Nessun movimento di opposizione ha mai avuto in Italia la capacità di dare una continuità trentennale alle ragioni della propria lotta, e la recente e partecipata manifestazione dell’8 dicembre, ventennale dall’epico sgombero popolare nel 2005 del cantiere nella piana di Venaus, ne è la dimostrazione. Se duri trent’anni e prosegui, se ai nostri volti invecchiati si affiancano quelli dei più giovani – e molti sono nostri figli o nipoti – vuol dire che le ragioni della lotta non sono fuffa ma hanno radici motivate e ben salde.
Ma i media
di queste ragioni non parlano. E il giorno dopo la manifestazione non trovi
su La Stampa un’intervista a chi è partecipe
del movimento no Tav ma a chi l’ha abbandonato, come
Antonio Ferrentino. E allora alcuni chiarimenti vanno fatti. Cambiare
opinione è legittimo, ci mancherebbe altro. Ma quando si passa da una parte
all’altra della “barricata”, si dovrebbe avere la serietà di scegliere un
dignitoso silenzio o di occuparsi d’altro.
Diversamente, un’affermazione come «oggi non ha più senso
manifestare contro l’Alta Velocità» diventa sale sulle ferite aperte nelle
vite dei cittadini no Tav traditi – questo il termine
più gentile utilizzato in proposito – dal Masaniello pentito che quando, prima
di entrare in sintonia con Mario Virano (all’epoca Commissario di Governo
per l’Alta Velocità Torino-Lyon), era tra i punti di riferimento
del movimento no Tav, gridava al megafono, a Venaus nel 2005,
che neanche con l’uso dei carri armati avrebbero messo un chiodo in Valle di
Susa.
L’autore
dell’intervista all’ex presidente della Comunità montana è il giornalista
Andrea Bucci che, in un precedente articolo (La Stampa del 7
dicembre), aveva già collezionato lo scoop dei petardi
tirati ad altezza d’uomo contro le forze dell’ordine. Ora, se la balistica
non è un’opinione, di fronte a reti metalliche e intrecciate alte 4-5 metri e
orlate di filo spinato alla “concertina” (lo stesso filo spinato elicoidale
usato da Israele nel conflitto in Palestina), un petardo, che comunque non è
pericoloso come un lacrimogeno, se viene tirato ad altezza d’uomo, può, al
massimo, rimbalzare. Ma tant’è. Tutto serve per definire come violenza
immotivata e gratuita ogni azione contro i cantieri (e sono già quattro!) che
militarizzano aree della Valle di Susa. Nella stessa direzione vanno articoli
come quello recente di Alberto Giulini, sul Corriere della Sera,
che dedica più spazio alle dichiarazioni di
sindacalisti autonomi della Polizia che alle ragioni dell’opposizione
all’inesistente linea ad alta velocità tra Torino e Lyon. Sì, proprio inesistente perché
la Francia – aspetto fondamentale taciuto da media al servizio dei propri
editori più che di una una corretta informazione – non ha ancora elaborato
alcun progetto definitivo e tanto meno stanziato risorse per la costruzione di
una linea ad alta velocità in direzione Lyon, sì che l’alta velocità
terminerebbe comunque all’uscita del tunnel di base a Saint Jean de Maurienne. Non importa: troveremo probabilmente un altro illuminato ministro ai
trasporti – in realtà ce l’abbiamo già – che proporrà di accollarsi oltre ai
costi del tunnel di base che sarebbero spettati ai francesi, anche i tre quarti
dei costi della tratta in territorio francese!
Ma, tornando
all’intervista, c’è un altro aspetto importante da rigettare. Non è
assolutamente vero – come afferma Ferrentino («Non si è
detto nulla sul raddoppio del traforo del Frejus, del progetto della seconda
canna, e invece si vuol fermare la ferrovia») – che
il movimento no Tav non si sia opposto al
raddoppio del Frejus. La tesi, sostenuta in più occasioni
da La Stampa, non può essere sostenuta anche dall’ex presidente
della Comunità montana, visto che contro il raddoppio del tunnel abbiamo
marciato insieme, a Bardonecchia, prima della sua giravolta.
Il movimento
ha sempre individuato nel raddoppio del tunnel autostradale del Frejus un pericoloso
tassello della trasformazione del territorio valsusino in un’area di transito
penalizzante per chi in valle vive e per lavorare, dopo aver perso una dopo
l’altra le numerose realtà produttive locali, deve fare il pendolare oppure
emigrare in altre zone d’Italia o all’estero. Certo l’impegno è stato più
ridotto, ma non è difficile capire il perché. Innanzi tutto l’autostrada –
costruita con soldi pubblici e ovviamente poi privatizzata, nel rispetto della
linea “oneri pubblici e guadagni privati” – è stata presentata come una
superstrada non a pagamento e, dunque, imposta con l’inganno (mentre
l’elevata tariffa, tra le più care d’Italia, ne causa uno scarso utilizzo da
parte dei torinesi che prima la sostenevano e ora nei fine settimana, per
risparmiare l’elevato pedaggio, intasano le due statali della Valle). In
ogni caso, opporsi all’autostrada era impossibile dopo l’apertura del tunnel
del Frejus nel 1980, anno in cui nessuno ne immaginava le conseguenze
sul territorio valsusino. E, per evitare la contestazione nei
confronti del raddoppio del tunnel autostradale, i lavori di scavo sono
stati effettuati partendo dal lato francese. Per opporsi più duramente al
raddoppio (anch’esso imposto con l’inganno, perché presentato come canna di
sicurezza e non di transito per auto e Tir), sostenendo contemporaneamente due
fronti di lotta, poi, ci sarebbe voluto Nembo Kid, anche perché l’Alta Valle è
sempre stata più preoccupata a ricevere fondi dalla Regione per l’innevamento
artificiale che a programmare uno sviluppo urbanistico meno speculativo del
proprio territorio o curarsi dell’interesse generale della Valle.
Infine sono inaccettabili le dichiarazioni di
Ferrentino su Askatasuna («Il movimento è ormai gestito dai
centri sociali di Torino. Per Askatasuna l’opera è l’unico vero megafono per
ottenere visibilità») che, tra l’altro, riducono i
valsusini che manifestano contro la linea ad alta velocità a un insieme di
imbecilli, teleguidati da strategie altrui piuttosto che consapevoli
delle ragioni di una lotta che, senza alcune
giravolte, avrebbe potuto e
dovuto chiudersi già nel 2005. E sono particolarmente
sgradevoli in quanto fatte da chi, a suo tempo, non ne
disdegnava l’appoggio nei momenti più impegnativi dello scontro.
Askatusuna
non ha certo bisogno di difensori d’ufficio ma è grave la campagna di criminalizzazione
nei suoi confronti. Per alcuni è quasi un’ossessione. Come per l’ex
procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo che, anche dalla pensione,
insiste nei suoi assilli («La violenza è nel DNA di Askatasuna […] è una
associazione criminale», La Stampa, 1 dicembre), reiterando la
precedente affermazione secondo cui «dal punto di vista della criminalità il
distretto giudiziario del Piemonte, tra mafie, antagonisti e No Tav “è un
inferno”» (Ansa, 13 settembre 2024). Poco manca che il centro sociale venga
accusato anche del recente terremoto di magnitudo 7,5 che ha colpito il
Giappone e il movimento no Tav del conseguente rischio tsunami. Ma cosa
dovrebbe fare un centro sociale? Limitarsi a organizzare tornei di ping
pong e non essere partecipe delle lotte che manifestano il crescente
disagio sociale delle periferie (come è considerata la Valle di Susa rispetto
alla Città Metropolitana)? Concludo, e ammetto che queste righe sono scritte
con molta rabbia, tipo L’avvelenata di Guccini. Stranamente –
si fa per dire – gli operai dell’Ilva in lotta per la legittima difesa del
posto di lavoro che hanno assediato la Prefettura di Genova, battuto i caschi
sulle reti, gridato frasi non propriamente gentili verso i poliziotti, a cui
hanno rilanciano i candelotti lacrimogeni, e, infine, abbattuto con una
gigantesca pala meccanica parte delle reti metalliche a protezione della zona
rossa, non vengono caricati. Evidentemente è più facile manganellare i giovani
o giovanissimi studenti, come più volte è avvenuto (non solo ma) in particolare
a Torino, che affrontare operai delle acciaierie che hanno ben altra esperienza
e forza fisica.
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