Sono già in
circolazione i primi sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani al
preannunciato referendum sulla legge di riforma costituzionale dell’assetto
della magistratura. I sondaggi mostrano una prevalenza del SI di oltre 10
punti. Questo pronostico in realtà non deve impressionare perché nel referendum
costituzionale, nel quale non c’è quorum, quello che conta è il numero degli
elettori dell’uno e dell’altro schieramento che si recheranno effettivamente a
votare. La falsa denominazione della riforma come separazione
delle carriere propone un tema astruso per la gran parte del corpo
elettorale che, nel referendum sul tema che si svolse il 12 giugno del 2022
vide una scarsissima partecipazione al voto. L’affluenza alle urne fu
appena del 20% e votarono Si a un quesito illeggibile, divulgato come
separazione delle carriere, appena 5.661.880 elettori. Nel prossimo referendum
il corpo elettorale sarà chiamato a pronunciarsi col voto su questioni tecniche
relative all’ordinamento giurisdizionale che per la gran parte dei cittadini
risultano incomprensibili. Come fa il cittadino comune ad orientarsi sulla
separazione delle carriere, sulla divisione in tre del Consiglio Superiore
della magistratura, sulla scelta per sorteggio dei membri togati di tali
organismi?
Per poter
effettuare una scelta il giorno del voto gli elettori dovranno
necessariamente affidarsi all’interpretazione autentica della riforma, e agli
effetti che potrebbe produrre, come ci vengono prospettati dai suoi artefici.
Ha cominciato la presidente del Consiglio Meloni che, di fronte alla bocciatura
da parte della Corte dei Conti della delibera CIPESS sul Ponte dello Stretto,
ha reagito stizzita qualificando il provvedimento come: «l’ennesimo atto di
invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento» e ha
precisato che la riforma costituzionale della giustizia rappresenta «la
risposta più adeguata a una intollerabile invadenza». Il concetto che la
riforma serve a bloccare l’invasione di campo della magistratura nelle scelte
del potere politico è stato maggiormente specificato dal sottosegretario alla
presidenza Mantovano: «Oggi c’è il blocco delle espulsioni grazie a
decisioni giudiziarie, c’è il blocco della sicurezza, della politica
industriale che voglia raggiungere certi obiettivi, si pensi all’Ilva grazie a
decisioni giudiziarie. C’è un’invasione di campo che deve essere ricondotta». Ha
ulteriormente chiarito gli effetti desiderati della riforma il ministro Nordio
quando, in un’intervista al Corriere della Sera ha dichiarato:
«Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che
questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al
governo». In altre parole, una magistratura addomesticata
gioverebbe a qualunque maggioranza politica.
Al di là di
tutti i tecnicismi, il senso della riforma è quello di impedire che la
magistratura possa fare un’invasione di campo nelle scelte del Governo,
anche laddove quelle scelte riguardano settori suscettibili di impattare
diritti fondamentali della persona come la salute, la libertà del dissenso, il
diritto di essere salvati per i naufraghi. Secondo questa concezione la
magistratura deve tutelare i diritti ma non può spingere questa tutela fino al
punto di interferire con le scelte della politica.
A questo
punto bisogna chiedersi qual è il modello ideale di giustizia a cui
aspirano i riformatori nostrani? C’è un paese che nella sua
Costituzione assicura la massima protezione alla dignità di ogni persona
(articolo 51: «La dignità è un diritto di ogni persona che non può essere
violato»), bandisce la tortura (articolo 52), riconosce come inviolabile la
libertà personale e garantisce in modo scrupoloso i diritti dell’imputato
(articolo 54: «La libertà personale è un diritto naturale che è tutelato e non
può essere violato. Salvo i casi di flagranza di reato, i cittadini non possono
essere fermati, perquisiti, arrestati […] se non in base a un mandato di
arresto giudiziario […]. Tutti coloro la cui libertà è stata limitata devono
essere immediatamente informati dei motivi che ne hanno determinato la
limitazione, […] e tradotti dinanzi all’autorità inquirente entro ventiquattro
ore». È persino prevista in Costituzione l’istituzione di una sorta di
Tribunale della libertà: «Coloro che hanno subito una limitazione della libertà
hanno diritto di ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria. La sentenza deve
essere emessa entro una settimana da tale ricorso, altrimenti il ricorrente
deve essere immediatamente rilasciato». La Costituzione detta anche le norme
sul giusto processo (articolo 55: «Tutti coloro che sono arrestati, detenuti o
hanno la libertà limitata devono essere trattati in modo da preservare la loro
dignità. Non possono essere torturati, terrorizzati o sottoposti a coercizione.
Non possono essere danneggiati fisicamente o mentalmente. […] Ogni violazione
di quanto sopra costituisce un reato e il colpevole sarà punito a norma di
legge»). Ovviamente questa Costituzione riconosce formalmente l’indipendenza
della magistratura (art. 184), istituisce un Consiglio Superiore presieduto dal
Capo dello Stato (art. 185); come la Costituzione italiana, prevede che i
giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 186). Ma le norme che
disciplinano il potere giudiziario svuotano di contenuto l’indipendenza
attribuendo al Capo dello Stato il potere di nominare i vertici degli organi giudiziari. Questo
paradiso dei diritti ha un solo neo: si tratta dell’Egitto.
Com’è
possibile che in un paese con una Costituzione così “garantista”, un giovane
come Giulio Regeni venga arrestato segretamente, torturato e ucciso e che i
suoi assassini vengano protetti fino al punto che sia negata all’autorità
giudiziaria italiana la possibilità di citarli in giudizio? La risposta è semplice. In
quel paese l’indipendenza è stata taroccata per cui non si
consente alla magistratura di fare invasioni di campo o di ficcare il naso
nelle scelte della politica che riguardano la “sicurezza” del potere politico.
L’esperienza egiziana dimostra che tutte le carte dei diritti, anche se
fondate su Costituzione, sono carta straccia in assenza di un potere
giudiziario realmente indipendente dal potere politico.
L’intento di
Giorgia Meloni di addomesticare l’esercizio della giurisdizione per renderlo
funzionale alle scelte politiche della maggioranza ha un impatto immediato
sulla sicurezza dei diritti dei cittadini. Si possono fare tanti esempi. Quello
più eclatante è rappresentato dai fatti del G8 di Genova del luglio
2001, quando il nuovo Governo di destra al potere sperimentò un nuovo modello
di gestione dell’ordine pubblico. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio,
circa 300 agenti di polizia fecero irruzione nella scuola Diaz-Pertini, dove
erano accampati i manifestanti, sostenendo di cercare i black bloc responsabili
di devastazioni in città. Sottoposero tutte le persone che dormivano nella
struttura a un violento pestaggio che provocò lesioni gravi e gravissime,
arrestò 93 persone e falsificò le prove per giustificare il blitz. Amnesty
International definì l’episodio come «la più grave sospensione dei diritti
democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale». Questo
nuovo modello di gestione dell’ordine pubblico, che uno dei suoi
artefici (il vicequestore Michelangelo Fournier) qualificò come
“macelleria messicana” (forse sarebbe più esatto definirlo modello
egiziano) fallì miseramente. Tutte le persone arrestate furono
immediatamente liberate dalla magistratura ligure. La Procura incriminò 25
funzionari e dirigenti di polizia, che poi furono condannati, con sentenza
definitiva della Cassazione del 5 luglio 2012 per falsi ideologici e calunnie
(nessuno fu condannato per le violenze dirette poiché i reati di lesioni nel
frattempo si erano prescritti). I fatti di Genova non si sono più ripetuti per
la semplice ragione che il potere politico non può garantire l’impunità per
fatti simili fin quando resiste la garanzia di un potere giudiziario
indipendente. Taroccare l’indipendenza della magistratura è una via che
ci conduce dritti in Egitto.
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