A Roma è quasi impossibile trovare un bagno pubblico quando serve (figuriamoci uno funzionante e minimamente accessibile). Un problema che rischia di peggiorare in maniera esponenziale in vista del Giubileo nella Capitale. Per questo Fulvio Abbate lancia il Comitato per il ritorno dei vespasiani e fa un appello quasi fisiologico, nel nome della vescica collettiva del popolo: “Fate presto”
Ridateci i vespasiani! Esattamente i cessi
pubblici. E fate presto, rimetteteli prima possibile. Mancano al paesaggio cittadino, così come le
edicole. Sono le nostre stesse vesciche, i nostri stessi sfinteri a pronunciare
con urgenza questo “civile” appello politico. La richiesta, sappiatelo, muove
da Roma. Può essere tuttavia estesa con altrettanto vigore fisiologico all’intero
territorio nazionale, l’intero Stivale ove tale servizio si mostri assente o
abbattuto; isole comprese, anche le minori.
Restando nel particolare cittadino a noi più prossimo, occorre sapere che
nella prospettiva davvero imminente del prossimo Giubileo, pensando infatti
alle nostre persone, sempre avendo cura delle vesciche, degli sfinteri
minacciati dall’assenza di bagni pubblici adeguati, nei giorni scorsi, chi
scrive, residente romano quarantennale, ha così deciso di dare vita al Cprv.
Leggi: Comitato per il ritorno dei
vespasiani. Bene pubblico,
bene comune, tra più necessari e “urgenti” – ripeto: urgenti - tra
i cosiddetti diritti minimi di cittadinanza.
Da decenni l’Urbe ne è infatti sprovvista. Se ne intuisce
drammaticamente l’assenza, non necessariamente dalla prospettiva, in bermuda,
dei turisti temporanei: borraccia, zaino e, pensando ai visitatori delle
meraviglie monumentali venuti dall’estero: “bonnie hat” tattico per ripararsi
dal sole e la calura, come già le truppe canadesi che liberarono l’Italia, tra
gli altri, dai nazifascisti.
L’ultimo pubblico ricordo che trattengo, sempre in tema di vespasiani, ne
mostrava sicuramente due,
troneggianti, rassicuranti, ciclopici, di cemento precompresso d’epoca littoria,
razionalismo non meno precompresso, una forma assimilabile agli elmetti “Mod.
Adrian” della Grande Guerra che campeggiano nel simbolo delle associazioni
combattentistiche e dei reduci e ancora nello stemma di Sabaudia, laggiù
nell’“Agro redento”; sovranismo vescicale, appunto. Presenti sul lungotevere in corrispondenza del
“Palazzaccio”. Dove ora ha sede la Cassazione, un tempo era il tribunale
cittadino, costruzione spettrale, concepita fin nelle sue lesene e nel corredo
di statue notarili come sentinelle per incutere timore al vero o presunto reo.
In entrambi i manufatti, tracciata con vernice notturna, figurava una scritta
ingiuriosa contro un presunto avvocato e le sue presunte abitudini intime.
Parole ignobili, delittuose, che tuttavia facevano parte dell’insieme
segnaletico, decisamente letterario, cittadino. Insieme al volto all’ignoto
avvocato Roma ha perso traccia negli ultimi decenni d’ogni necessario
vespasiano, orinatoio, pubblico cesso o cacat*io, o che dir poeticamente si
voglia.
Ripeto, ignoriamo la sorte del vilipeso avvocato, se davvero costui sia mai
esistito, se davvero abbia sempre costui mai indossato davvero una toga con
scarsi profitti, condannando per imperizia i clienti a pene inclementi, l’unica
certezza rimasta, tuttavia, lo si è detto, mostra semmai l’assenza dei
vespasiani, svaniti, abbattuti, cancellati,
forse per ragioni igieniche, forse per dare credito e ristoro al decoro pubblico, salvare le narici del passante dal fetore, per impossibilità da parte
dell’azienda preposta alla monnezza di averne cura, ritenuti magari
luoghi, tane, antri maleodoranti destinati ad atti peccaminosi imperdonabili,
irricevibili sotto il cielo che un passo oltre inquadra la cupola della
basilica di San Pietro. Un’operazione di polizia-pulizia che evidentemente non
ha mai fatto caso ai versi orfici del poeta Sandro Penna che così li
riassumeva: “Nel fresco orinatoio della stazione sono disceso dalla collina
ardente. Sulla mia pelle polvere e sudore m'inebbriano. Negli occhi ancora
canta il sole. Anima e corpo ora abbandono fra la lucida bianca porcellana”.
Ora, a dispetto d’ogni plausibile bisogno di igiene, nel tempo, lo stimolo di orinare e defecare è
rimasto intatto, immutato nel cuore della razza umana. Altrettanto
intatti, richiedenti e pressanti gli organi che consentono le funzioni
fisiologiche.
Il premio Nobel Dario Fo, in un suo spettacolo assai applaudito un tempo, attribuiva l’esistenza “tecnica” d’ogni sfintere al malumore, peggio, al risentimento dell’Altissimo dinanzi all’osceno peccato originale. Se solo Adamo ed Eva non avessero malauguratamente colto la mela dall’albero delle origini, forse, il c*lo non recherebbe un foro, così come, idem, il caz*o; sarebbero rimaste superfici sferica piene, e la vescica stessa mai stata creata.
Un forum presente in rete prova a dare risposte
circa la loro assenza. Gatto Magico, qualificatosi come ex operaio, ritiene di conoscere le
ragioni della loro scomparsa: “Li hanno fatti chiudere i proprietari dei bar
per obbligare la gente a fare le consumazioni”. Gli fa eco il signor Corrado
Gorla, pronto a sottolineare il risvolto repressivo, la minzione negata: “È
anche vietato pisciare nei fossi o dietro gli alberi, condannabile da norme
giuridiche. In pratica è vietato aver voglia di urinare”.
Anni fa, su una bancarella nei pressi del Pantheon, ho avuto modo di
trovare una pubblicazione, un
libricino di modesto formato, senza indicazione editoriale né data, che li
censiva tutti, proprio i vespasiani di Roma, così come il compositore
Ottorino Respighi ha fatto con i pini, quartiere per quartiere, zona per zona,
perfino Ostia, oltre i suoi bomboloni alla crema, poteva vantarne certamente
alcuni. Vi erano citati anche quelli che hanno avuto evidenza cinematografica.
In piazza degli Zingari, rione Monti, non lontano da via Panisperna, celebre
per la scuola di fisica teorica che negli anni Trenta raccoglieva intorno a
Enrico Fermi un gruppo di scienziati italiani, quasi tutti molto giovani, la
cui principale scoperta riguardava la proprietà dei neutroni lenti che diede
avvio infine alla realizzazione della bomba atomica, c’era modo di ammirare un
esempio di vespasiano che appare anche in una scena del film “La banda degli
onesti” con Totò, così come a Trastevere, in via San Michele, Pasolini ha
mostrato un vespasiano, in ghisa, accostato al muro perimetrale della Manifattura
tabacchi: è una scena di “Accattone” dove Balilla, coadiuvato dal Cartagine
finge di orinare adocchiando un camion di salumi di cui presto impossessarsi.
Il tentativo lodevole eppure insufficiente di introdurre altri vespasiani, modelli più moderni, futuristici, automatizzati, accessoriati, attraverso i quali accedere introducendo una moneta nell’apposita fessura, si è rivelato infine fallimentare, forse per assenza di risorse, cura o indifferenza all’intera questione da parte dell’amministrazione pubblica, in questo caso capitolina.
Tra il quartiere Testaccio e l’Aventino, in viale Manlio Gelsomini, c’era
modo di ammirarne un modello di forma cilindrica, d’acciaio, simile
all’org*smometro che appare nel film “Il dormiglione” di Woody Allen. Il rischio
di rimanere prigionieri, impossibilitati a uscirne dopo averne fatto uso lo
abbiamo provato sulla nostra stessa pelle, per non citare l’assenza di un
necessario rotolo di carta igienica.
Il Comitato, innalzando l’antico libricino come
fosse vangelo, attende con urgenza una risposta dirimente. Fate presto:
l’urgenza chiama, impossibile trattenersi oltre.
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