Lo aveva già detto Oxfam, ma ora lo ha sottolineato anche Joseph Stiglitz
per conto del G20: non è possibile combattere i cambiamenti climatici
se non combattiamo le disuguaglianze economiche perché è dimostrato che i
maggiori emettitori di anidride carbonica sono i ricchi, ma a pagarne le
conseguenze sono i più poveri. Un disaccoppiamento che vale non solo a
livello geografico, ma anche sociale inteso come rapporto trasversale fra
classi.
Da un punto di vista geografico i metereologi hanno appurato che le
conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici le stanno subendo le regioni
più povere, in particolare l’Asia meridionale e l’Africa Subsahariana. Con
meccanismi opposti. In Asia per eccesso di piogge, in Africa per la loro
assenza. Nel 2022 il Pakistan venne colpito da una vasta inondazione che
provocò quasi 2mila morti e perdite per oltre 15 miliardi di dollari, di cui
cinque attribuibili al settore agricolo. In Africa, invece, nella regione del
Sahel il problema è la siccità. Paesi come Mali, Niger, Sudan, Somalia, negli
ultimi anni hanno registrato cali di produttività agricola fino al 40% a causa
della mancanza d’acqua. La riduzione dei raccolti agricoli ha come effetto
immediato la fame, perché in Africa, come in molti altri paesi del Sud del
mondo, una percentuale importante di famiglie pratica ancora l’agricoltura di
sussistenza, ossia vive direttamente di ciò che produce. E quando non
c’è più da mangiare e da bere, non rimane che andarsene. Il dramma degli
sfollati per cause naturali destinato a peggiorare negli anni a venire. La
Banca Mondiale calcola che da qui al 2050, oltre 216 milioni di persone
potrebbero trovarsi costrette a migrare verso le città o i paesi limitrofi per
sfuggire ai disastri provocati dai cambiamenti climatici. E non solo nei paesi
del Sud, ma anche in quelli del Nord come testimonia l’Istituto
norvegese Internal Displacement Monitoring Centre. Dei 22 milioni di sfollati
per incendi, tifoni e allagamenti registrati nel 2024, ben sei appartengono
agli Stati Uniti a causa dell’uragano Milton. Ma c’è da stare certi che pur
trattandosi del paese più ricco del mondo, a essere colpite sono state le fasce
più povere. Intanto perché i ricchi cercano di evitare le località più
rischiose e quand’anche dovessero subire dei danni avrebbero i mezzi per
risollevarsi rapidamente.
Purtroppo per noi, i ricchi hanno anche i mezzi per condurre vite
così lussuose, da emettere quantità stratosferiche di anidride carbonica.
Quanto è successo a Venezia nel giugno 2025 ne è un esempio. Per tre giorni la
città venne stravolta dalla presenza di Jeff Bezos, patron di Amazon e terzo
individuo più ricco del mondo, che aveva invitato oltre duecento magnati per
celebrare il suo matrimonio. Molti ritennero l’evento scandaloso per la
montagna di soldi spesi, all’incirca 50 milioni di dollari, ma altri si sono
concentrati sul tasso di inquinamento prodotto. Gli invitati più facoltosi
avevano usato i propri aerei privati per unirsi ai festeggiamenti, tant’è che l’aeroporto
di Venezia registrò l’atterraggio di ben 90 jet provenienti da ogni parte del
mondo. Aerei che mediamente producono due tonnellate di anidride
carbonica per ogni ora di volo, una quantità che rapportata al basso numero di
passeggeri trasportati li rende da cinque a quattordici volte più inquinanti
dei normali aerei di linea. L’organizzazione statunitense International Council
on Clean Transportation ha appurato che nel 2023 sono stati effettuati tre
milioni e mezzo di voli da parte di jet privati che complessivamente hanno
bruciato oltre sei milioni di tonnellate di carburante per un totale di
anidride carbonica prodotta pari a 19,5 milioni di tonnellate. Considerato che
nell’Unione Europea le emissioni procapite annuali corrispondono a 10,7
tonnellate, nel 2023 i jet privati hanno emesso la stessa quantità di
anidride carbonica prodotta in dodici mesi da 1,8 milioni di europei.
Uno studio pubblicato nel 2023 da Oxfam ci informa che la responsabilità
per l’inquinamento prodotto dalla CO2 è profondamente differenziata non solo
per aree geografiche, ma soprattutto per livello di ricchezza. Il 10%
più ricco della popolazione mondiale, è responsabile del 50% delle emissioni
totali, con l’1% di cima che ne emette, da solo, il 16%. Il 50% più povero
è responsabile appena dell’8%, mentre il 40% intermedio si intesta il rimanente
42%. Considerato che per impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre
1,5 gradi centigradi, nessuno di noi dovrebbe emettere più di 2,8 tonnellate di
CO2 all’anno, si scopre che mentre il 50% più povero non ne emette neanche una
tonnellata, il 40% intermedio ne emette il doppio del consentito, mentre il 10%
più ricco ne emette nove volte di più e l’1% di cima addirittura ventisette
volte di più. Per non parlare dei top 20 miliardari che con 8.000 tonnellate a
testa sono sopra al consentito di oltre 2.800 volte. Quote che diventano ancora
più scandalose se prendiamo in considerazione anche le emissioni derivanti dai
loro investimenti in settori altamente inquinanti come gas, petrolio, acciaio,
cemento.
Il paradosso della situazione è che mentre contribuiscono così pesantemente
al degrado del pianeta, i superricchi pensano di mettersi a posto con
l’umanità donando qualche milione di dollari per attività filantropiche
destinate al miglioramento ambientale. Bezos, ad esempio, dopo aver fondato
il Bezos Earth Fund per la difesa del clima e della natura, si è impegnato a
finanziarlo con 10 miliardi di dollari entro il 2030.
Ma la vera strada da intraprendere per arrestare i cambiamenti
climatici è quello di adottare stili di vita meno inquinanti. Un passo
che i ricchi faranno solo quando avranno meno soldi da sperperare. Per questo
tutti coloro che si battono per la difesa del pianeta sostengono che per
vincere la battaglia climatica è indispensabile applicare serie politiche di
redistribuzione della ricchezza. Che tradotto significa tasse più alte sui
redditi e i patrimoni delle classi agiate con contemporaneo utilizzo dei fondi
raccolti in due direzioni. Il primo, la cooperazione internazionale per aiutare
le popolazioni più povere a superare le loro difficoltà. Il secondo,
intervenire internamente per garantire maggiori servizi in campo sociale,
sanitario e dei trasporti, necessari per permettere anche alle fasce più deboli
di affrontare la transizione ecologica senza eccessivi scossoni. Questo,
in fondo, era il sogno di Alex Langer quando diceva che la conversione
ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile.
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