Julian Assange è tornato. Non nel modo rassicurante che piace al potere, ma in quello che più lo disturba: tornando a denunciare, nomi e fatti alla mano. Dopo anni di detenzione in una prigione britannica di massima sicurezza, ignorato mentre veniva logorato fisicamente e psicologicamente, oggi Assange è libero ma resta scomodo. Perché continua a fare il giornalista, non il testimonial della democrazia occidentale.
La sua
ultima mossa è una denuncia penale depositata in Svezia contro la Fondazione
Nobel. Non un gesto simbolico, ma un atto formale presentato contemporaneamente
all’Autorità svedese per i crimini economici e all’Unità per i crimini di
guerra. Trenta le persone indicate, tutte legate alla Fondazione, compresi i
vertici: la presidente Astrid Söderbergh Widding e la direttrice esecutiva
Hanna Stjärne. Le accuse sono tutt’altro che generiche: appropriazione indebita
aggravata di fondi, facilitazione di crimini di guerra e contro l’umanità,
finanziamento del crimine di aggressione.
Il cuore
della denuncia è l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2025 a María
Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana. Secondo Assange, non si
tratta di una scelta discutibile sul piano politico, ma di una violazione
diretta del testamento di Alfred Nobel, che destinava il premio a chi avesse
lavorato per la fratellanza tra le nazioni, la riduzione degli eserciti
permanenti e la pace. Qui, sostiene Assange, siamo esattamente all’opposto.
Le accuse
rivolte a Machado sono precise e documentate. Primo: istigazione pubblica e
reiterata all’uso della forza militare. Nel febbraio 2014, davanti al Congresso
degli Stati Uniti, Machado dichiarò che “l’unica strada rimasta è l’uso della
forza”. Non una frase isolata, ma l’avvio di una linea politica coerente. Negli
anni successivi, fino al 2025, ha continuato a invocare un intervento armato
contro il Venezuela, arrivando a sostenere che gli Stati Uniti potrebbero dover
intervenire direttamente.
Secondo:
legittimazione politica di crimini di guerra altrui. Dopo aver ricevuto il
Nobel per la Pace, Machado ha telefonato al primo ministro israeliano Benjamin
Netanyahu per congratularsi della conduzione della guerra a Gaza. Assange non
entra nel merito ideologico, ma giuridico: lodare pubblicamente operazioni
militari già oggetto di accuse internazionali significa fornire copertura
morale e politica a quei crimini.
Terzo: uso
strumentale del Nobel come scudo reputazionale. Secondo la denuncia, Machado
avrebbe immediatamente sfruttato l’autorevolezza del premio per rafforzare la
narrativa dell’intervento militare, trasformando il Nobel da riconoscimento
simbolico in strumento operativo. Non la pace come fine, ma la pace come
marchio da spendere per rendere accettabile una guerra.
Quarto:
integrazione consapevole nella strategia statunitense di cambio di regime.
Assange collega le posizioni di Machado alla linea dell’amministrazione Trump,
che descrive il governo venezuelano come una struttura criminale da abbattere.
In questo contesto, Machado non appare come un’oppositrice interna, ma come un
ingranaggio politico di una strategia esterna. Emblematiche, in questo senso,
le dichiarazioni rilasciate a Donald Trump Jr., in cui prometteva di aprire le
aziende e le risorse venezuelane agli Stati Uniti. Altro che autodeterminazione
dei popoli.
Quinto, e
più grave sul piano giuridico: concorso morale nel crimine di aggressione.
Assange non accusa Machado di aver combattuto una guerra, ma di aver
contribuito a crearne le condizioni politiche, mediatiche e morali. Nel diritto
internazionale, questo non è un dettaglio. La denuncia sostiene che
l’assegnazione del Nobel abbia rafforzato questa funzione, trasformando il
premio in uno strumento di facilitazione indiretta di un’aggressione armata.
Per questo
Assange chiede il congelamento immediato degli 11 milioni di corone svedesi
legati al premio e il ritiro della medaglia. Non una provocazione, ma una
conseguenza logica: se il premio viene usato in violazione del mandato
testamentario, quei fondi diventano, a suo avviso, il frutto di
un’appropriazione indebita.
Il silenzio
che circonda questa denuncia è coerente con la storia di Assange. Ieri ignorato
mentre marciva in cella, oggi ignorato mentre mette in discussione uno dei
totem morali dell’Occidente. Perché la sua accusa non colpisce solo Machado, ma
un sistema che distribuisce patenti di pace a chi giustifica la guerra, che
chiama “democrazia” ciò che conviene e “crimine” ciò che disturba.
Assange non
è un eroe né un martire. È un giornalista che continua a fare il suo mestiere:
mostrare documenti, collegare i fatti, smontare le narrazioni ufficiali. E per
questo resta l’uomo da rimuovere dal dibattito pubblico. Ma anche quello che,
ciclicamente, torna a ricordare una verità semplice e insopportabile: la pace
non si proclama, si pratica. E chi invoca i bombardamenti, per quanto premiato,
pacifista non è.
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