martedì 11 ottobre 2022

GHASSAN KHANAFANI SCRITTORE OLTRE LA LINEA - Samed Ismail

 

Ghassan Kanafani è il più grande intellettuale palestinese. Scrittore, pittore, organizzatore culturale e direttore di giornali, tra cui Al Hadaf, organo del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), partito marxista della resistenza palestinese di cui era dirigente di spicco, infine martire, assassinato dal Mossad nel 1972 a Beirut. La sua popolarità negli ambienti della sinistra occidentale potrebbe essere dovuta al fatto che, se l’accoppiata militante – intellettuale è sempre rassicurante, la triade militante – intellettuale – artista è addirittura esaltante, poiché porta con sé il sapore di un’utopia realizzata. Purtroppo, cercando rassicurazione ed esaltazione, difficilmente si riesce a penetrare la coerenza di un’opera così sfaccettata, e si finisce per perdersi nei suoi aspetti isolati. Si apprezzerà allora il simbolo della colta resistenza palestinese o si resterà sopresi della sua splendida scrittura, perché di solito non ci si aspetta che uno scrittore politico sia anche un buon artista, e il Nostro, fortunatamente, è uno di quegli spiriti che sopravvive alla traduzione. Comunque non si arriverà a capire il senso dell’affermazione iniziale. Ghassan Kanafani è il più grande intellettuale palestinese, non per quello che ha che realizzato, ma per le possibilità di liberazione che ha aperto al popolo palestinese. Queste possibilità si potrebbero aprire a tutti i popoli colonizzati se si studiasse con più attenzione la sua opera più importante, ovvero quella del “metodo” che si può ricavare dai suoi lavori e dal suo esempio, un’opera troppo poco conosciuta nei suoi risvolti profondi.

In quest’ottica proveremo a tracciare un itinerario attraverso la sua produzione letteraria.
Uno dei suoi romanzi brevi più famosi è Ritorno a Haifa (1969), un vis à vis tra colonizzato e colonizzatore, nonché un vero e proprio manifesto della causa.

L’incontro coi sionisti si sviluppa attraverso due fasi.

La “fase riflessiva”, con lo smarrimento, dato dal ritorno in una casa che ancora si riconosce ma che non appartiene più; il riconoscimento della sofferenza altrui, visto che i colonizzatori in questo caso sono ebrei polacchi scampati all’Olocausto; l’interrogarsi sulla causa e sulla patria.

Da qui si passa alla “fase attiva”, con lo svelamento e la denuncia della logica sionista;

«Un errore sommato a un altro errore non dà risultato giusto; e se le cose stessero così, quello che è successo a Efrat e Miriam ad Auschwitz sarebbe giusto. Ma quando la smetterete di approfittare delle debolezze e degli errori degli altri? Queste vecchie parole sono già logore, queste equazioni cariche di inganni… Una volta dite che i nostri errori giustificano i vostri, un’altra che all’ingiustizia non si pone rimedio con una nuova ingiustizia… Vi servite del primo ragionamento per giustificare la vostra presenza qui, e del secondo per evitare le conseguenze di ciò che avete fatto»[1].

Quindi si definisce la causa come qualcosa che non dipende dal sangue, che non è perciò un fattore ereditario, ma bensì dipende da una scelta; la patria non come ricordo del passato ma rivolta al futuro. Infine abbiamo l’esaltazione della lotta armata- che sarà ancora più gioiosa in Umm Saad– come unico mezzo per la liberazione della Palestina. Questo romanzo, oltre ad essere una sintesi imprescindibile della questione palestinese, ripercorre le tappe dello sviluppo del pensiero di Kanfani.

Talvolta, specie quando si tratta di un intellettuale politico, si oblitera la sua “fase riflessiva”, in cui le idee, ancora in fase di gestazione, vertono su temi elementari. Attenzione, elementari non nel senso di semplici, nel senso di rivolti alla radice dei problemi. L’importanza di questa dimensione preliminare viene troppo sottovalutata, sia nello sviluppo del pensiero in generale, ma soprattutto di quello politico. Perciò si ritiene che situazioni “limite” come quella palestinese abbiano come immediata conseguenza il fervore rivoluzionario, che la tragedia della Nakba porti simultaneamente  la nettezza di conclusioni come quella di Ritorno a Haifa.
A noi invece interessano proprio i racconti scritti tra il 1967, che segna un punto di svolta storico per la Palestina e per l’autore, e il 1958, anno di pubblicazione del famoso romanzo d’esordio Uomini sotto il Sole.

Qui domina l’esigenza pre-politica di misurarsi con  lo stato psicologico-esistenziale prodotto dagli eventi del 1948, dalla tragedia individuale e nazionale che è la Nakba. Kanafani adotta una prosa onirico-filosofica, i cui concetti fondamentali sono la morte, il destino e la follia.

Nel racconto La terra degli aranci tristi, che dà il titolo alla raccolta che prenderemo in esame, è riportata l’esperienza biografica della fuga da Acri, città natale dell’autore. Kanafani nel 1948 era un bambino di dodici anni, fino a quel maggio «troppo piccolo per capire fino in fondo il senso di ciò che succedeva». Ma a Beirut tutto diventa chiaro, anche per un bambino. La sua famiglia ha perso tutto, sono riusciti a salvare solo «le arance», simbolo dei simulacri che i palestinesi hanno dovuto escogitare per salvare la memoria. L’essere strappati dal proprio mondo è una morte ancora più dolorosa per chi è scampato alla pulizia etnica e si trova a vivere nella diaspora. Al Kanafani bambino questo sradicamento è rivelato nel desiderio di morte del padre, nel suo istinto al suicidio:

«”Li voglio ammazzare, mi ammazzo voglio farla finita…voglio….”. Poi tacque. Quando guardammo nella stanza attraverso le fessure era disteso per terra, singhiozzante, coi denti che battevano mentre piangeva…nostra madre, seduta in un angolo, lo guardava disperata. Non capivamo granché, ma ricordo che quando vidi la rivoltella nera abbandonata per terra accanto a lui, capii ogni cosa e, come un bambino, che s’imbatte nell’orco, corsi verso la montagna fuggendo da casa, spaventato a morte».

La storia si chiude con la rivoltella e l’arancia avvizzita appoggiate sul tavolo, un’immagine che è insieme visione e previsione: la patria sarà sempre unita alle armi, rivolte da noi o contro di noi. In un altro finale scrive:

«Meglio morire. Ma le persone in generale non amano molto la propria [2] morte, così saranno costretti a pensare a qualcos’altro signore…».

Cosa può essere questo “qualcos’altro” se non la morte del nemico? Ciò non può ancora essere detto, la lucida razionalità rivoluzionaria e ancora lungi da venire. Egli si trova ancora nella palude della tragedia esistenziale del suo popolo. Il racconto appena citato s’intitola Oltre il confinee riecheggia un saggio comparso nel 1949 in Germania, dal titolo Oltre la linea. Questo scritto di Ernst Junger ha poi dato luogo a un dialogo con un altro dei maggiori pensatori tedeschi del Novecento, Martin Heidegger, sul tema del nichilismo. Si potrebbe dire che  Kanafani affronta lo stesso tema, ma la sua prospettiva, invece che partire da un approccio ontologico europeo, è onticamente fondata nel caso palestinese, per dirla in termini heideggeriani.

Dall’allucinazione di un commissario israeliano affiora il ricordo di una sua vittima, un prigioniero palestinese, che, nella sua accusa al sionismo, fornisce una descrizione fenomenologica del rapporto tra colonizzato e colonizzatore tanto sintetica quanto tagliente. Qua Kanafani spezza una delle equazioni che costituisce il fulcro della vulgata pro-palestina, ovvero quella secondo cui “esistere” è uguale a “resistere”:  

«[…]hanno cercato di sciogliermi come una zolla di zucchero in una tazza di tè bollente, Dio mi è testimone, per riuscirci hanno fatto uno sforzo immane. Ma nonostante tutto io esisto ancora… e la domanda continuava a echeggiare: e poi? Questo tipo di domande, signore, sono davvero strane, perché quando arrivano, persistono e se non si risponde non se ne vanno. Sì, e poi? Lasciamelo dire a voce bassa: sembra che non ci sia più un e poi?[…]hai sentito signore? Non c’è più un e poi? Mi sembra che la mia vita, la nostra vita, sia una linea retta che procede tranquilla e sottomessa, accanto alla linea della mia causa… ma le due linee sono parallele e non si incontrano».

Scambiare la mera esistenza con la resistenza è rischioso perché le due linee potrebbero non essere coincidenti, e questo è vero soprattutto alla luce del presente in cui la linea della causa appare sfumata, ed è evidente la mancanza di un poi, di un orizzonte ulteriore. La storia ha dimostrato che la vita e la causa non solo possono essere parallele, ma addirittura opposte, nel momento in cui, anche quell’esistenza strappata dall’annientamento dell’occupazione, potrebbero rientrare nel piano sionista dalla finestra[3]:

«Prima di tutto hanno un valore turistico: ognuno che arriva deve venire nei campi profughi e i profughi devono mettersi in fila e dipingere le loro facce di una pena ancora più intensa di quella vera e il turista passa, scatta fotografie e si rattrista un poco…poi tornerà al suo paese e dirà…dovete vedere i palestinesi prima che si estinguano!».

Il protagonista è però ancora “il palestinese” quale tipo umano creato dal livellamento dell’occupazione, che può attaccare la logica del sionismo ma è ancora incerto della propria, perché in fin dei conti è un folle, anche se la follia è una tappa obbligata per il recupero del senso:

«Mi hanno sbattuto in una cella profondissima per farmi confessare che si era trattato di un attimo di follia. Ma io, in quella cella, mi sono reso conto più che mai che quello era stato l’unico momento sensato di tutta la mia vita».

Il ritorno dalla follia al senso viene descritto in Ucciso a Mossul. Il protagonista Maruf – ispirato ad un amico realmente esistito di Kanafani – è inizialmente arreso al fatalismo che se interrogato sul voler tornare in Palestina risponde:

«Certo che vorrei…ti rispondo subito alla domanda che mi avresti fatto dopo la mia risposta…conosci la storia di Annibale? Quando attraverso le Alpi procedendo con le sue truppe dietro gli elefanti…bé, io non sono un elefante…gli elefanti siete voi. Quando attraverserete i confini della Palestina i sarò dietro di voi. Sarò un minuscolo scarafaggio all’ombra degli elefanti di Annibale».

Poi cambia di colpo, e decide di “guidare gli elefanti”, di passare dalle “retrovie degli scarafaggi” alla prima linea. Quando l’Io narrante gli chiede il perché di questa sua metamorfosi Maruf risponde:

«Niente…prima la falsità era sopra la verità sotto…poi tutto si è capovolto…la verità si è trovata sopra e la falsità sotto…».

La domanda, solo spostata, diventa:

«Ma a cosa si deve questo ribaltamento?».

Dopo questa risposta c’è il silenzio. Probabilmente il salto antropologico da uomo comune a rivoluzionario non si può spiegare, si può trovare la causa, ma la causa non dice nulla sul perché, e questo risulta ancora più evidente a uno sguardo retrospettivo. Molti infatti vedono una causa, innumerevoli cause, per cui lottare eppure non si staccano dalle retrovie, fino all’eterna ritirata. Passare dall’indifferenza, da una vita che si svolge come mero mantenimento dell’esistenza individuale,  alla dedizione totale per una causa, che esige il sacrificio di quella stessa vita così tenacemente conservata, è qualcosa di incredibilmente distante dalla logica. Capire come innescare questo salto, questo ribaltamento, è precisamente il punto di svolta o di arresto di ogni movimento rivoluzionario.

Nella sua risposta a Oltre la linea Heidegger scrive che Junger, nonostante abbia chiarito che il nichilismo non è necessariamente una malattia, adotta comunque un atteggiamento medico rispetto al problema; ma ciò, fa notare sempre Heidegger, trova la sua giustificazione nel giovane Nietzsche che chiamò il filosofo «medico della civiltà»[4]. Ora, da questa definizione di Nietzsche, possiamo renderci conto della profondità filosofica di Kanafani, Nel suo trattato sulla rivolta del 1936-1939, dal contenuto più prettamente politico, egli delinea il compito dell’intellettuale organico alla nazione; prima di sospingere il popolo alla rivoluzione deve depurarlo da tutte le storture morali e psicologiche quali fatalismo, arrendevolezza e sottomissione[5]. Questi chiaramente sono “mali” che ostacolano direttamente la politica, interferendo con la sua “fase attiva”.  Come abbiamo visto la riflessione letteraria del nostro completa quella strettamente analitica. Lo scrittore di Acri si fa carico anche dei “mali” più profondi, quelli che intaccano la “fase riflessiva”. Prima di condurre il suo popolo nella lotta si preoccupa di curarne le ferite, proprio perché senza la guarigione non ci può essere vittoria. La liberazione dell’individuo e di un popolo è irrealizzabile se si ignora la sua storia esistenziale esistenziali e il relativo trauma.

La raccolta degli Aranci tristi, nella traduzione italiana a cura dell’Associazione Amicizia Sardegna-Palestina, si apre con Oltre il confine e si chiude con Niente, che oltre a sembrare una risposta ci mantiene nell’ambito del nichilismo. Il protagonista, che sembra l’omologo di quello del primo racconto dall’altra parte della linea, è un Palestinese internato per aver sparato dal confine verso i territori occupati dall’entità sionista. I medici lo vogliono rinchiudere perché questo soldato sostiene di non aver provato “niente” quando ha sparato, vogliono imputare il suo gesto ad un esaurimento nervoso. Il malato non è d’accordo coi medici, innanzitutto sull’ubicazione del male:

«”È vero che è un esaurimento nervoso, ma non è qui…”.
“E dove allora?”.
Indicò il petto e disse con calma:
“Qui…”.
“L’esaurimento nervoso non colpisce lì…”.
“Chi l’ha detto questo?”.
“I medici…”.
“Sono pazzi”.».    

La  conclusione apre uno squarcio nella logica ufficiale e lo svelamento porta a un ribaltamento della verità:

«”Io sarei stato malato di questa cosa che ha a che fare con i nervi perché ho sparato di proposito, non è così?”.
“Esatto!”.

Si spezzarono altri fili della ragnatela e il nero insetto si diede da fare in preda alla follia mentre cercava di rammendare gli squarci. Continuò:

“Loro invece non sono malati di questa cosa che ha a che fare con i nervi perché non sparano di proposito, non è così?”.
“Certo, cosa vuoi dire?”.
“Cosa voglio dire? Bah! Niente…niente…”.».

Un artista si valuta dalla capacità di dire senza dire niente “di particolare” ma anche di dire il Niente. Kanafani è stato capace di fare entrambe le cose con assoluta maestria, riuscendo a stare tra le linee pur mantenendo la sicurezza e la coerenza della propria, data dall’obiettivo (hadaf) della liberazione totale della Palestina.

Note:

[1] P.60

[2] Corsivo mio

[3]

[4] Pp.112-113

[5] P.46


da qui

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