L’uccisione di una ragazza irachena da parte di
soldati USA e i doppi standard dell’occidente - Francesco Guadagni
Nei giorni scorsi, vi abbiamo parlato della vicenda della giovane
iraniana Mahsa Amini morta,
in circostanze ancora da chiarire del tutto, in seguito ad un alterco con agenti
della “Polizia morale”. Istituzioni, politici, cittadini iraniani chiedono
giustamente che si faccia quanto prima chiarezza e giustizia per questa
ragazza.
In seguito alla sua morte sono scoppiati dei disordini in varie città
dell’Iran. Qualcuno c’è sempre che approfitta della situazione per
destabilizzare in un momento delicato per il paese persiano sia per le
criminali sanzioni USA che incidono sulla popolazione che per il mancato
accordo sul nucleare.
In questi giorni, nel frattempo, sono scesi in piazza anche gli iraniani
che chiedono la fine dei disordini e delle violenze di coloro che hanno
manifestato in seguito alla morte di Amini.
L’occidente, con i suoi media e i suoi governi non hanno perso tempo per
condannare Teheran ed esercitare pressioni.
Un altro evento però mostra quanto sia pelosa ed ipocrita la solidarietà
tanto al chilo dell’occidente.
Forse nessun media mainstream, saremmo contenti di sbagliarci, ha riportato
la notizia che una ragazza irachena di 15 anni è stata uccisa a sangue freddo
martedì scorso, nei pressi della base militare statunitense ‘ Victory’ vicino
all'aeroporto internazionale di Baghdad.
La giovane studentessa e contadina, si chiamava Zainab Essam Majed
Al-Khazali. Secondo le prime ricostruzioni, è stata uccisa da un proiettile
vagante durante le esercitazioni militari statunitensi nella loro base militare
vicino alla prigione di Abu Ghraib dove innocenti iracheni, arabi e non sono
stati torturati e uccisi quando l’ex Il presidente degli Stati Uniti George
Bush diede il via libera all'occupazione dell'Iraq, con le conseguenze che
quelle popolazioni vivono ancora adesso.
I media mainstream, sebbene noti per sfruttare le narrazioni per rovesciare
governi sovrani e indipendenti non hanno mostrato il minimo senso di decenza
umana o empatia e nemmeno hanno chiesto un'indagine sull'accusa delle forze
statunitensi di aver compiuto uccisioni disumane di civili minorenni in terra
straniera.
Amini come Zainab meritano giustizia, allo stesso modo. Attenzione però,
all’occidente non importa nulla sia di Amini che di Zainab. Solo che Amini può
essere usata per perseverare i loro scopi colonialisti.
Masih Alinejad, l’Fbi e la
"rivolta del velo" (che parte da lontano) - Davide Malacaria
La
morte di Mahsa Amini ha suscitato una nuova ondata di proteste in Iran. La
donna sarebbe stata arrestata, torturata e picchiata dalla polizia a causa del
mancato rispetto della norma che impone il velo. Così la narrativa ufficiale.
In
tutto l’Iran si sono verificate manifestazioni di piazza contro il governo, che
hanno trovato come simbolo la rimozione del velo (l’hijab, che copre i capelli,
non quello integrale, che copre il viso, in uso in altri Paesi arabi).
Secondo
autorità di Teheran dietro le manifestazioni ci sarebbero le Agenzie straniere,
in particolare Washington, alla quale hanno rimproverato, in maniera legittima,
di piangere “lacrime di coccodrillo” per la sorte delle donne iraniane, mentre,
allo stesso tempo, con le sanzioni che stringono il Paese in una morsa di
ferro, le affamano (Irna).
L’ennesimo tentativo di
regime-change iraniano
Insomma,
sarebbe in atto un tentativo di regime-change, cosa che
Washington alimenta a minaccia da anni. Ne scriveva, ad esempio, James Dobbins
sul sito della Rand Corporation – organismo che ha stretti legami con la Cia –
criticando delle dichiarazioni rese in tale prospettiva dall’allora Segretario
di Stato Mike Pompeo.
Rigettando
l’ipotesi di dar vita a un regime change iraniano, Dobbins
scriveva: “La follia è a volte descritta come fare la stessa cosa ripetutamente
e aspettarsi risultati diversi. Promuovere il cambio di regime in Iran si
adatterebbe a questa definizione. Nel 2012, le rivolte popolari hanno rovesciato i governi di cinque paesi del Medio Oriente. Dopo
qualche esitazione, l’amministrazione Obama ha espresso sostegno a queste rivoluzioni e in un paio di casi ha anche
fornito supporto materiale. Sei anni dopo, Libia , Siria e Yemen sono ancora sconvolte da una guerra civile.
L’Egitto ora ha un governo ancora più repressivo di quello che il popolo ha rovesciato”. Solo la
Tunisia, perché meno interessante per l’America, ne è uscita non devastata.
Ma
tant’è. A quanto pare ci risiamo, con i soliti corollari: alle manifestazioni
di piazza dei ribelli rispondono quelle a sostegno del governo; alle violenze
dei ribelli risponde quella della polizia etc. Si contano vittime e non solo
della repressione, sul conto delle quali non è possibile alcuna verifica,
stante che le notizia riguardanti Teheran sono spesso distorte e che le fonti
governative sono di parte.
Tutto
questo per una morte che potrebbe non essere avvenuta come raccontano: un video
diffuso dalle autorità fa vedere quanto avvenuto alla stazione di polizia. Nel
filmato si vede Amini che si accascia dopo un diverbio acceso, ma senza alcun
contatto fisico, con un’altra donna, che dovrebbe essere in forza alla polizia
(il video si può vedere cliccando qui). Peraltro, poi l’altra donna accorre in suo aiuto.
Sulla
vicenda le autorità iraniane, compreso l’ajatollah Khamenei, hanno espresso
dolore e hanno chiesto di far chiarezza. Il capo della magistratura si è impegnato in tal senso.
Resta,
certo, la restrizione del velo, ma è pur vero che strumentalizzare tale vicenda
per dar vita a un regime-change non fa che incrementare
esponenzialmente la violenza nel Paese. Quanto avvenuto in Libia, Siria e Yemen
fa intravedere la devastazione di cui è foriera tale spinta.
Che ci
sia una spinta internazionale in tal senso lo indicano tanti fattori, tra cui
gli attacchi di cui sono state bersaglio le ambasciate iraniane. Attacchi si
sono registrati in Belgio, Svezia e Grecia. Arduo ritenere che si tratti solo di espatriati
inferociti, dal momento che tali azioni implicano un coordinamento, come anche
un certo lassaiz faire da parte delle forze di sicurezza
straniere che dovrebbero tutelare le sedi diplomatiche, come lamenta Teheran.
Né
l’America dà segno di essere indifferente a quanto accade, anzi: Washington ha
deciso di sostenere in tutti i modi la rete internet iraniana, che
Teheran aveva chiuso come hanno fatto in anni recenti altre nazioni interessate a tentativi di regime-change.
Per
sostenere la rete usata dai ribelli iraniani il Dipartimento di Stato si è
rivolto anche a Elon Mask e alla sua rete di satelliti
Starlink. Sul punto si tenga presente un
titolo di Politico: “UkraineX: come i satelliti spaziali di Elon Musk hanno
cambiato la guerra a terra”. Insomma, di fatto, gli Usa stanno trattando quanto
avviene in Iran alla stregua di una vera e propria guerra…
Masih Alinejad, l’Fbi e la
rivolta del velo
Ma
sulla genesi della rivolta del velo è più che istruttivo quanto si legge
sul New Yorker: “Donne provenienti da tutto l’Iran si stanno
togliendo l’hijab e gli stanno dando fuoco, prendendo in giro i teocrati dalla
barba grigia del paese, in un susseguirsi di scene drammatiche di una
popolazione che lotta per la libertà”.
“Di
tutte le cose che stupiscono di quanto sta emergendo nella Repubblica islamica,
forse il più notevole è il fatto che l’Iran sia stato portato a questo punto,
almeno in parte, da una madre di quarantasei anni, non finanziata, che lavora
in un rifugio dell’FBI a New York”.
“Masih
Alinejad, una giornalista iraniana che è stata condannata all’esilio tredici
anni fa, ha contribuito a galvanizzare le donne del paese, accumulando circa
dieci milioni di follower sui suoi social media e spingendole a distruggere il
simbolo più potente dell’apartheid di genere legalizzato del regime: l’hijab,
il copricapo obbligatorio per tutte le donne adulte”.
“La maggior parte dei seguaci di Alinejad vive in Iran,
il che la rende una delle voci più potenti del Paese. Dal 2014 ha lavorato
seguendo una formula semplice, dall’effetto devastante. Ha invitato le donne
all’interno dell’Iran a registrarsi mentre sfidano la regola dell’hijab e a
inviarle le prove”.
“Migliaia di donne hanno obbedito e Alinejad ha
pubblicato video e foto che mostrano i loro capelli su account di Instagram,
Twitter e Facebook. Quei siti sono stati bloccati dalla dittatura del Paese,
ma, facendo uso di reti private virtuali, molti iraniani li hanno visti
comunque. Milioni di persone hanno potuto assistere al coraggio dei loro
concittadini e vedere quanto ampiamente sono condivise le loro opinioni, cosa
che, nell’ambiente soffocante dell’Iran moderno, sarebbe altrimenti
impossibile”.
Così,
quando la settimana scorsa sono esplose le proteste, continua il giornale,
Alinejad “ha visto finalmente concretizzarsi anni di organizzazione”. Un tweet del
Ron Paul Institute riprende l’articolo del New Yorker corredandolo con una
bella fotografia della giornalista “non finanziata” accanto a un sorridente
Mike Pompeo.
Insomma,
una rivolta che parte da lontano, addirittura dal 2014. Poco da aggiungere, se
non che questo caos è scoppiato in concomitanza della riunione generale
dell’Onu, nella quale l’Iran ha ribadito la sua volontà di giungere a un accordo sul
nucleare con gli Stati Uniti.
Interessante,
sul punto, un cenno del New Yorker: “Alinejad appare raramente in pubblico.
All’inizio di questa settimana, ha guidato una folla per protestare contro
l’arrivo del presidente iraniano, Ebrahim Raisi , alle Nazioni Unite”.
In
questo clima infuocato, anche questo ennesimo tentativo per raggiungere
un’intesa sul nucleare verrà procrastinato. E se scorrerà sangue per le vie di
Teheran, sarà sotterrato definitivamente.
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