
mette in luce la nostra arretratezza sul piano della parità dei diritti e non
può che essere colto come segno di cambiamento. Ciò che colpisce, però, è che
il fatto che Giorgia Meloni sia donna sembra prevalere sulla sua ideologia
politica.
Da un lato questo
atteggiamento sottende una sorta di discriminazione positiva basata sul genere,
come se esistesse un “pensiero femminile” condiviso da tutte le donne.
Difficile pensare che Giorgia Meloni, Nilde Iotti, Tina Anselmi, Liliana Segre
e molte altre possano essere accomunate da un idem sentire per il fatto di
essere donne. Supporre che esista un pensiero di genere, si configura in modo
simile alle concezioni razziali.
Da un altro lato,
allargando lo sguardo, questo atteggiamento rivela un progressivo prevalere del
presunto “naturale” sul culturale. Essere donna o uomo non è una scelta. Pur
aderendo all’idea, sempre più diffusa, della fluidità di genere, rimane il
fatto che qualunque genere si voglia adottare – compreso il non-genere
– questo non presuppone un pensiero comune e condiviso. Semmai i
riferimenti attengono più alla sfera individuale, che a quella collettiva e
pertanto non necessariamente incidono in modo univoco sulle scelte espresse.
Ipotizzare che esista
un pensiero, per quanto fluido, legato a un genere, anche temporaneo, significa
“naturalizzare” quel genere, attribuendogli la capacità di condizionare il
pensiero, nello stesso modo in cui si pensa che una presunta “razza” possa
determinare una cultura. Questo ritorno al “naturale” – le virgolette sono
quanto mai d’obbligo in questo caso – è peraltro già apparso evidente in molte
istanze localistiche, oggi sovraniste, in cui si fa appello alle “radici”,
riducendo l’individuo a metafora arborea, condannata dalla natura del terreno
in cui è nato a essere quello che è. I ripetuti richiami alla patria, ai
patrioti e al patriottismo cosa sono, se non un’ulteriore espressione del
pensiero che lega l’individuo, nei suoi affetti e nei suoi doveri, a un suolo:
quello in cui è nato, non quello che ha scelto. Il luogo, la patria
definiscono quindi l’individuo, ne connotano i sentimenti, le aspirazioni, ne
condizionano i diritti. In una tale concezione, basata sull’autoctonia (un
dato non certo legato alla cultura, ma alla casualità) i diritti vengono
concessi o meno in base al grado di “indigenità”. Lo slogan “prima gli
italiani” ne è una conferma.
Questo legame tra gli
individui e la loro terra, che diventa patria con la nascita dello Stato –
nazione e della sua natura militare, ricorda molto, anche se in modo molto più
annacquato, il triste “blunt und boden” (Terra e sangue) tanto caro ai
nazisti. Il luogo di nascita non è però sufficiente, ci vuole altro per
ottenere quei diritti. Come nella Spagna del XVI secolo, dove vigeva la regola
della “limpieza de sangre”, in Italia ci si richiama alla stirpe.
Infatti, non basta nascere in Italia, per essere considerati italiani (Paola
Egonu, nata a Cittadella, docet) occorre anche avere antenati italiani.
Se così non fosse, lo ius soli sarebbe stato approvato da un pezzo, invece
occorre un altro dato “naturale”: il sangue. Chissà se gli antropologi
di un prossimo futuro dedicheranno qualche capitolo dei loro libri al culto
degli antenati, celebrato dai nuovi patrioti e sovranisti nostrani?
Nessun commento:
Posta un commento