1.
Orientalismo di Edward Said
“Orientalismo
è un ripensamento di quello che per secoli è stato ritenuto un abisso
invalicabile tra Oriente e Occidente. Il mio scopo non era tanto eliminare le
differenze – chi mai può negare il carattere costitutivo delle differenze
nazionali e culturali nei rapporti tra esseri umani? –, quanto sfidare l’idea
che le differenze comportino necessariamente ostilità, un assieme congelato e
reificato di essenze in opposizione, e l’intera conoscenza polemica costruita
su questa base. Ciò che auspicavo era un nuovo modo di leggere le separazioni e
i conflitti che avevano provocato ostilità, guerre e l’affermarsi del controllo
imperialista. Anche se le diseguaglianze e i conflitti da cui è nato il mio
interesse per l’orientalismo come fenomeno culturale e politico non sono
scomparsi, oggi si è perlomeno raggiunto il consenso sull’idea che tutto ciò
non rappresenta una situazione immutabile, bensì un’esperienza storica la cui
fine (o perlomeno il cui parziale superamento) può essere a portata di
mano.” Dalla Postfazione
2.
Provincializzare l'Europa di Dipesh Chakrabarty
Il pensiero
europeo è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per riflettere sulle
esperienze di modernità politica nelle nazioni non occidentali. Indispensabile
perché le idee universali proposte dall’Illuminismo europeo rimangono la
fondamentale base di ogni critica sociale che cerchi di affrontare i problemi
della giustizia e dell’equità. Inadeguato perché la transizione capitalista nel
Terzo mondo, se misurata con gli standard occidentali e con la nostra idea di
storicizzazione, appare spesso incompleta o inefficace. Già dalla metà del
XX secolo la cosiddetta “epoca europea” della storia moderna ha cominciato
a lasciare spazio ad altre configurazioni regionali e globali. Provincializzare
l’Europa non significa però ripudiare o abbandonare il pensiero europeo, ma
riflettere su come globalizzarlo rinnovandolo per e dai suoi margini.
Ogni caso di transizione al capitalismo non è più semplicemente interpretabile
come un fenomeno sociologico di transizione storica, ma anche come un caso di
traduzione: una traduzione di mondi esistenti e delle loro categorie di
pensiero nelle categorie e nella cultura della modernità capitalista.
Chakrabarty dimostra, sia in modo teorico che attraverso esempi dell’India
coloniale e contemporanea, come tali storie di traduzione potrebbero essere
pensate o scritte.
Imbastendo una sorta di conversazione tra due dei più importanti rappresentanti
del pensiero europeo, Marx e Heidegger – l’uno esempio della tradizione
analitica delle scienze sociali, l’altro di quella ermeneutica –, l’autore
cerca di comprendere la modernità politica dell’Asia meridionale, prendendo in
esame nella prima parte studi storici ed etnografici su gruppi “subalterni” e
concentrandosi nella seconda sulla storia dei bengalesi indù delle caste
superiori colte.
Provincializzare
l’Europa comincia
e finisce indicando la necessità del pensiero politico europeo per la
descrizione della modernità politica non europea e, al tempo stesso, affronta i
problemi di rappresentazione che tale necessità produce.
3. Critica
della Ragione Postcoloniale di Gayatri c. Spivak
Nel 1926,
una giovanissima attivista del movimento per l’indipendenza indiana,
Bhuba-neswari Bhaduri, si suicidò a Calcutta senza apparente spiegazione. Le
era stato affidato un assassinio politico che non era riuscita a eseguire e
così si uccise lei, ma per farlo aspettò i giorni delle sue mestruazioni, per
evitare che il suo atto venisse interpretato come un suicidio di stampo
“tradizionale” per una gravidanza illecita. Un secolo prima, intorno al 1820,
tra le colline di Sirmur, nel basso Himalaya, visse una Rani, una regina,
sposata a un Rajah spodestato dagli inglesi, la quale intendeva compiere il
rituale sati, il suicidio delle vedove, nonostante il marito fosse
ancora in vita. I britannici, come emissari dell’Europa “civilizzatrice”, si
sentirono in dovere di convincerla a non compiere questo gesto “barbaro”. La
Rani di Sirmur non divenne mai una sati.
Sono due immagini di donne che Gayatri Chakravorty Spivak ci mostra in questo
libro: le loro storie, irrappresentabili e insolubili, potrebbero farci pensare
a fatti molto vicini ai nostri giorni, a terroriste che si fanno esplodere, a
chador negati o reclamati, alla “missione civilizzatrice” dell’Occidente. E
ancora: alle forme dello sfruttamento sparse nel globo, al senso di una parola
come “civiltà”, di un tempo come il “presente”. In dissolvenza… Nei quattro
capitoli che compongono il volume, autorevolmente intitolati “Filosofia”,
“Letteratura”, “Storia”, “Cultura”, si compie il passaggio dagli studi del
discorso coloniale agli studi culturali transnazionali e si focalizza la figura
dell’“Informante nativo”. Il “postcoloniale” è l’ambito teorico e d’azione che
ripensa i dispositivi del sapere e le cartografie del potere muovendosi in un
andirivieni storico e narrativo, ricercando nel passato e nel presente, nei
testi della cultura e nei segni dell’immaginario, i fondamenti di quella che
Spivak definisce “violenza epistemica” del colonialismo e dell’imperialismo. La
critica della ragione postcoloniale mette però tra parentesi la stessa
etichetta “postcoloniale”, ne rovescia come un guanto le stesse possibili e
pericolose incrostazioni come stereotipo, ne rifiuta le benevolenze
consolatorie che oggi riempiono le accademie e i progetti umanitari globali del
capitalismo multinazionale. Spivak si schiera così dalla parte dell’odierno
attivismo antiglobalista, delle battaglie per la giustizia ecologica,
ambientale e riproduttiva, che dal Terzo e dal Quarto mondo chiamano in causa
le metropoli.
Il volume
contiene, tradotto per la prima volta in italiano e qui rivisto e discusso, il
celebre saggio I subalterni possono parlare?.
4. America
latina e Modernità a cura di Gennaro Ascione
Cosa si vede
quando si guarda alla modernità oltre l’ombra che l’Occidente proietta sulla
storia del mondo? Cos’è che resta escluso e misconosciuto dalle retoriche del
capitalismo globale? Esistono esperienze e luoghi “altri” in grado di mettere a
nudo la natura ideologica e demagogica di concetti come sviluppo, modernizzazione e razionalità?
Come è
possibile narrare il colonialismo collocandosi al confine tra l’Europa e i suoi
altri “altri”? Quali forme di conoscenza sono in grado di mettere in
discussione la centralità dell’homo œconomicus nel mondo
contemporaneo? In cosa le esperienze latinoamericane differiscono dai racconti
arcadici e legittimanti che le scienze sociali europee e nordamericane fanno
dell’“altrove” coloniale?
Queste sono
solo alcune delle numerose domande a cui il presente volume tenta di rispondere,
raccogliendo e portando per la prima volta a conoscenza del lettore italiano
stralci del pensiero di autori e autrici che hanno contribuito all’elaborazione
degli studi decoloniali: una tra le più fertili prospettive di ricerca apparse
negli anni successivi alla fine del mondo bipolare, una prospettiva capace di
animare alcune delle pagine più radicali del pensiero storico e sociale sulla
globalità a partire dalle macerie del terzomondismo.
5.
Decolonialità e privilegio di Rachele Borghi
Per uscire
dal colonialismo non ci si può limitare a decostruire, ma bisogna trovare il
modo di agire per trasformare il mondo. Non creare un nuovo paradigma ma
distruggere i paradigmi esistenti. Quante volte hai pensato a cosa ci sia
dietro la parola “scientifico”? Quante volte hai dato per scontato che la
scientificità di un sapere valesse per tutti, ovvero fosse universale? La
cultura europea ha stabilito quale fosse il sapere scientifico, da considerare
l’unico vero, creato in relazione a epistemi occidentali. Tutto il resto è
stato poi derubricato a sapere subalterno. L’accademia occidentale deve
rinunciare al privilegio di produrre il discorso dominante. A partire dalla sua
esperienza personale, Rachele Borghi ci racconta com’è possibile dare battaglia
alla colonialità.
6. I dannati
della terra di Frantz Fanon
Nel libro
prendeva corpo la straordinaria tensione tra l’urgenza di offrire una
prospettiva politica alle lotte di liberazione del Terzo Mondo e
l’approfondimento dell’analisi del sistema coloniale, di cui quest’opera rimane
un eccezionale documento storico. Il libro getta le sue radici nell’esperienza
drammatica della rivoluzione algerina, anche se la sua prospettiva ne trascende
di gran lunga i confini. Di fronte agli straordinari problemi che la società
europea oggi affronta, alle prese con nuovi cittadini immigrati dal Terzo Mondo
e nel tentativo di realizzare una convivenza multiculturale, la lucidità
dell’analisi di Fanon sulle derive del nazionalismo e sui paradossi del
postcolonialismo rimangono di grande rilevanza.
7. Quaderni
del carcere di Antonio Gramsci
Questa
edizione dei Quaderni, pubblicata da Einaudi nel 1975 nella
collana «Nuova Universale Einaudi», segue la sistemazione filologicamente
corretta presentata dall’Istituto Gramsci dopo quel «lavoro minuzioso e
condotto col massimo scrupolo d’esattezza» che lo stesso Gramsci giudicava
necessario nello studio dei classici. I Quaderni, infatti,
sono stati ordinati secondo un criterio cronologico ricostruito sulla base di
dati oggettivi tratti dalla «Descrizione dei Quaderni» (sezione inserita
nell’apparato critico) e che ha portato a una nuova numerazione. Si è anche
cercato di riprodurre il testo cosí com’è stato scritto, in modo che nulla
s’interponesse fra il pensiero dell’autore e chi legge. L’ampio apparato
critico, poi, evitando ogni prevaricazione di carattere interpretativo,
risponde all’esigenza di fornire al lettore tutti gli elementi utili a una piú
esatta comprensione e all’approfondimento dell’opera gramsciana.
8. La fine
dell'impero cognitivo di Boaventura de Sousa Santos
Viviamo in
un’epoca in cui disuguaglianze e discriminazioni sociali sono ormai
politicamente accettate, mentre gli sbocchi politici tradizionali risultano
privi di efficacia e le forze un tempo attive nel dar voce agli ultimi non
sembrano credibili come portatrici di un’alternativa realistica. Come ridare
linfa alle battaglie degli sfruttati per la loro sopravvivenza e dignità? In
questo compendio, Boaventura de Sousa Santos raccoglie i fondamenti
epistemologici delle lotte sociali che vedono i cosiddetti “Sud” del mondo
resistere attivamente al capitalismo, al colonialismo e al patriarcato. In
aperta sfida con l’eurocentrismo, le “epistemologie del Sud” si propongono come
una promessa teoretica e pedagogica in grado di fare tesoro di quelle
conoscenze e visioni del mondo generalmente screditate, taciute e ignorate
dalle culture dominanti del “Nord”. Attraverso metodologie non estrattiviste
quali la sociologia delle assenze e delle emergenze, l’ecologia delle
conoscenze, la traduzione interculturale e l’artigianato delle pratiche, de
Sousa Santos si propone di decolonizzare le scienze sociali e riscattare saperi
preziosi per rilanciare le cause degli oppressi. La giustizia globale dovrà
quindi partire dalla giustizia cognitiva, da una svolta epistemologica solidale
verso coloro che vogliono cambiare il mondo nei termini con cui l’abbiamo
tradizionalmente conosciuto.
9. Elogio
del margine di bell hooks
Ventidue
anni fa la prima comparsa in Italia di bell hooks, autrice di riferimento sul
tema del razzismo subito dalle donne nere negli Usa. Oggi la sua riscoperta
diventa quanto mai necessaria. Nei saggi di Elogio del margine, scopriamo i
luoghi in cui si è svolta e si svolge la resistenza delle donne afroamericane,
a partire dalla casa, scudo di protezione dalla violenza razzista. In Scrivere
al buio, dialogo critico e allo stesso tempo intimo con Maria Nadotti, bell
hooks mette il suo pensiero alla prova di argomenti ordinari: i rapporti
familiari e di coppia, l’istruzione, l’uso del denaro, la pratica della
scrittura. Il pensiero femminista deve parlare alle donne di condizione meno
agiata, riconoscendo la storia particolare delle donne afroamericane.
10. Un
femminismo decoloniale di Françoise Verges
Nella sua
analisi Françoise Vergès parte dall’assunto innegabile che a partire dal
XVIII secolo la storia del femminismo occidentale sia stato un fruttuoso
susseguirsi di vittorie nel campo della rivendicazione dei diritti individuali
delle donne. L’autrice precisa tuttavia che queste vittorie, fondate sullo
cancellazione delle disparità uomo-donna, hanno sottovalutato e in certi
contesti ignorato le esperienze di dominazione che esistono tra le donne
stesse. A fronte di un femminismo portatore della “missione civilizzatrice” del
Nord colonizza- tore, Vergès mostra gli aspetti dirompenti di un
posizionamento “decoloniale” in grado di opporsi a quel patriarcato
profondamente connesso al sistema capitalista (a sua volta storicamente
connesso allo schiavismo) e al neoliberismo.
Il femminismo decoloniale è necessariamente anticapitalista e collega le
disuguaglianze di genere e razziali al sistema capitalista. Secondo Vergès non
ci si dovrebbe definire femministe senza interessarsi alle questioni ambientali,
allo sfrutta- mento, alla vulnerabilità di classe e al razzismo; senza agire
in modo condiviso con altri movimenti politici e sociali favorevoli alla
decostruzione di questo sistema. Essere femministe decoloniali significa allora
combattere contro il femminicidio ma anche per il diritto dei popoli indigeni
alla terra, significa trovare delle connessioni tra le esperienze radicate in
diverse parti del mondo e riscrivere le strutture in cui i nostri mondi sono
pensati.
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