Prologo.
Ultimamente sono annoiato dalla maggior parte delle animate discussioni
culturali che attraversano il nostro paese, tanto quanto sono commosso a
immaginare – che è una delle poche cose che si può fare davvero, coltivare
l’empatia degli assenti – la sostanza storica delle parole lasciateci in
eredità da coloro che hanno nutrito la nostra generazione. “Sostanza storica”:
parole pubbliche che erano fatte di corpi e di sostanze materiali. Questo erano
gli intellettuali, non attori di un reality show ininterrotto chiamato
“politica”, ma persone che si scontravano, venivano al dunque e, in ogni caso,
nelle parole che mettevano al mondo ne percepivi le viscere, il sangue, la nuda
connessione tra le vite private e le utopie pubbliche. Intellettuale era chi
provava a discendere negli inferi della propria vita intima per risollevare non
solo se stessi, ma quante più persone possibili verso una forma di vita comune,
quella che riguarda tutti e non solo chi ne sussurra le parole, ne inventa le
direzioni. L’intellettuale come colui che trova parola nel disorientamento del
mondo, così mi pareva questo mestiere di scrivere e insieme di vivere.
Sarà per questo che anche l’anniversario di Pasolini mi è parso un evento
sospeso tra due mondi, letteralmente. Che poi erano già quelli che intuiva lui
stesso: uno smarrito per
cui non resta che un congedo che non riusciamo a concederci e l’altro che
è giunto tra noi e che fingiamo di non vedere per non soffrire di ciò
che annuncia, del soffio che sbatte le porte e frantuma i vetri e mette a
soqquadro la nostra acquietata coscienza borghese. Non è cambiato nulla, dopo
cinquant’anni. Ancora lo facciamo abitatore di due mondi che si sfiorano ma non
si amano, si succedono ma non si riconoscono, si sono nutriti vicendevolmente
ma fingono di non dover nulla l’uno all’altro.
Vale a destra, che tira Pasolini per la giacca come una figurina da possedere,
un ombrello sotto cui ripararsi, e se anche siam fascisti, l’importante è non
prendere la pioggia. Ma vale anche a sinistra, quella sinistra che usa Pasolini
per rafforzare la coscienza di una superiorità imperitura, una vera e propria
legge della natura, del resto mai potrebbe essere legge della storia visto che
la storia ci è sfuggita di mano e sta andando a grandi passi verso tutt’altra
parte. Ma noi accontentiamoci di stare al calore del nostro mondo antico e che
importa se tutti gli oppressi stanno ormai senza rifugio e senza parole e il
loro inferno è rimasto uguale, senza nemmeno più poter nutrire la speranza che
un tempo qualcosa o qualcuno rappresentava per loro. Gli oppressi, l’unico vero
e insensato amore di Pasolini. Amore non d’intimità ma d’alterità. Come vedremo
subito adesso che il discorso può tornare quel che è, una dissimulazione
dell’amore che lo muove. Quel che è per molti e per me, quel che non è mai
stato per lui.
C’è un
discorso di Pasolini che appare quello di un fantasma, di uno spettro. Lo legge
Vincenzo Cerami due giorni dopo la morte del poeta. Siamo al congresso del
Partito radicale, che celebra i trionfi che avrebbero costruito la sua epica.
Siamo all’inizio di novembre 1975. Pasolini non c’è più, è già uno spettro. Ha
avuto tempo e modo di scrivere quelle parole, ma la contumacia a cui il destino
le condanna è una metafora di un modo d’interpretare il nostro presente che il
suo pensiero rappresenta. È questo ciò che mi sconvolge di più rileggendolo ancora
adesso: la lucidità rispetto al (nostro) tempo presente, a partire dal
privilegio di essere assente. Chissà se questa lucidità in contumacia è
l’unica possibile per un intellettuale: se la lucidità non sia davvero solo ciò
che appare a cose fatte. E vi sarebbe comunque di che discutere, sul fatto che
la lucidità possa essere una dote pasoliniana, di un autore che è sempre parso
provocatore, viscerale, irriverente, complicato, inaspettato. Niente più della
sua scrittura mi appare sideralmente lontana da ogni more geometrico,
da ogni evidenza e pulizia dello sguardo. Come sia possibile che in questa
scrittura sempre impaziente vi sia stata tanta lucidità, anche politica, io non
riesco davvero a spiegarlo. Per questo vorrei proporre di tornare un istante a
quelle parole di uno spettro e a quell’evento. Facciamo quel che Pasolini ha
fatto – per fortuna nostra – raramente: andiamo con ordine.
Pasolini
tiene a presentare la propria alterità: non va a parlare con i radicali perché
è a loro prossimo, ma perché è da loro altro. La sua presentazione è nota e
suona, in contumacia, quasi come un testamento politico: «Prima di tutto
devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come
radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono
qui come marxista che vota Partito Comunista Italiano». Eccola
l’alterità di Pasolini, quella di un comunista. Che marca la distanza
persino da tutto ciò che oggi appare troppo radicale, quasi intollerabile agli
occhi della gente che dovrebbe rappresentare la sinistra. Pochi di loro si
definirebbero ancora progressisti, certamente nessuno socialista. Se lo fa il
sindaco di New York, viene considerato un potenziale sovversivo. È ovvio, lo
so: quel riferimento al socialismo va contestualizzato. Siamo in Italia, nel
1975 e il Psi si sta imponendo con tutta la prepotenza del suo
riformismo a uso e consumo del neocapitalismo. Un mix di potere e
consumo e, soprattutto, la presunzione (del tutto corretta, purtroppo e col
senno del poi) che la rivoluzione potesse fare la fine della locomotiva cantata
da Guccini: deviata su un binario morto, quello in cui abbiamo
barattato il sogno per tutti in un sogno che riguardava soltanto l’io,
l’universalismo delle classi con l’individualismo che avanzava nelle sembianze
di un’emancipazione e le promesse di cambiare non più il mondo ma la nostra
vita individuale. Non più il sol dell’avvenire ma la casa di proprietà
e le televisioni e tutto quel che è venuto dopo e non smette ancora di
accadere. Ma è proprio questo il punto: tutto quello che è venuto dopo, anche a
sinistra, sembra aver trattenuto in eredità questa sbiadita promessa falsa che
il neocapitalismo promuoveva e i socialisti italiani imponevano. Non il
sogno di un marxista che vota Pci, ma l’illusione che gli oppressi si potessero
elevare tramite la privatizzazione del mondo.
Non è che un
istante e siamo già nel tempo nostro. Dove certo giunge La Russa a celebrare il Pasolini
conservatore, ma sinceramente mi pare solo folklore, non cultura. Mentre ciò
che mi appare imperdonabile sono i Veltroni, i Napolitano, i Fassino, quelli
che si autoproclamano eredi legittimi e nessuno mai si potrebbe far
sfiorare dal dubbio che non lo siano. E che questa privatizzazione del mondo,
questo cedimento di un’intera tradizione, l’hanno perseguiti così
sistematicamente e violentemente da costruire una trappola con i mezzi e le
aspettative che appartenevano al bisogno di trovare una via d’uscita da ogni
trappola. Quella cosa che Pasolini rivendica e chiama ancora
Comunismo. Chi ha tradito davvero Pasolini? Chi lo strumentalizza
pallidamente e senza crederci nemmeno lui o chi aveva il dovere di leggerlo e
ha preferito dimenticarlo per realizzare alla perfezione il mondo sciagurato da
lui prefigurato? Pasolini sapeva la differenza che passa tra un
comunista e un radicale, un progressista, un socialista. Sapeva che ciò che li
distingue è un’alterità inquieta e irriducibile.
È a questo
punto della storia che quel discorso in contumacia appare così vividamente
attuale da far male. Perché,
davvero, Pasolini aveva capito tutto non solo della mutazione antropologica ma
anche della mutazione politica (soprattutto, aveva intuito che sono la stessa
cosa). E forse già allora – forse, perché il suo segretario era Berlinguer,
sulla cui eredità politica a me risulta difficile prendere posizione – aveva
capito che quell’estrema, ultima dichiarazione d’amore nei confronti del Pci
avrebbe pagato lo scotto di una doppia contumacia: del poeta ormai
assente ma anche del Pci già votato alla propria dissoluzione, pronto a
prendere le vesti del suo contrario, come accadrà qualche decennio dopo. Pronto
a cedere la propria alterità per diventare come i radicali, i socialisti, i
progressisti. E, così, perder definitivamente se stesso. Non posso seguir
tutto il discorso (si legge negli Scritti corsari, si trova
facilmente anche in rete), ma sottolineo solo alcuni passaggi fondamentali per
capire quale alterità abbiamo perduto e a quale conformismo ci siamo
rassegnati.
Pasolini
descrive una nuova categoria di militanti: “gli estremisti dei diritti”. Chi sono? Sono dei veri apostoli,
che hanno come missione quella di convincere gli altri con le buone o con le
cattive ad aver coscienza dei propri diritti. Ora, qui cominciamo a capire dove
sta andando a parare il discorso, questi estremisti non sono già più comunisti,
perché la lotta di classe e l’alterità degli sfruttati rispetto agli
sfruttatori si è già stilizzata ed è diventata una faccenda interna alla
coscienza borghese. La lotta di classe è stata sostituita dalla
«inconscia guerra civile dentro l’inferno della coscienza borghese», scrive
Pasolini («l’apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese –
l’apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di
realizzarli – altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il
borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese
impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese
grande. È un’inconscia guerra civile – mascherata da lotta di classe – dentro
l’inferno della coscienza borghese»).
Perché
Pasolini se la prende con l’emergere della coscienza dei diritti? Oltretutto,
poche righe prima, ha riconosciuto come inaggirabile la preferenza per la
democrazia da parte dei comunisti. Dunque ciò che Pasolini sta rimproverando
agli “apostoli estremisti” non è di aver intrapreso la via dei diritti – cioè
quel particolare modo di far avanzare l’emancipazione che consiste nel
legittimare le conquiste degli sfruttati attraverso la tutela della legge –, ma
di averlo fatto in funzione di quelli che egli stesso indica come i “diritti
civili”. Non è quello che rimproveriamo ai pallidi eredi rimasti del Pci?
Certamente sì. Ma Pasolini non anticipa il senso comune, anticipa lo
spiazzamento del senso comune. Il problema dei diritti civili non è
affatto, come vorrebbero altri eredi ancora più sbiaditi di quella tradizione,
i “rossobruni” di oggi, di aver sostituito gli operai con le innumerevoli
“minoranze” come soggetto della rivoluzione. Il problema non è la classe, è
piuttosto il conflitto: cioè l’alterità (se il lettore ha solo la
pazienza di giungere alla citazione finale, Pasolini lo dirà con una
chiarezza esemplare). Anche i diritti sociali possono incivilirsi, cioè
rientrare dentro l’inferno della coscienza borghese. Continua Pasolini:
«Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i “diritti
civili” che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere
un’ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti – oppure laica
in Francia – hanno assunto una colorazione classista. L’italianizzazione
socialista dei “diritti civili” non poteva fatalmente (storicamente) che
volgarizzarsi. Infatti: l’estremista che insegna agli altri ad avere dei
diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi
comanda. L’estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i
propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti
dei padroni. L’estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati
dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna
pretendere l’identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che
in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione:
cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese».
Ecco qui:
l’estremista prende la faccia di Veltroni e di quella brutta storia che ci
porta fino agli improbabili rappresentanti della sinistra di oggi. Apostoli,
ma soprattutto apostati che hanno insegnato a tutti gli altri che l’unico sogno
rimasto è che chi serve possa diventare padrone, chi è sfruttato possa ottenere
l’identica felicità degli sfruttatori. Apostoli, ma anche zeloti che si sono
incaricati di non lasciare altra possibilità di immaginare lo sfruttato se non
come uno sfruttatore infelice. E coloro che ancora ammonivano che la
questione è l’alterità, non l’identificazione, sono stati messi da parte,
ignorati, derisi. Che meraviglia però questa sintetica definizione pasoliniana,
che contiene in sé probabilmente una doppia critica. La critica ai zeloti
estremisti, che hanno fatto della felicità degli sfruttatori niente più che una
trappola del neocapitalismo, ma anche la critica ai comunisti scientifici, che
sono scivolati ai margini della storia perché si sono dimenticati, a un certo
punto, che il destino degli sfruttati aveva a che fare con la loro felicità,
non con l’algida evidenza di una necessità oggettiva. Non un soggetto,
ma un popolo. Questo era il cuore del comunismo e la sua alterità.
Ma c’è un
ultimo passo da fare, in questo discorso che l’assenza di Pasolini consegna ai
nostri tempi. Perché finora egli ci ha indicato cosa il comunismo non deve
diventare (e cosa è diventato, possiamo aggiungere noi a posteriori). Ma la
forza della sua lucidità sta nel consegnarci, cinquant’anni fa, un manifesto
programmatico da cui ripartire adesso. Che sembra scritto per noi. Un testo
sacro della sinistra che vorrei e, probabilmente, dell’unica sinistra che
potrebbe non essere condannata al destino dei morti viventi. Innanzitutto
Pasolini demolisce ogni argomento oppositivo, come già anticipato. La
questione non è opporre diritti sociali a diritti civili, che tanto il
neocapitalismo è in grado di risucchiare tutto nel gorgo profondo del conformismo
e dell’identificazione. La questione è di ripartire dall’alterità di
una forma di vita, così scrive Pasolini: «In che senso la coscienza di
classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili
marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti
(anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a
sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della
Resistenza)? È abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i
diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di
una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i
comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una
alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude
ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di
classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un’altra forma di
vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un’altra
cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche –
razzialmente diverse. E in realtà, in sostanza, ancora lo sono. In piena
età dei Consumi».
Posso dirlo?
Queste parole mi commuovono. Perché in fondo, così mi pare funzioni, l’atto
d’amore nei confronti di un poeta non è altro che gratitudine per l’atto
d’amore che le sue parole rappresentano per me. Trovo in queste poche righe
espresso con chiarezza ciò che provo e non so dire, ciò che mi muove e non so
come. La lotta di classe è una lotta per la prevalenza di un’altra
forma di vita, né di più né di meno. Il comunismo è la lotta di coloro che,
proprio in quanto sfruttati, non vogliono diventare come sfruttatori. È questo
il sogno del comunismo. Non è questione d’identificazione, ma d’alterità. È
tutto trascorso, scolorito? Ormai l’identificazione si è estesa
irreversibilmente, grazie anche all’operoso sforzo degli apostoli zeloti del
centro-sinistra? La profezia di Pasolini ci consegna una speranza quasi
ontologica, se mi si permette il termine. Oggettiva, si direbbe. Tra gli
sfruttati e gli sfruttatori l’alterità si può cancellare, ma non si può
rimuovere. Anche “in piena età dei Consumi”, scrive Pasolini. Si
riferiva a un mondo che prometteva a tutti di divenire uguali, se solo tutti
avessero smesso di fargli la lotta. Quasi tutti hanno smesso di fargli la
lotta, in effetti. Ma la promessa di diventare uguali si è trasformata nel suo
contrario: siamo divenuti sempre più diseguali. L’identificazione non
ha cancellato l’ontologia e gli sfruttati continuano a non essere
come gli sfruttatori. In piena età dei consumi, dunque, la lotta di classe è
riesplosa. Gli zeloti erano solo profeti sbagliati: all’opera, dunque.
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