domenica 28 dicembre 2025

Pasolini o dell’alterità del comunismo - Sergio Labate

Prologo.

Ultimamente sono annoiato dalla maggior parte delle animate discussioni culturali che attraversano il nostro paese, tanto quanto sono commosso a immaginare – che è una delle poche cose che si può fare davvero, coltivare l’empatia degli assenti – la sostanza storica delle parole lasciateci in eredità da coloro che hanno nutrito la nostra generazione. “Sostanza storica”: parole pubbliche che erano fatte di corpi e di sostanze materiali. Questo erano gli intellettuali, non attori di un reality show ininterrotto chiamato “politica”, ma persone che si scontravano, venivano al dunque e, in ogni caso, nelle parole che mettevano al mondo ne percepivi le viscere, il sangue, la nuda connessione tra le vite private e le utopie pubbliche. Intellettuale era chi provava a discendere negli inferi della propria vita intima per risollevare non solo se stessi, ma quante più persone possibili verso una forma di vita comune, quella che riguarda tutti e non solo chi ne sussurra le parole, ne inventa le direzioni. L’intellettuale come colui che trova parola nel disorientamento del mondo, così mi pareva questo mestiere di scrivere e insieme di vivere.
Sarà per questo che anche l’anniversario di Pasolini mi è parso un evento sospeso tra due mondi, letteralmente. Che poi erano già quelli che intuiva lui stesso: uno 
smarrito per cui non resta che un congedo che non riusciamo a concederci e l’altro che è giunto tra noi e che fingiamo di non vedere per non soffrire di ciò che annuncia, del soffio che sbatte le porte e frantuma i vetri e mette a soqquadro la nostra acquietata coscienza borghese. Non è cambiato nulla, dopo cinquant’anni. Ancora lo facciamo abitatore di due mondi che si sfiorano ma non si amano, si succedono ma non si riconoscono, si sono nutriti vicendevolmente ma fingono di non dover nulla l’uno all’altro.
Vale a destra, che tira Pasolini per la giacca come una figurina da possedere, un ombrello sotto cui ripararsi, e se anche siam fascisti, l’importante è non prendere la pioggia. Ma vale anche a sinistra, quella sinistra che usa Pasolini per rafforzare la coscienza di una superiorità imperitura, una vera e propria legge della natura, del resto mai potrebbe essere legge della storia visto che la storia ci è sfuggita di mano e sta andando a grandi passi verso tutt’altra parte. Ma noi accontentiamoci di stare al calore del nostro mondo antico e che importa se tutti gli oppressi stanno ormai senza rifugio e senza parole e il loro inferno è rimasto uguale, senza nemmeno più poter nutrire la speranza che un tempo qualcosa o qualcuno rappresentava per loro. Gli oppressi, l’unico vero e insensato amore di Pasolini. Amore non d’intimità ma d’alterità. Come vedremo subito adesso che il discorso può tornare quel che è, una dissimulazione dell’amore che lo muove. Quel che è per molti e per me, quel che non è mai stato per lui.

C’è un discorso di Pasolini che appare quello di un fantasma, di uno spettro. Lo legge Vincenzo Cerami due giorni dopo la morte del poeta. Siamo al congresso del Partito radicale, che celebra i trionfi che avrebbero costruito la sua epica. Siamo all’inizio di novembre 1975. Pasolini non c’è più, è già uno spettro. Ha avuto tempo e modo di scrivere quelle parole, ma la contumacia a cui il destino le condanna è una metafora di un modo d’interpretare il nostro presente che il suo pensiero rappresenta. È questo ciò che mi sconvolge di più rileggendolo ancora adesso: la lucidità rispetto al (nostro) tempo presente, a partire dal privilegio di essere assente. Chissà se questa lucidità in contumacia è l’unica possibile per un intellettuale: se la lucidità non sia davvero solo ciò che appare a cose fatte. E vi sarebbe comunque di che discutere, sul fatto che la lucidità possa essere una dote pasoliniana, di un autore che è sempre parso provocatore, viscerale, irriverente, complicato, inaspettato. Niente più della sua scrittura mi appare sideralmente lontana da ogni more geometrico, da ogni evidenza e pulizia dello sguardo. Come sia possibile che in questa scrittura sempre impaziente vi sia stata tanta lucidità, anche politica, io non riesco davvero a spiegarlo. Per questo vorrei proporre di tornare un istante a quelle parole di uno spettro e a quell’evento. Facciamo quel che Pasolini ha fatto – per fortuna nostra – raramente: andiamo con ordine.

Pasolini tiene a presentare la propria alterità: non va a parlare con i radicali perché è a loro prossimo, ma perché è da loro altro. La sua presentazione è nota e suona, in contumacia, quasi come un testamento politico: «Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota Partito Comunista Italiano». Eccola l’alterità di Pasolini, quella di un comunista. Che marca la distanza persino da tutto ciò che oggi appare troppo radicale, quasi intollerabile agli occhi della gente che dovrebbe rappresentare la sinistra. Pochi di loro si definirebbero ancora progressisti, certamente nessuno socialista. Se lo fa il sindaco di New York, viene considerato un potenziale sovversivo. È ovvio, lo so: quel riferimento al socialismo va contestualizzato. Siamo in Italia, nel 1975 e il Psi si sta imponendo con tutta la prepotenza del suo riformismo a uso e consumo del neocapitalismoUn mix di potere e consumo e, soprattutto, la presunzione (del tutto corretta, purtroppo e col senno del poi) che la rivoluzione potesse fare la fine della locomotiva cantata da Guccinideviata su un binario morto, quello in cui abbiamo barattato il sogno per tutti in un sogno che riguardava soltanto l’io, l’universalismo delle classi con l’individualismo che avanzava nelle sembianze di un’emancipazione e le promesse di cambiare non più il mondo ma la nostra vita individuale. Non più il sol dell’avvenire ma la casa di proprietà e le televisioni e tutto quel che è venuto dopo e non smette ancora di accadere. Ma è proprio questo il punto: tutto quello che è venuto dopo, anche a sinistra, sembra aver trattenuto in eredità questa sbiadita promessa falsa che il neocapitalismo promuoveva e i socialisti italiani imponevano. Non il sogno di un marxista che vota Pci, ma l’illusione che gli oppressi si potessero elevare tramite la privatizzazione del mondo.

Non è che un istante e siamo già nel tempo nostro. Dove certo giunge La Russa a celebrare il Pasolini conservatore, ma sinceramente mi pare solo folklore, non cultura. Mentre ciò che mi appare imperdonabile sono i Veltroni, i Napolitano, i Fassino, quelli che si autoproclamano eredi legittimi e nessuno mai si potrebbe far sfiorare dal dubbio che non lo siano. E che questa privatizzazione del mondo, questo cedimento di un’intera tradizione, l’hanno perseguiti così sistematicamente e violentemente da costruire una trappola con i mezzi e le aspettative che appartenevano al bisogno di trovare una via d’uscita da ogni trappola. Quella cosa che Pasolini rivendica e chiama ancora Comunismo. Chi ha tradito davvero Pasolini? Chi lo strumentalizza pallidamente e senza crederci nemmeno lui o chi aveva il dovere di leggerlo e ha preferito dimenticarlo per realizzare alla perfezione il mondo sciagurato da lui prefigurato? Pasolini sapeva la differenza che passa tra un comunista e un radicale, un progressista, un socialista. Sapeva che ciò che li distingue è un’alterità inquieta e irriducibile.

È a questo punto della storia che quel discorso in contumacia appare così vividamente attuale da far male. Perché, davvero, Pasolini aveva capito tutto non solo della mutazione antropologica ma anche della mutazione politica (soprattutto, aveva intuito che sono la stessa cosa). E forse già allora – forse, perché il suo segretario era Berlinguer, sulla cui eredità politica a me risulta difficile prendere posizione – aveva capito che quell’estrema, ultima dichiarazione d’amore nei confronti del Pci avrebbe pagato lo scotto di una doppia contumacia: del poeta ormai assente ma anche del Pci già votato alla propria dissoluzione, pronto a prendere le vesti del suo contrario, come accadrà qualche decennio dopo. Pronto a cedere la propria alterità per diventare come i radicali, i socialisti, i progressisti. E, così, perder definitivamente se stesso. Non posso seguir tutto il discorso (si legge negli Scritti corsari, si trova facilmente anche in rete), ma sottolineo solo alcuni passaggi fondamentali per capire quale alterità abbiamo perduto e a quale conformismo ci siamo rassegnati.

Pasolini descrive una nuova categoria di militanti: “gli estremisti dei diritti”. Chi sono? Sono dei veri apostoli, che hanno come missione quella di convincere gli altri con le buone o con le cattive ad aver coscienza dei propri diritti. Ora, qui cominciamo a capire dove sta andando a parare il discorso, questi estremisti non sono già più comunisti, perché la lotta di classe e l’alterità degli sfruttati rispetto agli sfruttatori si è già stilizzata ed è diventata una faccenda interna alla coscienza borghese. La lotta di classe è stata sostituita dalla «inconscia guerra civile dentro l’inferno della coscienza borghese», scrive Pasolini («l’apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese – l’apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli – altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande. È un’inconscia guerra civile – mascherata da lotta di classe – dentro l’inferno della coscienza borghese»).

Perché Pasolini se la prende con l’emergere della coscienza dei diritti? Oltretutto, poche righe prima, ha riconosciuto come inaggirabile la preferenza per la democrazia da parte dei comunisti. Dunque ciò che Pasolini sta rimproverando agli “apostoli estremisti” non è di aver intrapreso la via dei diritti – cioè quel particolare modo di far avanzare l’emancipazione che consiste nel legittimare le conquiste degli sfruttati attraverso la tutela della legge –, ma di averlo fatto in funzione di quelli che egli stesso indica come i “diritti civili”. Non è quello che rimproveriamo ai pallidi eredi rimasti del Pci? Certamente sì. Ma Pasolini non anticipa il senso comune, anticipa lo spiazzamento del senso comune. Il problema dei diritti civili non è affatto, come vorrebbero altri eredi ancora più sbiaditi di quella tradizione, i “rossobruni” di oggi, di aver sostituito gli operai con le innumerevoli “minoranze” come soggetto della rivoluzione. Il problema non è la classe, è piuttosto il conflitto: cioè l’alterità (se il lettore ha solo la pazienza di giungere alla citazione finale, Pasolini lo dirà con una chiarezza esemplare). Anche i diritti sociali possono incivilirsi, cioè rientrare dentro l’inferno della coscienza borghese. Continua Pasolini: «Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i “diritti civili” che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere un’ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti – oppure laica in Francia – hanno assunto una colorazione classista. L’italianizzazione socialista dei “diritti civili” non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l’estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L’estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici  diritti dei padroni. L’estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l’identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese».

Ecco qui: l’estremista prende la faccia di Veltroni e di quella brutta storia che ci porta fino agli improbabili rappresentanti della sinistra di oggi. Apostoli, ma soprattutto apostati che hanno insegnato a tutti gli altri che l’unico sogno rimasto è che chi serve possa diventare padrone, chi è sfruttato possa ottenere l’identica felicità degli sfruttatori. Apostoli, ma anche zeloti che si sono incaricati di non lasciare altra possibilità di immaginare lo sfruttato se non come uno sfruttatore infelice. E coloro che ancora ammonivano che la questione è l’alterità, non l’identificazione, sono stati messi da parte, ignorati, derisi. Che meraviglia però questa sintetica definizione pasoliniana, che contiene in sé probabilmente una doppia critica. La critica ai zeloti estremisti, che hanno fatto della felicità degli sfruttatori niente più che una trappola del neocapitalismo, ma anche la critica ai comunisti scientifici, che sono scivolati ai margini della storia perché si sono dimenticati, a un certo punto, che il destino degli sfruttati aveva a che fare con la loro felicità, non con l’algida evidenza di una necessità oggettiva. Non un soggetto, ma un popolo. Questo era il cuore del comunismo e la sua alterità.

Ma c’è un ultimo passo da fare, in questo discorso che l’assenza di Pasolini consegna ai nostri tempi. Perché finora egli ci ha indicato cosa il comunismo non deve diventare (e cosa è diventato, possiamo aggiungere noi a posteriori). Ma la forza della sua lucidità sta nel consegnarci, cinquant’anni fa, un manifesto programmatico da cui ripartire adesso. Che sembra scritto per noi. Un testo sacro della sinistra che vorrei e, probabilmente, dell’unica sinistra che potrebbe non essere condannata al destino dei morti viventi. Innanzitutto Pasolini demolisce ogni argomento oppositivo, come già anticipato. La questione non è opporre diritti sociali a diritti civili, che tanto il neocapitalismo è in grado di risucchiare tutto nel gorgo profondo del conformismo e dell’identificazione. La questione è di ripartire dall’alterità di una forma di vita, così scrive Pasolini: «In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? È abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un’altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un’altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche – razzialmente diverse. E in realtà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei Consumi».

Posso dirlo? Queste parole mi commuovono. Perché in fondo, così mi pare funzioni, l’atto d’amore nei confronti di un poeta non è altro che gratitudine per l’atto d’amore che le sue parole rappresentano per me. Trovo in queste poche righe espresso con chiarezza ciò che provo e non so dire, ciò che mi muove e non so come. La lotta di classe è una lotta per la prevalenza di un’altra forma di vita, né di più né di meno. Il comunismo è la lotta di coloro che, proprio in quanto sfruttati, non vogliono diventare come sfruttatori. È questo il sogno del comunismo. Non è questione d’identificazione, ma d’alterità. È tutto trascorso, scolorito? Ormai l’identificazione si è estesa irreversibilmente, grazie anche all’operoso sforzo degli apostoli zeloti del centro-sinistra? La profezia di Pasolini ci consegna una speranza quasi ontologica, se mi si permette il termine. Oggettiva, si direbbe. Tra gli sfruttati e gli sfruttatori l’alterità si può cancellare, ma non si può rimuovere. Anche “in piena età dei Consumi”, scrive Pasolini. Si riferiva a un mondo che prometteva a tutti di divenire uguali, se solo tutti avessero smesso di fargli la lotta. Quasi tutti hanno smesso di fargli la lotta, in effetti. Ma la promessa di diventare uguali si è trasformata nel suo contrario: siamo divenuti sempre più diseguali. L’identificazione non ha cancellato l’ontologia e gli sfruttati continuano a non essere come gli sfruttatori. In piena età dei consumi, dunque, la lotta di classe è riesplosa. Gli zeloti erano solo profeti sbagliati: all’opera, dunque.

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